La voglia di essere uomini

Il Centro culturale di Milano ha invitato a parlare Mirella Bocchini, fondatrice di "Incontro e Presenza", un'associazione che da venticinque anni assiste i detenuti. «Anche se tradita e seppellita, trovo la mia stessa struttura umana»
Pietro Bongiolatti

Le carceri italiane scoppiano, 67.000 persone sono stipate dove c’è posto per 45.000. Più della metà sono recidivi e non passa giorno in cui non si parli di sovraffollamento, indulto e suicidi. Un sistema con molte lacune, ma è possibile essere uomini anche in queste condizioni? Questo il tema della serata di giovedì 8 marzo organizzata dal Centro culturale di Milano con Corrado Limentani, avvocato penalista, Guido Brambilla, magistrato di sorveglianza e Mirella Bocchini, fondatrice di Incontro e Presenza, un’associazione che da venticinque anni si occupa di assistere i carcerati di Milano. A «moderare l’immoderabile», c’era Monica Poletto, presidente Cdo Opere Sociali che ha chiarito subito: non si sarebbe parlato di tecnicismi giuridici o di modelli da applicare: «A tema oggi c’è la vita, in quella situazione drammatica e dolorosa che è il carcere».

Il primo a raccontare la sua esperienza è Corrado Limentani, avvocato penalista del Tribunale di Milano: «Fino a quindici anni fa per me era impossibile parlare di aspetti positivi nelle carceri italiane». Poi ha cominciato a guardare il lavoro in maniera diversa: «Il mio scopo resta sempre quello di tirare fuori il cliente, ma ho scoperto che un rapporto umano che vada oltre al “caso” può essere utile a entrambi. Quando mi accorgo che l’uomo che ho davanti ha il mio stesso bisogno, diventa il miglior cliente del mondo. E così il mio lavoro ha un nuovo valore, e per lui la detenzione può non essere solo tempo perso».

Mirella Bocchini ha iniziato ad interessarsi dei carcerati quasi per caso. È entrata a San Vittore per la prima volta il 28 dicembre 1985 come consigliere comunale di Milano: «Tra quelli che ho incontrato, c’erano ex terroristi di Prima Linea. Pochi giorni dopo alcuni loro compagni sono venuti da me su loro indicazione, per fare qualcosa per migliorare la situazione del carcere. Io ho chiesto aiuto ad amici e da lì è nata Incontro e Presenza». Mirella Bocchini a San Vittore era andata con altri consiglieri, del Pci, di Democrazia Proletaria e dei Verdi: persone con cui i terroristi avevano fatto un cammino ideologicamente simile prima di darsi alla lotta armata. Eppure sono andati a cercare lei, cattolica, amica di quelli che prima bastonavano. «Quando gliel’ho fatto notare si sono messi a ridere», ha raccontato Mirella: «Mi hanno detto: “Secondo te qua dentro ci interessano ancora queste etichette?”. Si erano dissociati, si erano accorti di essersi sbagliati. Non solo in quello che hanno fatto, ma sull’idea di uomo».
È l'inizio di un rapporto. Spiega: «Io, i miei amici e gli ex terroristi avevamo la stessa struttura umana. Tradita e seppellita sotto tonnellate di cemento, ma c’era, passata attraverso un rogo di rimorsi e di dolore. Il nostro incontro è stato possibile per questo, poi è nata l’idea di essere presenza in mezzo ai carcerati, di qui il nome».

Mirella e i suoi amici cominciano a capire il mondo del carcere: «In galera l’uomo è spellato come le rane di Galvani: vedi tutti i muscoli e le fibre. In quella situazione uno aspetta solo qualcuno che lo incontri e lo guardi come un uomo. Capiscono in cinque minuti se sei lì per metterti a posto la coscienza o se hai piacere a star con loro, se anche per te quel momento è prezioso».
Così prezioso che quando nasce un'amicizia, se qualche volontario non si presenta all’appuntamento, per i carcerati è un dramma, anche se erano stati avvisati: «Manca qualcosa, non so cosa, ma manca» dicono i detenuti a Mirella, che ha osservato: «Ecco, per noi cristiani questo avvenimento che nasce tra noi e loro ha un nome: Cristo».

Così, se uno ci sta, può recuperare la voglia di essere uomo: «Scommettere sulla propria struttura umana e i propri desideri è un rischio per chi è in prigione, soprattutto per chi è abituato ai soldi facili», ha osservato Mirella: «La società dice che il bello della vita è avere la Porsche, il Rolex, le donne, lo sballo...». Ma come si fa a scommettere su una cosa che non ti promette niente del genere? «Solo se c’è qualcuno che già corre questo rischio ed è disponibile a farlo con te. E per me non è stato diverso, al liceo Berchet molti anni fa».
Spesso chi scommette vince, anche se non uscirà mai di galera. Come quel bandito sardo, pluriergastolano, che in permesso premio a casa di un volontario è rimasto colpito perché veniva trattato come uno della famiglia. Ha raccontato Mirella: «Gli hanno affidato il bambino di tre anni e se ne sono andati nella stanza a fianco. M’ha detto: “Quel bambino rideva, e rideva... Saltando su e giù sulle mie ginocchia di assassino”. Quando l’ho raccontato all’ex direttore di San Vittore ha detto: “Una cosa del genere vale più di mille progetti educativi in carcere”».

Ma non si può reggere da soli tutta la sofferenza che si vede dietro le sbarre. Le alternative sono due: «Come dice un mio amico: o si burocratizza la solidarietà e il nostro è un servizio come un altro, oppure si ha vicino qualcuno con cui confrontarsi. Con cui si vive un rapporto dove si mostra un brandello di società nuova, in cui il carcerato può inserirsi da subito e per sempre».
Quel pezzettino poi si allarga, lentamente, con modi e tempi impensabili. Come quel trafficante d’armi che aveva promesso che una volta uscito non avrebbe più fatto i soldi sul sangue delle persone. «Quando è uscito ha fatto altre “cosette”, ma ha mantenuto la promessa», ha raccontato Mirella. Ora è anziano, ha un alloggio popolare e porta fuori la spazzatura dagli uffici alle 3 di notte, ma sta recuperando i rapporti con la famiglia. «Il traffico d’armi gli fruttava milioni e milioni e odiava il mondo e se stesso. Ora è lieto, anche con 300 euro al mese perché una volta fuori non è rimasto solo. Il dramma è che per uno con cui nasce un'amicizia, ce ne sono migliaia con le mani tese».

Guido Brambilla, magistrato di sorveglianza del Tribunale di Milano sottolinea che proprio il rapporto con i detenuti è il punto su cui occorre lavorare di più nel sistema delle carceri: «In questo modo il detenuto prende coscienza di sé e scopre di non essere determinato dalla categoria criminologica in cui è infilato. Il punto è una nuova concezione di uomo. Spesso si tratta chi si ha davanti solo come “un caso”, mentre uno ha bisogno di essere amato, qualunque uso abbia fatto della sua libertà». Come con quella donna che si è presentata dicendo: «Sono una terrorista, ho ucciso due persone». «Le ho detto che prima volevo sapere il suo nome e cognome, perché contano più di quello che ha fatto. Si è messa a piangere. Ma lo dicevo a lei perché ho bisogno di dirlo a me stesso». Lo scopo del suo lavoro è trovare il percorso più adatto per rieducare ogni detenuto e reinserirlo nella società: «Ma cos’è la rieducazione? E cosa rende l’uomo giusto?», ha chiesto Brambilla. A fine serata hanno raccontato la loro esperienza anche Andrea Villa, presidente della cooperativa “Il Carro” di Paullo, e un ex detenuto, che ha spiegato: «Avere davanti dei volontari che mi guardavano come un uomo è ciò che mi ha permesso di reinserirmi nella società. O di inserirmi per la prima volta».