L'incontro di Famiglie per l'Accoglienza.

Otto sì di "ordinaria" accoglienza

Una serata con le testimonianze di Famiglie per l'Accoglienza. Da Raffaella e Marco, che hanno preso con loro tanti stranieri, a Stefania e Paolo, che hanno adottato Michele, affetto da sindrome di Down. Ecco il loro racconto
Maria Luisa Minelli

«Non dimenticate l’ospitalità. Alcuni, praticandola, senza saperlo, hanno accolto degli angeli». Monsignor Francesco Braschi, Dottore della Biblioteca Ambrosiana di Milano, parte dalla citazione di san Paolo, nella Lettera agli ebrei, per rispondere alla domanda che dà titolo all’incontro "Ospitare, perché? Storie di (ordinaria) accoglienza", organizzato dall’associazione Famiglie per l’Accoglienza, giovedì 5 novembre.

Ma per capire meglio queste parole occorre fare un passo indietro, e osservare innanzitutto il tavolo dei relatori dell’auditorium della parrocchia di Santa Maria Nascente di Milano. Un banco "sovraffollato": ad occuparlo, da lato a lato, sono Marco, Raffaella, Paolo, Stefania, Roberto, Angela, Ercole e Adriana, quattro coppie provenienti da Milano e Provincia. Non tutti prendono la parola, ma ognuno vuole essere presente, raccontare, anche solo con gli occhi, quello che ha cambiato la sua vita.

«I fatti che accadono in Italia e alle nostre frontiere ci provocano», spiega Pigi Colognesi, moderatore dell’incontro: «A conclusione del Sinodo per la famiglia e in seguito all’appello fatto da papa Francesco, che invita a "esprimere la concretezza del Vangelo" aprendo la porta delle nostre case, ci è sembrato interessante ascoltare le testimonianze di chi sperimenta questa "accoglienza", citata ben quattordici volte nella relazione del Sinodo».

L’invito, prima di passare la parola alle famiglie, è a non trascurare l’aggettivo "ordinaria", messo tra parentesi: «Quelli che vedete seduti accanto a me non sono supereroi, ma uomini consapevoli della loro debolezza e dei loro limiti». E nei racconti delle famiglie non vengono certo nascoste le difficoltà vissute. Come nel caso di Raffaella e Marco che hanno ospitato Masha, una ragazzina ucraina, arrivata in Italia senza conoscere la lingua, o Stefania e Paolo che, dopo quattro gravidanze non portate a termine, hanno deciso di adottare Michele, affetto dalla Sindrome di Down, per poi scoprire di essere miracolosamente in attesa di Giovanni, affetto dalla stessa sindrome. O ancora Adriana ed Ercole che hanno accolto Jones, nel pieno dell’adolescenza.

Storie ordinarie, dunque, perché umane. Otto semplici "sì" detti a qualcuno che bussava alla porta di casa nei modi più diversi: l'annuncio letto da una amica o da un parente. O, ancora, una segnalazione del Centro aiuto alla vita, come nel caso di Angela e Roberto che hanno accolto Stefania, giovane mamma incinta e abbandonata dal compagno, che «desiderava imparare cosa significa "famiglia" per non commettere un altro errore».

«L’accoglienza praticata diventa accoglienza sperimentata», commenta Braschi: «Quello che accade anche solo in un solo mese di ospitalità lascia tracce indelebili». Roberto e Angela in quindici anni hanno accolto persone provenienti da tutto il mondo: cinesi, albanesi, ucraini... «Ciò che più ci ha aiutato è stare a contatto con il dramma di questi uomini che hanno grandi domande sulla vita. Questo risveglia anche noi». Raccontano di un ragazzo tunisino con loro da qualche anno. Unico sopravvissuto sul suo barcone, è fuggito alla compagnia di "amici" del campo profughi perché non voleva passare la vita a rubare e spacciare, tutto grazie all’educazione ricevuta dalla madre. La stessa donna che, quando ha saputo che il figlio era vivo, ha speso gli unici soldi che aveva per comprare un capretto da regalare alla famiglia più povera della zona, in segno di ringraziamento. «Questa gratuità mi interroga ancora oggi», dice Angela.

«Sono storie ordinarie, ma forse proprio per questo eccezionali», commenta Colognesi: «Accogliendo ci si è accorti che si veniva accolti proprio facendo i genitori. Accolti nel proprio bisogno di vivere dando e ricevendo amore, un bisogno così elementare eppure difficile da riconoscere», continua Braschi.

Per questo racconta del progetto "Figli della speranza", nato dall’amicizia con alcuni sacerdoti ortodossi e dal bisogno di ospitalità di tanti bambini ucraini rimasti senza una casa o senza genitori chiamati a combattere. «Quando i bambini, accolti dalle famiglie italiane, sono tornati in Ucraina, hanno portato speranza alle loro famiglie. Un gesto di accoglienza porta frutti che non si possono immaginare. Persone a cui era stato tolto tutto, sull’orlo della depressione hanno ritrovato la forza di vivere. Ecco cosa genera un "sì"». Vengono alla mente le parole di san Paolo della Lettera agli ebrei: «L’angelo nella Bibbia è il segno più tangibile, prima di Cristo, della presenza di Dio. Un Dio che ti annuncia che sta facendo qualcosa nella tua vita e per il mondo».