Padre Mauro-Giuseppe Lepori

Lepori: «È disumano vivere senza domanda dell'infinito»

La vocazione, la vita monastica e la responsabilità. In un'intervista a El Mundo, l'abate generale dei cistercensi, padre Mauro-Giuseppe Lepori parla di sé. E della bellezza «capace di rigenerare il mondo»
María Serrano

L’ordine cistercense segue la regola di san Benedetto. La parola “regola” sembra oggi opporsi alla presunta libertà senza limiti che crediamo di aver conquistato in Occidente. Perché vivere obbedendo ad una regola?
La Regola di san Benedetto, come le Regole di altri padri o madri della vita religiosa, esprime fondamentalmente il desiderio di trasmettere ad altri un’esperienza di vita, l’esperienza di un cammino che ha condotto san Benedetto a vivere con pienezza la sua umanità, seguendo Cristo, ascoltando il Vangelo e facendo tesoro di una tradizione monastica che risale ai padri del deserto. Benedetto cioè esprime un amore per la pienezza di vita degli altri. Una Regola, se è appunto il frutto di un’esperienza, non mortifica ma esalta la libertà. Quello che l’uomo contemporaneo ha perduto è la coscienza che la libertà non è grande quando può fare quello che vuole, ma quando sceglie il bene, il bello, il vero, anche quando questa scelta comporta un sacrificio di sé per un bene più grande della vita e della stessa libertà. In fondo, l’obbedienza ad una Regola è libera se è vissuta nel desiderio di ciò che vale più della vita. La sorpresa è che proprio questo ci fa vivere con pienezza.

Quando e perché ha deciso di farsi monaco? E perché ha scelto di entrare nell’ordine cistercense?
Io studiavo teologia nella prospettiva di diventare sacerdote diocesano. Poi un giorno sono andato qualche giorno nell’abbazia cistercense di Hauterive per studiare tranquillamente per un esame di un professore severo. E fu un colpo di fulmine, mi innamorai di quella esperienza di vita che prima mi aveva sempre fatto paura. Ma questo avvenne perché non si trattò tanto di un incontro con un monastero, ma con Cristo che lì mi veniva incontro e mi riempiva di gioia e di amore per Lui e per tutti. Era come giungere ad un appuntamento fissato da sempre fra me e Dio, ma di cui io, fino a quel momento, non conoscevo la data e l’ora. Per cui non ho avuto l’impressione di decidere e scegliere io la vocazione, la vita monastica o l’Ordine cistercense. Mi sono sentito scelto da un Altro per vivere con Lui questa esperienza.

La vocazione è sempre una chiamata chiara, luminosa e concreta, o resta sempre in fondo un’ombra di dubbio?
Non ho mai potuto dubitare della vocazione perché, appunto, la vocazione per me è stata il dono di un Altro, e non ho mai potuto dubitare della scelta di Dio. Certo, ho spesso pensato che Dio non aveva scelto la persona giusta, né per essere monaco, né per essere abate, e poi abate generale. Ma chi sono io per giudicare le scelte di Dio? L’ombra che sempre accompagna il cammino di una vocazione è piuttosto in noi, nella nostra fragilità, nella nostra poca fedeltà, nella poca corrispondenza alla grazia dello Spirito Santo. Ma non è un dubbio sulla vocazione, è piuttosto un sentimento di contrizione che però aiuta a vivere la vocazione con umiltà, quindi con un’apertura più semplice all’opera di Dio in noi e attraverso di noi.

Padre Lepori durante l'incontro a EncuentroMadrid

Come è la giornata quotidiana di un monaco cistercense?
Ogni monastero ha le sue osservanze e le attività possono variare. Nel mio monastero di Hauterive la giornata è suddivisa fra preghiera, lavoro e risposo. La preghiera dell’Ufficio divino cantato insieme scandisce la giornata dalle quattro del mattino fino alle otto di sera. Ci sono poi tempi personali di preghiera e meditazione della Parola di Dio. Il lavoro occupa la mattinata e il pomeriggio, e va dal lavoro agricolo, all’accoglienza degli ospiti, e a tutti i lavori necessari per la vita della comunità. È una vita in fondo dove si “esagera” il tempo passato in preghiera e il tempo passato con i fratelli, perché cresca in noi e anche nel mondo la comunione con Dio e la comunione fraterna.

Che senso ha oggi una comunità monacale?
È un segno di come il Vangelo di Cristo possa condurre ogni uomo ad una pienezza di umanità, appunto facendoci crescere nelle due grandi dimensioni dell’amore crocifisso di Cristo: la comunione con il Padre e la comunione fraterna con tutti. Ma non è tanto un segno da vedere, che deve brillare e attirare l’attenzione. È più un seme che un segno visibile. È una realtà nascosta ma che, se è veramente reale, “si sente”. Un seme è un segno di vita, di fecondità, un bene per tutti, per il semplice fatto che ci sia, e più è nascosto sotto la terra, e più la vita che contiene potrà dare frutto per tutti.

In un certo momento storico, gli ordini religiosi diedero forma all’Europa. Passerà anche attraverso di loro la risposta per capire di nuovo che cosa è l’Europa e verso quale orizzonte si incammina?
Ciò che ha dato forma e bellezza all’Europa è anzitutto il cristianesimo. Gli Ordini religiosi che hanno meglio servito questa formazione sono stati quelli in cui i fattori e i valori fondamentali del Vangelo sono diventati esperienza quotidiana, incarnata nella vita di tutti. Sono gli Ordini che hanno perpetuato l’esperienza di vita fraterna e di relazione con Dio che lo Spirito Santo ha realizzato nella prima comunità di Gerusalemme dopo la Pentecoste. Ogni carisma nella Chiesa che rinnova, in mille modi diversi, questa esperienza, dà forma ad un mondo nuovo, o meglio: rinnovato, redento, cioè reso nuovo dalla morte e risurrezione di Cristo. Ogni civiltà ha sempre bisogno di questo rinnovamento, che è profondamente umano, ma nello stesso tempo un miracolo, un’opera di Dio nel mondo. L’Europa, come tutto il mondo odierno, vive un profondo disagio di identità, perché non fa esperienza di una realtà che giustifichi una speranza nel futuro. Si teme che il futuro sarà sterile perché non si vedono i semi che già germinano sotto la terra. Io i semi li percepisco, li incontro, e non solo nella vita religiosa, anzi! Sono piccoli? Sono pochi? Non importa! Un solo seme può contenere una foresta.

Il manifesto della kermesse madrilena

Dove si fonda la novità del messaggio di papa Francesco e perché attrae sia credenti che, soprattutto, non credenti?
Forse proprio per questo: perché trasmette una speranza che non è fondata su un’utopia o un’ideologia, ma sull’esperienza di una realtà che c’è, che è qui, anche se piccola e apparentemente insignificante come un seme. Paradossalmente, quello che in Papa Francesco attrae anche i non credenti è la sua fede, cioè la sua vita certa della presenza e dell’amore di Cristo. Una certezza che lo rende libero, che gli permette di incontrare tutti e tutto senza paura. E propone Cristo proprio come l’amicizia bella con Dio che, appunto perché è bella per lui, desidera condividerla con tutti. E tutti percepiscono che la sua proposta non è un calcolo, una pretesa sugli altri, ma semplicemente il desiderio di condividere qualcosa che è troppo grande per tenerlo solo per sé. Anche gli altri Papi erano così, ma la fiducia universale verso Francesco è una sorpresa dello Spirito.

In questa occasione visita la Spagna per approfondire il tema di EncuentroMadrid, “Feriti dalla bellezza”. Perché la bellezza ci infligge una ferita?
L’esperienza della bellezza ci richiama all’origine del nostro essere, all’atto creatore di Dio che, come leggiamo nel libro della Genesi, creando ogni cosa era Lui stesso pieno di meraviglia e diceva: «È cosa molto buona e bella!». All’origine dell’umanità c’è la ferita del rifiuto di questo dono, quello che si chiama peccato originale. È come se ogni vera bellezza, naturale o artistica, scavasse in noi la nostalgia di un dono immenso che abbiamo rifiutato.



Siamo tutti feriti dalla bellezza, anche senza esserne coscienti?
Sì, siamo tutti feriti, ma c’è come un’anestesia culturale che vorrebbe impedirci di sentire il dolore di questa ferita del cuore. C’è tanta falsa bellezza che rende l’uomo odierno apparentemente insensibile alla bellezza, come all’amore e alla verità. Quanto rumore, per esempio, ci stordisce affinché non ci fermiamo in silenzio ad ascoltare la musica che ci richiama al dono originale della bellezza di Dio, della sua amicizia.

Esiste la Bellezza con la maiuscola, oggettiva, trascendente?
È la Bellezza originale, cioè l’Essere in cui tutta la Bellezza è contenuta e che, creando, ha deciso di irradiare la sua Bellezza sulle creature, fino a creare l’uomo a sua immagine e somiglianza, cioè bello come Lui. La Bellezza originale coincide con l’Amore che la irradia, che la dona ad altri.

Nell’attuale situazione di guerra, terrore, crisi e paure, non sembra “poco urgente” parlare di bellezza?
È urgente ritrovare appunto la Bellezza originale, quella che irradia l’Amore che è origine e consistenza di tutte le cose, e soprattutto della creatura umana. La guerra, il terrore, l’odio fratricida sono proprio zone d’ombra in cui la libertà umana si nasconde dalla luce amorosa della Bellezza. Ma questa situazione tragica del mondo ci fa capire che non si può trattare della bellezza solo da un punto di vista estetico. Il mondo ha bisogno dell’esperienza della bellezza come amore, come perdono, come misericordia. Il mondo ha bisogno della bellezza della comunione fraterna.

Una serata durante i tre giorni (21-23 aprile) alla Casa de Campo

Dostoevskij ha scritto che «la bellezza salverà il mondo». Cosa può significare questo in concreto per l’uomo d’oggi?
È quello che ho appena detto. Le opere di Dostoevskij illustrano perfettamente come anche la condizione umana più degradata, più brutta, può rigenerarsi da un atto di umile amore che abbraccia l’umanità ferita.

Il terrore e la violenza in cui viviamo oggi sono frutto di un vuoto esistenziale? Se è così, qual è l’origine di questo vuoto?
Forse la migliore illustrazione di questo vuoto esistenziale è la situazione del figlio prodigo della parabola del capitolo 15 del vangelo di Luca. Questo giovane si ritrova senza lavoro, senza beni, senza famiglia, senza cibo, in mezzo ai porci. L’origine di questo è che ha abbandonato il padre, per un progetto di vita teso solo al proprio interesse, al proprio piacere. Per questo ha abbandonato un padre che era buono, e soprattutto era l’origine della sua vita, della sua cultura, di tutto quello che era come uomo. L’abbandono di chi ci genera, il rifiuto di costruire la vita sull’appartenenza ad un’origine, è questo che crea il vuoto nell’esistenza delle persone, soprattutto dei giovani. Ma spesso non sono i figli che abbandonano i padri, ma i padri che abbandonano i figli…

Il vuoto, la sterilità vitale, può essere un motore di ricerca, qualcosa che ci mette in moto, in cammino?
Infatti, il giovane della parabola, è proprio nell’esperienza del vuoto e della vanità della sua vita staccata dalla sua origine che “ritornò in sé” (Lc 15,17), e decise di tornare a cercare suo padre. Forse, se osservassimo bene, vedremmo che oggi moltissimi vivono in questa ricerca, spesso inconscia. Una società di pellegrini alla ricerca del padre perduto…

Perché secondo lei viviamo oggi rifiutando la domanda sul significato del vivere? È forse questo il grande tabù del XXI secolo?
Le ideologie dei secoli recenti, come l’immanentismo odierno, che crede di soddisfare la sete di assoluto nell’edonismo, il consumismo, il populismo, ma anche nello spiritualismo con cui spesso si concepisce la religiosità, l’immanentismo del “tutto-subito” dei mezzi di comunicazione odierni, distrae l’uomo contemporaneo dal proprio cuore, da quella sete di senso che normalmente inquieta l’essere umano di fronte al limite della realtà, al limite del nostro controllo sulle cose, al limite del nostro controllo dei rapporti, al limite della morte. Si pretende trovare il senso della vita senza riceverlo da un Altro, da un Mistero che è più grande della nostra vita. Appunto: il significato del vivere si è svincolato dalla domanda, perché lo si chiede a se stessi, o comunque a ciò che possiamo afferrare senza chiederlo, senza desiderarlo, senza attenderlo. Il significato non è più vissuto come una sorpresa, un dono gratuito. Basta pensare all’istintività possessiva e egoista con cui si pretende di vivere l’affettività, cioè la dimensione fisica, psicologica e spirituale che ci apre all’altro come spazio del dono di noi stessi e dell’accoglienza del dono che l’altro è per noi.

Padre Lepori a EncuentroMadrid

Si può vivere veramente senza affrontare questa domanda?
No, non si può vivere senza la domanda del significato, ma a volte è come se si riesca a vivere senza vivere, senza essere vivi. Confesso che guardando la gente, guardando tanti giovani come appaiono in tutti gli ambiti della società odierna, mi prende come un sottile terrore, perché è disumano, è mostruoso, vivere senza desiderio del senso della vita, senza domanda dell’infinito. E quello che mi spaventa è che, apparentemente, la gente sembra soddisfatta dell’immediato, della superficialità, e a volte della stupidità. Ma poi mi dico che questa tentazione c’è sempre stata, e ogni epoca ha presentato i suoi sintomi di superficialità nel vivere l’umano. In fondo, è dal peccato originale in poi, quando Eva ha creduto che il frutto proibito potesse soddisfare tutto il desiderio del suo cuore e del cuore di Adamo, che il degrado dell’umano ha consistito nel credersi soddisfatti dell’immediato. Dio ha fatto allora all’uomo il dono paradossale della morte, cioè di un limite che non si può schivare e di fronte al quale la domanda della vita non può non sorgere. E da allora, anche la bellezza non può non ferire, perché è un bene che ci sfugge e che ci sembra destinato a finire, a esserci strappato per sempre. Ma che proprio in questa ferita, in fondo a questo dramma umano in cui all’uomo sembra di perdere tutto, Dio, Bellezza totale e infinita, sia venuto a morire per noi, questo è il capovolgimento di ogni esperienza del limite. La Croce di Cristo è il capovolgimento della condizione umana, perché grazie ad essa il perdere tutto diventa un possesso totale e infinito. Là dove la vita è tolta, persino al Figlio di Dio, in realtà ci è donata per sempre. Da allora il senso della vita è questa sorpresa che nessun uomo poteva immaginare, né meritare, e neanche domandare. E questa sorpresa raggiunge l’uomo d’oggi come ogni uomo della storia.

Nel contesto storico, sociale e culturale oggi dominante, è possibile raggiungere la felicità? È possibile per tutti?
Quando mi trovo nei Paesi più poveri, in megalopoli caotiche e disumane come Addis Abeba, São Paulo, Saigon o La Paz, istintivamente mi sembra impossibile che in quelle condizioni e in quella durezza di vita sia possibile essere felici. Ma se guardo bene, se guardo oltre le apparenze che scandalizzano il benestante e benpensante europeo che sono, immancabilmente scorgo che anche quelle situazioni, e forse soprattutto esse, sono costellate di incontri, di relazioni umane, di dialoghi di amicizia, di sorrisi, di gesti di compassione, e allora devo arrendermi all’evidenza che la bellezza di ogni bellezza, che è l’amore, la comunione, è un avvenimento invincibile, insopprimibile, e so e credo che misteriosamente ha sempre la forza di rigenerare il mondo umano, perché l’amore è la vera Bellezza di Dio.

Dove trova, lei, la pace?
Ho come l’impressione che non sono io che trovo la pace, ma la pace che trova me. Un po’ come la pecora perduta che non trova lei il buon pastore, ma che è ritrovata da lui. Questa coscienza, che sicuramente è stata educata in me dalla vita monastica nel carisma di san Benedetto, mi ha insegnato a fermarmi, a fare silenzio, ad espormi alla ricerca del Buon Pastore che sta percorrendo monti e valli per darmi la pace. E quando Lui viene, e me la dona, io so che non potrò tenerla solo per me. La pace non è mai un bene individuale: è per tutti. Altrimenti non è vera. Meglio rimanere inquieti, mendicanti della pace, che riceverla senza trasmetterla. L’esperienza che ho sempre fatto è che la porta della nostra pace con Dio e in Dio è la riconciliazione con i fratelli. È proprio come la bellezza: più è condivisa e più risplende. Non per niente, nella Bibbia, la colomba è contemporaneamente il simbolo della bellezza e della pace.