Padre Pietro Tiboni

«La risposta è Cristo. Ma prima serve la domanda»

Ieri è morto a 92 anni padre Pietro Tiboni, missionario comboniano in Uganda dal 1970. È all'origine della comunità di CL nel Paese africano. Qui una sua testimonianza al Meeting di Rimini del 1988
Pietro Tiboni

La mia intenzione è parlare del cammino fatto e della bellezza scoperta durante questi ultimi anni, da quando ci è stato proposto di approfondire il senso religioso. I miei amici africani dicono: «Una risposta senza domanda è un non senso». Se manca la domanda, il desiderio di infinito, la scoperta della propria umanità, allora anche Gesù Cristo resta come una risposta a una domanda che non esiste. Noi dicevamo: «La risposta è Cristo», ma per capirla ci deve essere la domanda; Cristo è cibo, come dice la Scrittura, ma se non si ha fame non si può desiderare il cibo; Cristo è l’acqua che soddisfa la sete, ma se non si ha una sete infinita non si può capire che Gesù Cristo è l’acqua che sazia. Così, se non si ha una grande domanda, non si può assolutamente scoprire la grandezza di Cristo nella propria vita. Quindi il nostro lavoro è stato su due punti molto semplici: 1) la scoperta di quello che si trova in noi come desiderio infinito; 2) la scoperta che Gesù Cristo è la risposta a questo desiderio.

Vorrei fare un’osservazione prima di andare avanti. È diffuso il giudizio secondo cui gli africani sono diversi dagli europei, o dagli americani o da altri e, infatti, tra gente di diversa cultura che vive in diverse situazioni, c’è una differenza enorme che rende impossibile intendersi. È chiaro, ad esempio, che c’è differenza tra uno che va a mangiare all’albergo spendendo cinquantamila lire, dorme tranquillamente, ecc., e un altro che non sa se alla mattina avrà ancora il letto o, addirittura, se sarà ancora vivo, così come ci sono enormi differenze di cultura.

Ho però scoperto che quando si pone la domanda fondamentale, quando si aiuta la gente a chiedersi «ma io chi sono?», quando si aiuta a scoprire quel desiderio di verità e di felicità che si trova in noi, allora la gente si risveglia come da un sonno e si trova perfettamente unita e uguale e non c’è differenza tra un africano e un cinese.

Davanti alle domande fondamentali gli uomini vengono fuori con la stessa profondità e percezione di vita in modo che anche il più ignorante può parlare con chi è più istruito purché sia su questo punto: non esiste assolutamente nessuna differenza tra gli uomini purché si guardino da questo punto di vista, come uomini creati da Dio il cui destino è Gesù Cristo. Quando invece non c’è questa prospettiva è chiaro che le differenze e le divisioni sono infinite.

Con la comunità di CL, Kampala, 1988

È interessante come la Scuola di comunità produca un grande senso della realtà, un grande realismo; il senso religioso, infatti, è quello che ci fa scoprire intorno a noi lo spessore della realtà e che comincia a mettere in moto la nostra vita. Scrive Rose (una ragazza che vive l’esperienza di CL in Uganda, ndr): «Qualche volta mi sento così strana perché la realtà mi invade ed io non so come nascondermi da essa. Anche se giaccio a letto mi risuona nelle orecchie e sono spinta ad alzarmi per affrontarla con coraggio. Il desiderio cresce sempre di più e spesso sono spaventata, mi chiedo dove mi conduca. Ma l’incontro mi fa scoprire qualcosa di più grande: il desiderio e la domanda la cui risposta e compimento è Gesù Cristo. Questa risposta sarebbe senza senso se non ci fosse la domanda che è il desiderio».

Da noi si pensa che il desiderio, diciamo il senso religioso, non abbia rilevanza nella vita. Invece la prima rilevanza è proprio questa: vedere come i nostri africani, attraverso il senso religioso, acquistano lo spessore della realtà e la capacità di affrontarla.

Ricordo che nell’agosto ’86 ero andato a Kitgum per un corso che cadeva nei giorni della festa dell’Assunta. Incominciò la guerriglia e le strade furono chiuse, cosicché rimasi là per quattro mesi. Il lavoro diminuiva perché gli attacchi erano molto frequenti, anche giornalieri; gli ospedali erano pieni di feriti e la gente era disperata perché non aveva da mangiare. Anche i nostri volontari non potevano sviluppare, in quelle condizioni, quei progetti per cui erano là. Così io ho detto loro: «È importante studiare a fondo il senso religioso». Qualcuno osservò: «Ma che valore ha studiare il senso religioso quando ti trovi in una situazione in cui le pallottole ti sfiorano, in cui ci sono dei problemi veramente immediati di sussistenza?». Io continuavo a ripetere: «Utilizziamo il tempo libero che abbiamo e facciamo uno studio sul senso religioso». Così facevo “scuola di senso religioso” tre o anche quattro volte al giorno in inglese, in acholiz, e poi in italiano con i volontari. Abbiamo fatto un lavoro intenso dentro quella situazione, ed abbiamo scoperto, come sentirete dalle testimonianze che vi leggerò, che a noi e agli africani l’approfondimento del senso religioso ha permesso di affrontare la realtà. Non sono state né la nostra bravura, né quella degli africani che hanno portato una vita così piena dentro una situazione tanto difficile, ma è stato proprio il lavoro per scoprire la grandezza del sentimento religioso dentro la concretezza della vita.

All'Udienza con Giovanni Paolo II per il trentennale del movimento

Io non mi stupisco che tanta gente non capisca questo. Non mi stupisco neanche che tanti giornalisti non percepiscano niente su quello che è il Meeting di Rimini, perché non hanno fatto ancora nessun lavoro sulla loro umanità e, non avendo ancora scoperto di essere uomini, non essendosi ancora svegliati, si preoccupano dei socialisti, dei democristiani, ecc., che proprio non c’entrano niente, perché non è la politica che sta al primo posto.

Per commentare un po’ le cose dette voglio leggere alcune testimonianze. C’è tanta gente generosa la quale pensa che la felicità consista nel sacrificarsi per gli altri, nell’incontrare i poveri, nell’essere eroici. Rose racconta di come ha deciso di dare la sua vita per i poveri: è diventata infermiera (nel corso di infermiere in un ospedale di Kampala dove si incontrano molti casi di Aids, di incidenti stradali, di lebbrosi, eccetera) ed ha subito scoperto che la felicità non può derivare dal fatto di servire i poveri, ma ha bisogno di qualcosa di più grande.

Ecco la lettera di Rose: «Cercando la felicità e il compimento di me stessa ho desiderato e scelto di servire i poveri e gli oppressi e ho deciso di essere infermiera. Ma che senso ha ciò? Perché sono invece infelice? Ogni gesto ha valore se porta felicità. Se non porta a quella felicità per cui siamo creati, ma porta rabbia e frustrazione vuol dire che quello che si vive non è vero, c’è bisogno di qualcosa di più grande. Ma che senso ha ciò, perché sono infelice? Ho scelto Cristo per essere felice ma ciò che vedo ogni giorno è morte e distruzione. Perché devo affrontare tutto questo? Sono sola, senza esperienza e debole. Solo Dio può essere risposta a ciò. Un giorno, tornando dal reparto ero triste e mi fermai dinanzi alla statua di Maria: chiesi a Gesù Cristo di sostenermi e di darmi almeno due compagne. Mentre mi avviavo verso la mia stanza notai due infermiere che mi guardavano. Quando fui vicina a loro mi sorrisero e vennero con me. La mattina le due ragazze erano vicine al mio letto, chiesi loro di uscire fuori, proposi la Consacrazione a Maria e loro capirono. Quasi d’un fiato spiegai ciò che avevo scoperto e una di queste disse che aveva desiderato luce e intelligenza, che aveva chiesto al Signore e ora credeva di averle trovate. La sera tornarono ancora a cercarmi e divennero per me un grande segno di qualcosa di più grande: un dono».

Padre Tiboni nel 2011

È quella che si chiama la comunione di Cristo. Non si può vivere felici, sperimentare la felicità di sé, eterna, infinita, senza un’amicizia che sostenga (non un’amicizia qualsiasi), senza delle compagne con cui poter vivere il mistero di Cristo presente. E ancora parlando della vera amicizia: «Ho amici e molti parenti, ma nelle mie difficoltà penso a Giovanna e a Yvonne. Spesso neppure manifesto loro i miei problemi, ma quando sono con loro mi sento sostenuta. Quando sono depressa posso stare con molte amiche, parlare, ridere e danzare, ma continuo a sentirmi sola e perduta. Con gli amici del movimento sono come un bambino nel seno della madre. Come desidero che essi siano presenti nell’ospedale: viviamo la stessa vita e condividiamo i problemi. Sapere che c’è qualcuno che è interessato alla mia vita mi dà la forza per affrontare i problemi e le tentazioni. Un giorno non stavo bene, soprattutto per la solitudine: rimasi stupita che il dottor Yvonne venisse subito in risposta alla mia richiesta spendendo tempo e benzina per ascoltare con pazienza un non senso. Mi vergognavo di averlo chiamato, ma ero piena di gioia perché sentivo di appartenere a loro. Questo ha cancellato i miei piani di vivere per i fatti miei. Ora sono come un cilindro di gas che viene ogni volta riempito, e quando incontro Giovanna e Yvonne mi sembra che le parti vuote vengano riempite e quelle storte raddrizzate. Attraverso di loro, incontro il carisma ed è questo carisma che io seguo, a cui appartengo e nel quale cresce la mia libertà».

La necessità quindi di un sostegno, di appartenere per affrontare anche la scelta, diciamo eroica, di lavorare con i lebbrosi, con i malati di Aids in situazioni molto difficili. Leggo ancora due testi di Rose perché pur essendo uguali a tutti gli altri hanno una chiarezza che forse è maggiore: «Mentre mi recavo da Eugenia (è una di quelle prime compagne che aveva incontrato e che la sostiene di più nel sentimento della presenza del destino, ndr), passando per l’ambulatorio vidi qualcosa sotto il tavolo, come un corpo senza vita. Mi piegai mentre un’infermiera diceva: “Lascia stare, è un uomo che cammina a quattro gambe. Guarda i suoi moncherini e i suoi piedi”. Era già notte, il lebbroso era partito alle sette di quel mattino, aveva impiegato tre ore a percorrere un chilometro che lo separava dall’ospedale, era ammalato di dissenteria e aveva chiesto di essere curato. Gli era stato rifiutato il modulo di ammissione in quanto non aveva pagato la tassa richiesta. Era debole, depresso e mi diceva: “Potessi morire ora, che senso ha per me vivere?”. Io non avevo un soldo per aiutarlo ma strappai un formulario dalla mano di un’infermiera, posi il lebbroso su una carrozzella e mi avviai decisa verso il medico di guardia. Anche il medico dapprima gridò rivolto verso me, poi chiese: “Che male ha il vecchio? È tuo parente?”. Allora parlai e il medico mi chiese se ero una suora: “No, sono cristiana nella Chiesa cattolica”. Ed egli disse: “Ma questa mattina c’erano qui delle infermiere che erano anche delle suore”. Risposi: “Se avessi avuto denaro lo avrei aiutato perché anche egli è un uomo e appartiene a noi”. “Che cosa intendi dire con il fatto che appartiene a noi?”. “Voglio dire che se anche è lebbroso, egli appartiene allo stesso nostro destino e la sua umanità ha la stessa dignità. Senza questo riferimento a Dio noi stiamo costruendo nell’aria, senza fondamento, e quindi anche la nostra vita insieme a quella dei nostri amici dipende proprio da nulla”. Il medico mi guardò con stupore e disse: “Né i salvati, né i religiosi mi hanno mai richiamato così”. Prese una scheda, visitò il malato e scrisse che doveva essere aiutato gratuitamente. L’ora era tarda e non sapevo dove sistemare il lebbroso. Le infermiere, mie amiche, ridendo dicevano: “Portalo nel tuo letto”. Risposi: “Lo farei se non fosse contro il regolamento, perché anche lui è uomo ad immagine di Dio”. Il medico mi chiamò dentro e mi chiese se appartenevo a qualche istituto religioso. Risposi che ero cattolica del movimento di CL. Volle che spiegassi perché quello che avevo detto alle infermiere aveva suscitato il desiderio di ascoltarmi. Dissi: “Le mie amiche infermiere non capiscono che il movimento ci insegna a portare Cristo in tutti gli aspetti della vita, nella vita di ogni giorno, con una coscienza nuova. Noi portiamo Cristo non solo nella chiesa di mattoni, ma in tutta la vita. Il lavoro dell’uomo è così grande che anche Cristo ha dato la sua vita per salvarlo”.

Desideravo avere vicino la compagnia perché non sapevo come fare con il vecchio lebbroso, anche le mie amiche infermiere mi deridevano invece di aiutarmi. Andai in cucina a chiedere cibo per il malato e mi risposero che se volevo dare cibo dovevo rinunciare alla mia cena. Ero molto affamata e non mi sentivo di stare a digiuno. Ma non c’era via d’uscita: diedi il mio piatto al lebbroso che aveva molta fame. Le infermiere mi chiesero: “Ma ora userai il tuo piatto?”. “Certo”, risposi. Portai il malato in un angolo della stanza, gli diedi la mia coperta e il pullover ed egli si addormentò in pace. Mi venne in mente il testo che avevo studiato con Eugenia: “Vivere il Mistero con gioia”. Quando arrivai, trovai il tè preparato da lei. Lo bevvi e mi addormentai nonostante la fame. Avevo incontrato, infatti, nel lebbroso qualcosa di più grande del cibo per il mio stomaco affamato. Al mattino incontrai il medico che andava a visitare il lebbroso e mi disse: “Prega per me”. Questo è un esempio del modo di affrontare in concreto situazioni come queste e gli esempi si potrebbero moltiplicare». (...)

A La Thuile, all'Assemblea responsabili di CL, nel 1998

Ed ecco la testimonianza di Charles: «Finiti gli studi di economia mi trovai a lavorare nel Ministero delle finanze. L’aver trovato lavoro in modo insperato non era però sufficiente. Per la mia felicità era necessario proporre il movimento. Avevo sperimentato durante gli studi l’importanza di una compagnia e mi sentivo nella impossibilità di vivere senza di essa nell’ambiente di lavoro. Ciò sembrava impossibile perché gli impiegati erano solo preoccupati di trovare le vie per guadagnare e questo era il loro unico desiderio. Il salario infatti è sufficiente a coprire le spese di pochi giorni lasciando scoperto tutto il resto del mese. Il metodo comune è quello di non mandare avanti nessuna pratica senza ricevere soldi dai clienti. La proposta del movimento era, così, impossibile perché avrebbe richiesto un tipo di servizio al pubblico che toglie la possibilità di vivere. Era impossibile quindi, rinunciare a chiedere dei soldi sottobanco. La situazione conteneva una grande provocazione ed io cominciai a servire il pubblico con attenzione e gratuità. Mentre gli impiegati, miei amici, mi osservavano per vedere come me la sarei cavata, la gente, servita con gratuità, si mostrava contenta e gratuitamente mi dava degli aiuti. Per proporre il movimento agli altri impiegati capii che prima di tutto dovevo vivere con verità il movimento per me stesso e da questo doveva venire la possibilità di proporre ciò che era vero per me. Decisi di preparare un volantino in cui proponevo il movimento. Lo diffusi e lo esposi in tutti i luoghi del Ministero. Fu così che con alcuni che cominciavano ad essere interessati, iniziai la Scuola di comunità per poter studiare insieme e crescere. Questo mi ha portato a poter avere nell’ambiente di lavoro una compagnia che mi permette di vivere con senso e di cambiare l’ambiente».

Il desiderio è che là dove si è possa sorgere una compagnia che ci sostiene attraverso cui cambiare l’ambiente. E qual è il metodo? Il metodo ha due vie: la prima è il chiedere. Perché è chiaro che noi non possiamo rendere Cristo presente, ma chiediamo che Cristo venga e per questo usiamo molto la Consacrazione a Maria. La seconda via è il coraggio di proporre, perché se uno non ha coraggio e ha paura, non può incontrare nessuno, mentre se qualcosa è importante per la tua vita allora lo proponi. Il primo fattore è scoprire quello che è importante per la mia vita: se io scopro che la presenza di Cristo, la comunione in Cristo, è importante per la mia vita, non posso non comunicarlo agli altri. La preghiera è questa capacità di proporre una vita là dove si vive, è essenziale per poter avere la gioia.

Vorrei dire che questa proposta grande di un incontro con Cristo è bella, efficace in tutte le situazioni e ogni situazione va affrontata così. Non fa differenza che sia una situazione di guerra, o di fame, o di malattia. Non è assolutamente sufficiente portare il pane agli affamati e non risolve niente. Portare gli aiuti agli affamati considerandoli prima di tutto poveri che hanno bisogno di aiuto è un’offesa, un atto di disumanità. Dai poveri si va perché sono uomini con il desiderio di una comunicazione di vita e di una comunione. Dentro questo si fa tutto il possibile anche per aiutare la povertà. Anche nell’attività per quello che si chiama “terzo mondo”, non si può accostare la gente se non dal punto di vista di questa umanità piena dentro alla quale si tiene conto di tutto, anche di quello che si può fare per la salute e per aiutare gli altri.

(testo non rivisto dall’autore)