«Verso il destino, anche zoppicando. L'importante è camminare»

Il rapporto con la realtà. Julián Carrón ritorna sull'architrave di tutto il pensiero di don Giussani, per rispondere alla domanda: come si fa a vivere? L'incontro su Il senso religioso a BergamoIncontra
Carlo Dignola

È che la realtà non la fai tu: puoi guardarla, imparare ad amarla, oppure puoi provare a ignorarla ma a contraffarla alla fine non ce la fai, quando la punta dell’iceberg dell’Essere ti tocca davvero: «Un interno con stelle di carta, posso inventarmi io. La magia di un incontro rubato, posso inventarmi io. Ma poi, ma poi non lo so. Io come farò a inventarmi te, per poterti davvero toccare? Io come farò a imparare che si può vivere senza un amore? I tuoi occhi no la tua bocca no, io non me li posso inventare, la presenza no la tua assenza no, io non me la posso inventare».

Gli Esercizi della Fraternità di CL a Rimini erano iniziati con una canzone, struggente, di Francesco Guccini, Farewell. La serata su Il senso religioso di don Giussani organizzata da BergamoIncontra inizia con Io come farò uno dei brani più belli (e sottovalutati) di Ornella Vanoni, scritto da Gino Paoli negli anni Ottanta. Giusto una chitarra nuda e la voce di Maria Valentini che si arrampica con grazia sulla via alta e impervia. Centro Congressi strapieno, sindaco di Bergamo Giorgio Gori in sala, i saluti affettuosi del vescovo Francesco Beschi letti dal palco, poi Davide Settoni, dell'Associazione BergamoIncontra, apre Il senso religioso al capitolo Dieci, dodici pagine in cui sta «la chiave di volta della concezione di Giussani»: «È il capitolo più importante, secondo me – ebbe a dire lui stesso – di tutto quello che ho detto, di tutto quello che ci siamo detti».

Anche a Julián Carrón quelle pagine stanno «particolarmente a cuore», come del resto l’osservazione esistenziale, come al solito lucida, di Maria Zambrano, che le riecheggia: «Ciò che è in crisi è questo nesso misterioso che unisce il nostro essere con il reale, qualcosa di così profondo e fondamentale che è il nostro intimo sostento».

Julián Carrón

La diagnosi sta in una breve frase di Benedetto XVI, nel suo testo sulla pedofilia nella Chiesa che ha fatto tanto discutere: un micro-inserto che nessuno ha notato, in cui il Papa emerito cita «il monito che il grande teologo Hans Urs von Balthasar vergò una volta su uno dei suoi biglietti: “Il Dio trino, Padre, Figlio e Spirito Santo: non presupporlo ma anteporlo!”».

Ecco, dice Carrón, noi facciamo esattamente il contrario con la realtà: la diamo per scontata, e man mano che gli anni e la loro nebbia si accumulano a velare il nostro sguardo la percepiamo sempre meno: se qualcosa di straordinariamente brutto, o di straordinariamente bello, non squarcia le nostre abitudini andiamo verso una progressiva cecità, complice del “positivismo”, la grande riduzione epistemologica in cui siamo tutti immersi da qualche secolo. E il risultato è un calo non del nostro “spirito religioso”, ma dell’intelligenza, diceva Giussani nella sua spietata fenomenologia, e Carrón lo ricorda: «Un individuo che avesse vissuto poco impatto con la realtà avrà scarso il senso della propria coscienza, percepirà meno l’energia e la vibrazione della sua ragione».

Davide Settoni dell'Associazione BergamoIncontra

Racconta una camminata sopra La Thuile, Carrón, un brasiliano che accompagna un amico del Mozambico in Val Vény, prima tra gli abeti, poi verso la svolta del sentiero in cui improvvisamente compare, vicino, il massiccio del Monte Bianco: e l’africano che tace davanti a qualcosa che non aveva mai visto, e neppure immaginato: «La prima reazione di fronte alla realtà è lo stupore». Così come per uno che esca da mesi di coma «quello che vede è tutto tranne che ovvio. La meraviglia si impossessa di noi quando uno non dà per ovvia la presenza del reale».
Il difetto del nostro modo di vivere è che «spazio per il dato non c’è: abbiamo già troppe cose da fare», che si sovrappongono a quell’attrattiva originaria che è «il primo sentimento» di un essere al mondo cosciente. Carrón torna al testo di Giussani per dire che «la religiosità nasce dallo sviluppo di questa attrattiva», e non c’è niente di più «superficiale che ripetere che la religione sia nata dalla paura. La paura non è il primo sentimento dell’uomo. La paura sorge in un secondo momento, come riflesso del pericolo percepito che quella attrattiva non permanga». In principio è «l’attaccamento all’essere, alla vita, è lo stupore di fronte all’evidenza».

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Non si tratta, avverte però, di imparare un discorsetto sullo “stupore”: «Tra il dire una cosa e che questa accada davvero nell’impatto con la realtà, c’è di mezzo il mare». Si possono ripetere a memoria parole geniali mentre «in fondo il nostro elettroencefalogramma continua a essere piatto». Il test, inesorabile, per capire se hai imparato il discorsetto a memoria o invece hai cominciato a percepire la faccenda è «se sei grato e lieto della vita che ti è data, o invece ti lamenti».
«Tutto cambia quando comincio a dire “io” con la consapevolezza che è un altro che mi sta facendo». È questa “la preghiera”, non una ridotta pietà, ma «la coscienza di sé spinta fino in fondo, che finisce per imbattersi in un altro, in un Tu che ci sta dando la vita: il fatto che io sono, significa che io sono fatto».
Non è facile che questo «diventi veramente esperienza», e arrivi quindi a dare «un equilibrio ultimo alla vita»: ma l’unica strada che si può percorrere non è il pietismo, o un moralismo “religioso” o una teoria sulla fede – questo l'insegnamento-chiave di Giussani, insiste Carrón, come emerge da questo Decimo capitolo – ma «vivere il reale; vivere intensamente il reale». Non sarà “fare atti religiosi” a metterci il cuore in pace: «Tante volte noi oggi restiamo solo sulla soglia» delle cose, ma il «positivismo, il razionalismo» ridotto a cui ci siamo abituati «ci soffoca», se un incontro con un uomo più vivo non ci «trae alla nostra vita e alla felicità».



Alle domande, alla fine della serata, su come affrontare, ad esempio, quei pezzi di realtà che non appaiono affatto “un bene” per noi stessi, Carrón ha risposto parlando di sé: di fronte a certe critiche ricevute – dice – a volte «tornavo a casa con una ferita. Percepivo l’ostacolo. Invece poi ho accettato questa provocazione, e ho cominciato a capire che tutto era per me, indipendentemente dalle intenzioni degli altri. Se è vero quello che abbiamo detto stasera, vuol dire che è positivo tutto quello che accade». Il problema è non pensare che basti «ripetere in modo devoto» le parole di don Giussani, e la realtà, con i suoi momenti di scandalo, «ci è data proprio per questo. Gli altri sono amici non perché abbiano ragione sempre, ma perché mi provocano. Sono amici anche aldilà delle loro intenzioni, perché mi rilanciano nel cammino verso il mio destino».

Non ci sono «circostanze complicate» che, ultimamente possano bloccare la dinamica di fondo della vita, se noi non lo vogliamo: «Vedo persone fiorire anche nella malattia. Ammalati molto gravi che quando rientrano in ospedale per le cure i medici sorridono, perché – lo riconoscono tutti – quella presenza, positiva, riempie tutto l’ambiente. E a quell'uomo chiedono se può andare al piano di sotto a parlare con un altro ammalato che ha solo una parte dei problemi che ha lui, ma è depresso. Uno può camminare al Destino anche zoppicando, ha concluso Carrón, ma cosa importa? Il problema è camminare».