Lo studio universitario (Foto di Chiara Maioli)

«L'università non è chiusa finché noi viviamo»

I racconti di alcuni studenti, che si sono lasciati “contagiare” a vicenda dalla possibilità di vivere al cento per cento anche durante la pandemia. Quando il desiderio non può essere soffocato da paura e restrizioni. Da "Tracce" di gennaio
Paola Bergamini

«In questo periodo posso crogiolarmi nella fatica di stare da solo, lasciare che la vita rotoli come un sasso a valle, oppure vedere cosa c’è per me. Per questo, ho preso in mano il telefono e ho chiamato gli amici che potevano aiutarmi a ripartire. Sentirli mi ha fatto accorgere che la loro amicizia non è minacciata dalla lontananza fisica e questo mi ha fatto desiderare di vivere al cento per cento», dice Luca. «Adesso capisco perché mi hai telefonato ed eri così attento a quello che ti dicevo, alle mie difficoltà. Tu non sei sempre stato così», ribatte un amico. E un altro aggiunge: «Se è successo a te può capitare anche a me». Colpita da questo dialogo in Zoom con gli amici della comunità di Medicina, Chiara durante un incontro degli universitari con Julián Carrón, dice: «Anch’io voglio partecipare a questa comunione vivace di persone».

Ecco quello che balza agli occhi: il lockdown non può impedire di aprirci all’altro. Non è qualcosa che avviene meccanicamente, nemmeno se da anni si vive l’esperienza cristiana. È un cammino dentro l’amicizia con Carrón, che li accompagna in un dialogo serrato e costante, non lasciandoli mai tranquilli, perché la sfida alla fine è personale, ognuno deve dire di “sì”. La meraviglia è vedere come questo impeto del cuore genera una “inevitabile simpatia” tra chi la vive e un modo nuovo di essere nel mondo.



Abbiamo provato a sorprendere in alcuni racconti della vita universitaria il moltiplicarsi di queste esperienze. La sorpresa è stata vedere come cambia la vita di ciascuno e per “attrazione” quella degli altri. Ma questo è il metodo di Dio. Il bello è che la sfida è proprio per tutti. A venti come a cinquant’anni.

Giovanni, primo anno di magistrale di Filosofia in Statale a Milano, fa scorrere i WhatsApp sul cellulare. Nulla. Negli ultimi giorni ha inviato una serie infinita di messaggi in vista delle elezioni, per le quali si è candidato. Per lo più a compagni di corso, ma al momento nessuna risposta. Quest’anno, per la pandemia, niente aperitivi nei chiostri, niente merende con i candidati, banchetti informativi o quant’altro. Tutto da inventare.

Il telefono squilla, è Luca, entusiasta: «Ci sono riuscito. Poretti ci sta all’incontro su Zoom! Abbiamo pensato come titolo una cosa del tipo: “Che ruolo ha la cultura?”. Adesso mando messaggi. Sai, per quello che sto vivendo vorrei che questa campagna non finisse mai! Non c’è paragone con quelle precedenti». E dopo qualche minuto il messaggio: «Bianca mi ha detto delle elezioni, come posso dare una mano?». È di un amico della comunità che Giovanni non sente e non vede da tanto. Basta questo per ricominciare con più slancio. «Vedevo tra i miei amici accadere qualcosa di nuovo, che mi riempiva di gratitudine. E mi ributtava dentro la mischia delle catene telefoniche, dei post su Facebook, degli Zoom». Nessun attivismo, ma una vita che per “contagio” non riesci a tenere per te.

Una sera, Giovanni fa una lunga telefonata con una matricola molto disorientata per il lockdown. Si erano visti giusto un paio di volte. Parlano di esami, di corsi, piani di studio. Il giorno dopo, il ragazzo gli scrive: «Grazie per il tempo che mi hai dedicato. Possiamo risentirci?». «Non mi è venuto nemmeno in mente di parlargli delle elezioni. Mi sono accorto che il mio interesse verso di lui non era legato a quello e non era questione di generosità. Era gratuito, proporzionale alla gratitudine che stavo vivendo in quelle settimane così frenetiche».

Due campagne elettorali alle spalle e quest’anno nuova ricandidatura al Consiglio di Amministrazione della Statale: Willi è ormai uno esperto in fatto di elezioni, con l’aggiunta che la rappresentanza universitaria lo appassiona, un’occasione in cui si gioca tutto. All’inizio ci ha provato a programmare a tavolino le iniziative da mettere in campo e poi… ogni giorno telefonate, WhatsApp degli amici che proponevano incontri sulle piattaforme digitali con personalità del mondo della cultura, dell’informazione, del diritto. O soltanto messaggi come: «Grazie che ti sei ricordato di me, del mio nome». Ognuno chiuso in casa, eppure così presenti nella vita universitaria.

Se ne sono accorti anche gli studenti di una lista avversaria che in un post li insultano per “essere di CL”. Ma qualcuno non ci sta. Un ragazzo che per due anni ha condiviso con Willi l’esperienza della rappresentanza universitaria, lo chiama: «Non ce l’ho fatta, non ho potuto resistere di fronte a quello di cui vi accusavano». E pubblica un post su Facebook in cui, tra l’altro, scrive: «In questi anni ho visto nei rappresentanti di Obiettivo Studenti che ho avuto il piacere di conoscere persone sempre alla ricerca del confronto (più in generale: del dialogo, del cercare insieme le risposte, sull’università e sul senso della vita), mai bigotte, con prospettive ben diverse dalle mie, ma con posizioni (talvolta diverse) spesso semplicemente più moderate. Li ho sempre visti, davanti alle scelte importanti, approfondire con serietà le domande, nella propria coscienza ancora prima che nella propria comunità. Ci ho messo del tempo a capire i motivi che spingono loro a dedicare questo grande entusiasmo alla vita universitaria, e da questa comprensione sono uscito arricchito». I numeri, quasi 12.000 votanti, parlano di una affluenza record rispetto alle precedenti elezioni, e vittoria della lista. Il vero risultato però è un altro, come ha scritto Willi nel comunicato post elettorale: «Oggi migliaia di giovani con il loro voto hanno detto chiaramente: “Noi ci siamo, ci vogliamo essere”. Per questo, più forte dell’emozione della vittoria, c’è la sorpresa di fronte a una vita che non si ferma: una vita fatta di incontri, di rapporti, di iniziative. Prima tra chiostri e biblioteche, ora tra video chiamate ed eventi in streaming: cambia la forma, ma noi ci sentiamo protagonisti di una storia che continua. Oggi dalla Statale viene un messaggio per Milano, un messaggio per il Paese: niente ci potrà mai togliere il desiderio di costruire insieme». Facile bollarlo come l’entusiasmo dei ventenni. Altra cosa è farsi contagiare, da una vita che irrompe e da un particolare come l’università che si apre al mondo.

Alla seconda ondata, Teresa, Giurisprudenza in Cattolica a Milano, si sente afferrata dalla paura. Quando è sola il pensiero si ferma lì, non lasciandola tranquilla. La verità è che la paura è sintomo di domande che ha dentro da tanto tempo: che nulla vada perduto e finisca. Che, dal mattino alla sera, la sua vita non sia inutile. Questa scoperta la lascia ancora meno tranquilla di prima. Una risposta la realtà deve dargliela. La prima arriva nell’intervento di un amico alla Scuola di comunità: «Mi ritrovo addosso un grande desiderio di vivere da protagonista l’università. Ma cosa vuol dire dentro le restrizioni a cui dobbiamo sottostare? Cosa vuol dire non accontentarci? Che origine ha questo desiderio? Questa domanda io la vorrei condividere con tutti, non solo dentro la comunità». La partita è aperta e Teresa non si tira indietro. Con alcuni amici scrive un volantino in cui si legge: «Tutti siamo sfidati a dire “io”: prendere posizione e assumerci responsabilità. Anche a fronte delle ulteriori restrizioni imposte dalle autorità nazionali per l’aggravarsi della situazione, finché ciascuno di noi vive con il desiderio di esserci e di rispondere alla realtà, l’università non è chiusa: l’università non è chiusa finché noi viviamo». Lo fanno avere a studenti, rettore, presidi di Facoltà.

Nascono degli incontri inaspettati. Una compagna di corso le chiede: «Teresa, ma come è possibile stare davanti a una situazione in cui tutto è chiuso senza morirci dentro?». Un’altra, invece, all’inizio cerca di spostare la questione: «Sì, va be’, voi di CL cosa volete fare?». Teresa non si ferma alla polemica e ribatte: «Non nasconderti. Tu perché vivi? Che sfida è per te scrivere la tesi?». L’amica è con le spalle al muro: «No, ascolta, se le condizioni lo permettono, anche a distanza, io ho bisogno di vederti e di parlare con te, perché su questo non posso scappare». È solo l’inizio di una serie di dialoghi, spesso online, che non si fermano agli amici o ai compagni di corso, ma che coinvolgono anche rettori di altre università.

Si studia, si sta in famiglia in tutt’altro modo. Si vive non soffocando. Per Teresa le domande ci sono ancora tutte, ma non prendono alla gola, «le posso guardare con stima. Più le vivo più non riesco a togliermi di dosso quella vita che vedo fiorire nei miei amici e nelle persone. Mi accorgo di poter dire “io” davvero solo dentro un rapporto che mi genera. Questa è la promessa di eternità che cerco. E la paura diventa l’occasione per tornare a riaccorgermi di questo. Così posso andare a letto, stanchissima, con tutte le mie domande, ma in pace. Non sono da sola a gridare contro il niente». Si chiama centuplo.

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In oratorio, Francesca, Lettere in Cattolica, segue un gruppo di adolescenti. Sono vivaci, con tante domande sulla vita, sul cristianesimo. Da qui nasce il desiderio di organizzare un incontro con due cari amici per raccontare quello che vivono in università. A un certo punto, un ragazzo chiede: «Questo don Giussani è morto tanti anni fa e voi non lo avete mai incontrato. Ma come può il legame con questo prete farvi essere così amici fra di voi? Perché si vede da come state di fronte a noi, ora». È vero, Francesca non ha mai conosciuto Giussani di persona, non sapeva nemmeno della sua esistenza e tanto meno del movimento quando ha incontrato quegli amici che le hanno cambiato la vita. Non li lega certo un ricordo nostalgico di qualcuno che non c’è più. Cosa sta vedendo quel ragazzo? A Francesca torna in mente il racconto di Giovanni e Andrea: a loro 2000 anni fa, a lei qualche anno prima, è accaduto un fatto che ha riempito la vita. Questo sta vedendo ora quel ragazzo fra loro tre. Qualcosa che riaccade ora.