L'incontro inaugurale con il cardinale Pizzaballa (Foto Meeting Rimini)

«Niente è più reale dell’incontro con Cristo»

La vocazione e san Francesco, la guerra e il perdono, la presenza cristiana in Terra Santa e il vero dialogo. Le parole del Patriarca di Gerusalemme dei Latini, Pierbattista Pizzaballa, all'incontro inaugurale del Meeting (Rimini, 20 agosto 2024)

Il testo dell'incontro inaugurale al Meeting di Rimini, dal titolo "Una presenza per la pace", durante il quale il presidente del Meeting, Bernhard Scholz, ha dialogato con il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei Latini, sulla drammatica situazione in Terra Santa. Prima del dialogo, il vescovo di Rimini, monsignor Nicolò Anselmi, ha letto il messaggio di Papa Francesco mentre Scholz ha portato il saluto del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.

Bernhard Scholz. Siamo profondamente grati di poter aprire questo Meeting con una persona che, giorno dopo giorno, in modo drammatico, incontra la sfida dell’essenziale, in un luogo dove il presente è pieno di dolore e il futuro appare apparentemente vuoto di prospettive, dove la fede chiede di essere riaccolta in un modo sempre più radicale e dove la speranza si rivela una virtù veramente eroica. Con voi saluto e ringrazio il Patriarca di Gerusalemme, Pierbattista Pizzaballa. Grazie di essere venuto. Sappiamo bene la situazione, tanto che anche solo il viaggio è stato già difficile. Eminenza, vorrei iniziare questo dialogo partendo dalla sua vocazione. Esattamente 40 anni fa lei è entrato nell’Ordine dei Francescani. Nella preparazione di questo Meeting ha fatto diverse volte riferimento a san Francesco, perché è stato forse uno dei santi più essenziali nella sua vita, capace di valorizzare in modo veramente sorprendente il creato, in ogni sua espressione anche nel dettaglio. Al contempo, ha creato una fratellanza senza limiti, fino a incontrare un sultano in mezzo alle crociate. Qual è il significato per lei oggi di essere francescano?

Pierbattista Pizzaballa. Cercherò di essere breve. Innanzitutto, ogni vocazione cristiana è incentrata sulla persona di Gesù Cristo. E tutto ruota intorno a quell’esperienza che ti costruisce e che è fondante. Poi, essere francescano significa incontrare Cristo, fare esperienza di Cristo secondo uno stile, un modo che Francesco ha mostrato. San Francesco, il padre san Francesco. E ciò che è stato costitutivo, direi, dell’identità di san Francesco era l’incarnazione, l’umanità di Gesù. È un’esperienza che è entrata dentro la sua vita in maniera reale, concreta. Ha redento tutto il suo sguardo sull’umanità, sul mondo, sul creato, su tutto. Io mi sono avvicinato fin da ragazzo; tra l’altro ho cominciato proprio qua a Rimini quando ero ragazzo... sono stato attirato da questa concretezza con la quale san Francesco ha vissuto la sua vocazione all’incontro con Cristo. Perché il pericolo è sempre di pensare a Gesù come una realtà astratta. Invece non è così. Non c’è niente di più reale dell’incontro con Cristo. Poi, oggi, anche se si vede da come sono vestito, mi trovo in una realtà diversa. Quando ero con i frati, tutto questo era molto più naturale, anche l’aspetto esterno, visibile, ti sorreggeva in qualche modo, più o meno. Ora devo portare questa esperienza dell’incarnazione, dell’umanità di Cristo, dell’incontro con Cristo, dentro la realtà che vivo oggi, che è quella di pastore di una Chiesa, della Chiesa di Gerusalemme, che vive dentro una situazione da sempre molto particolare, molto difficile e conflittuale. Quindi, la domanda per me oggi è: cosa significa essere francescano? Significa, innanzitutto, per me personalmente, chiedermi continuamente cosa Gesù in questo momento mi dice. Deve diventare il criterio di lettura delle situazioni, di dolore, di divisione, di fatica in tutti i sensi, fare in modo che quello che vivo passi attraverso quell’esperienza che deve continuare ad essere fondante della mia vita. E poi cercare, quindi, a livello personale, come trasmettere questa esperienza alla comunità, alla mia comunità ecclesiale. Aiutare soprattutto in questo contesto così lacerato e polarizzato a dire: un momento, partiamo da Cristo. E ogni valutazione, ogni decisione, ogni scelta, ogni parola da dire deve essere compatibile con quell’esperienza, con quella relazione, con quell’amicizia. Per me essere francescano è questo oggi.

Scholz. Il suo ordine la mandò nel 1990 allo Studium Biblicum Francescanum, a Gerusalemme. Oltre a studiare le Sacre Scritture, è stato coinvolto immediatamente in un dialogo con altre religioni, con ebrei, con musulmani. Questo dialogo, vissuto da lei non solo a livello accademico e teologico, ma in prima persona, che impatto ha avuto?

Pizzaballa. Penso di averlo già detto anche qui al Meeting qualche anno fa. È stato un passaggio importante, anche personale. Io vengo dalla Bassa Bergamasca, dove, adesso no, ma a quei tempi si era cattolici prima ancora di nascere. E dove il parroco era papa, re e imperatore! Poi da lì sono andato in seminario minore alle Grazie, qui a Rimini, a undici anni, dai frati. Per cui sono cresciuto in un contesto, diciamo così, "iper-cattolico", dove il catechismo, la formazione, era tutta cattolica. Per cui eri dentro la tua "bambagia cattolica", diciamo così. Quando poi sono andato a Gerusalemme – studiavo scrittura allora –, lì è stato il primo momento dove mi sono reso conto che la stragrande maggioranza della gente, non solo non è cattolica, ma non è neanche cristiana. Sono stato mandato dai miei superiori del tempo a studiare all’Università Ebraica, dove ero l’unico cristiano nella mia classe, tra compagni che erano tutti ebrei, ebrei religiosi che vogliono studiare la Scrittura. Chiaro che lì nascono le prime domande: «Cosa significa essere cristiano?»; «Chi è Gesù?». Abbiamo cominciato a leggere per amicizia il Vangelo insieme. E lì è stato per me un passaggio importante. Quello, secondo me, è il vero dialogo interreligioso. Io, che ero cattolico prima di nascere, quindi sapevo tutto, vita, morte e miracoli di Gesù, e a tutte le domande sapevo rispondere, dal catechismo e così via, mi sono reso conto che alle loro domande su Gesù non sapevo rispondere. Rispondevo ma non capivano. Le mie risposte erano pensate, costruite per chi era già cattolico. Ma chi non era cattolico, o cristiano, non capiva niente. Esemplifico. Ricorderò sempre un momento molto importante per me, personalmente, che ha rifondato la mia fede e anche la mia vocazione. Shulamit – con cui ancora ogni tanto mi sento –, ebrea, religiosa, sposata a un rabbino, a un certo punto mi disse: «Guarda, io devo lavorare la sera, non riesco a venire tutte le settimane per leggere il Vangelo, quindi devo interrompere. Però ho una domanda da farti, adesso che abbiamo rotto il ghiaccio tra noi. Gesù è affascinante, il Vangelo è un libro bellissimo, non trovo nulla di problematico, tranne una cosa che però mi devi spiegare: la Risurrezione. Anche senza la Risurrezione Gesù è un personaggio affascinante e il Vangelo resta un libro importantissimo. Perché dovete farlo risorgere?». Aveva capito tutto. E andai in crisi, perché alla mia risposta lei non capì. E capii dal suo sguardo che non aveva capito nulla. E ci lasciammo così. Questo è stato per me un tarlo che mi ha roso dentro. Non sono stato capace di spiegare la Risurrezione. Però quella ragazza ebrea, che non crede in Cristo, mi ha restituito un aspetto della mia fede al quale non mi ero accostato con pienezza: la Risurrezione. E lì capisci che la Risurrezione non si spiega, la Risurrezione si incontra. Nei Vangeli non trovi la descrizione della Risurrezione, ma l’incontro con il Risorto. Ecco, il dialogo interreligioso per me è questo. È l’incontro tra persone che hanno un’esperienza di fede, anche diversa, ma che una volta condivisa ti aiuta a illuminare in maniera più completa quello che sei tu, oltre che a conoscere meglio l’altro. Ed è un’esperienza di cui abbiamo estremamente bisogno.



Scholz. Torneremo su questo dialogo interreligioso. Partendo da una domanda sull’attualità, lei vive ormai da quasi 35 anni a Gerusalemme. Forse come pochi altri conosce i conflitti, le contrapposizioni, anche nelle loro profondità. Però, dopo la guerra del 7 ottobre, lei ha detto che si tratta di una «tragedia senza precedenti». E non si riferiva solo al conflitto armato. Che cosa intendeva quando parlava di «senza precedenti»?

Pizzaballa. Anche il conflitto armato è senza precedenti: è una guerra così lunga... però adesso non entro nella cronaca militare perché penso che lo possiate vedere continuamente. Anche se siamo in un momento decisivo, direi di rimanere concentrati sui dialoghi in corso. Devo dire che l’impatto che questa guerra ha avuto su entrambe le popolazioni, israeliana e palestinese, è unico, senza precedenti, appunto. Per Israele le interpretazioni sono diverse. Non entro adesso nel merito. Ma per Israele, quello che è successo il 7 ottobre, è stato uno shock incredibile. Israele è nato come il Paese dove gli ebrei sono a casa e si sentono sicuri, e il 7 ottobre ha mostrato che non lo sono più. Naturalmente per i palestinesi, quello che accade, non solo a Gaza ma in tutto il mondo, è qualcosa di mai visto prima, quindi ha un impatto enorme che ha esasperato sentimenti già esistenti, che ora sono diventati, diciamo così, linguaggio comune: odio, rancore, vendetta, giustizia intesa come vendetta, profonda sfiducia, l’incapacità di riconoscere l’uno l’esistenza dell’altro. C’è un passaggio nel libro di Isaia, capitolo 47, versetti 8 e 10, sul quale sono ritornato spesso in questi mesi. Isaia parla contro Babilonia, la Babilonia di quel tempo, che diceva, ed era il motivo per cui veniva accusata: «Io e nessun altro». «Io e nessun altro» è anche il nome di Dio: «Non avrai altro Dio all’infuori di me». «Io e nessun altro», diceva Babilonia. Ho l’impressione che quello che si sta dicendo ora sia «Io e nessun altro»: rifiutarsi l’uno sull’esistenza dell’altro e con un linguaggio di rifiuto dell’altro che è diventato materia quotidiana, che si respira nei social media e così via, ed è qualcosa di veramente drammatico. La guerra finirà. Io spero che con i negoziati in corso si arrivi a qualcosa, ma ho un po’ di dubbi... comunque è l’ultimo treno. Se non si riesce a raggiungere un cessate il fuoco ora, sarà veramente drammatico. E siamo in un momento cruciale. Si può andare verso un cessate il fuoco, ma si può anche andare verso una degenerazione. Tutto dipende dai prossimi giorni, per questo ho chiesto di pregare, perché è l’unica cosa che ci è rimasta da fare ed è importante. Ecco, comunque, in un modo o nell’altro, la guerra finirà. Però ricostruire questi atteggiamenti di sfiducia, di odio e di disprezzo profondo, sarà una fatica immane che ci dovrà impegnare tutti.

Scholz. E in questa ricostruzione, che ruolo hanno i responsabili delle varie religioni?

Pizzaballa. Hanno un ruolo importante. Diciamo che, in questo momento, il dialogo interreligioso è in crisi. Questa situazione rappresenta uno spartiacque anche per il dialogo interreligioso. È un dato di fatto che, in questo momento, cristiani, ebrei e musulmani non riescono a incontrarsi, almeno non pubblicamente. E anche a livello istituzionale facciamo fatica a parlarci. Questo è un grande dolore, anche per me personalmente. Il dialogo religioso, in queste generazioni ha costruito dei documenti bellissimi, come l’ultimo di Abu Dhabi sulla fratellanza. Però è un dato di fatto che in questo momento non riusciamo a incontrarci e a parlarci. Tutto ciò che è stato fatto finora è importante, non deve essere buttato via, ma avremo bisogno, dopo, di ricominciare con una nuova fase. Il dialogo interreligioso dovrà essere, se posso permettermi, meno di élite e più di comunità, deve arrivare al territorio. Se non riusciamo a intenderci ora, forse è anche per questo. E poi, rispondendo alla sua domanda, i leader religiosi hanno una grande responsabilità, non solo di ascoltare, penso anche alla mia comunità, non solo di essere voce della propria comunità, ma anche di aiutarla a non chiudersi nella propria narrativa, ma ad alzare lo sguardo, a guardare l’altro, a riconoscerlo. Un rabbino negli anni Sessanta, Heschel, diceva che nessuna religione è un’isola, e oggi, più che mai, nessuno è un’isola: abbiamo bisogno di relazionarci con tutti, e questo ha delle conseguenze. Riconoscersi, accogliersi significa accettare anche l’altro per quello che è, non imporre se stessi sull’altro. Non è semplice, non è scontato, ma è necessario. In questo momento ho l’impressione che siamo tornati a essere un po’ isole, a curare solo noi stessi. Invece, abbiamo bisogno di alzare lo sguardo e capire che non siamo isole.

Scholz. Prima come custode di Terra Santa e adesso come patriarca di Gerusalemme, lei è sempre stato responsabile di comunità che appartengono...

Pizzaballa. Ahimè, sì. È più comodo non avere responsabilità.

Scholz. Sì, capisco. La questione è che lei ha avuto una responsabilità ancora più ardua del solito, perché doveva guidare delle comunità composte da persone appartenenti a popoli molto diversi: israeliani, palestinesi e poi anche tanti altri. Cosa vuol dire vivere la comunione cristiana quando si appartiene a popoli che sono politicamente divisi?

Pizzaballa. È vero, e nei primi mesi da ottobre ci sono stati momenti difficili per la nostra diocesi. La nostra diocesi copre quattro nazioni diverse: Giordania, Israele, Palestina e Cipro. Israele arabo ma anche Israele ebraico. Avevamo persone a Gaza sotto le bombe israeliane, ma avevamo anche cattolici cristiani che prestavano servizio militare. Quindi su fronti completamente diversi. Questo per dire, innanzitutto, che il cristianesimo astratto non esiste. Il cristianesimo è sempre incarnato. E quindi bisogna fare i conti anche con le proprie appartenenze. Un cristiano israeliano è israeliano, un cristiano palestinese è palestinese in tutto e per tutto. E curare l’unità non è stato semplice. Volevo dire che è chiaro che tu appartieni al tuo popolo, però c’è anche un’appartenenza a Cristo che ti deve aiutare ad avere uno sguardo diverso, differente. Non è sempre così immediato. In questi mesi ho pensato a un passaggio del Vangelo: Gesù nel Getsemani, con i discepoli. Cosa hanno fatto i discepoli? Alcuni dormivano, altri sono fuggiti, altri hanno preso la spada. Ed è la tentazione che abbiamo: quella di dormire, di non voler vedere quello che sta accadendo, chiudersi in una sorta di devozionismo sofisticato, dove preghiera, liturgia, sacramenti non vogliono vedere quello che accade attorno a noi, ed è una possibile risposta. L’altra possibile è di fuggire, andare via, cioè voler vedere quello che accade ma non volerci fare i conti. E l’altra è prendere la spada, cioè passare alla lotta: usare la spada quindi la fase politica attiva, diciamo così, di lotta. La risposta di Gesù, invece, è stata quella di consegnarsi, che non significa che dobbiamo consegnarci, arrenderci, ma è quello di donare la vita, affidandosi a Dio avere fiducia. «Padre, se è possibile, passi da me questo calice, ma sia fatta la tua volontà», mi affido a te. Ecco, quello che sto cercando di portare alla mia comunità è che non abbiamo le risposte a queste situazioni, però abbiamo un indirizzo che è Dio. E insieme, ciascuno dalla propria prospettiva, col proprio dolore, orientiamo questa domanda a colui che dà senso a tutto quello che noi facciamo.

Scholz. I cristiani sono circa il 3% della popolazione in Terra Santa, un numero molto ridotto rispetto agli anni precedenti. Come viene percepita la Chiesa a livello locale e che possibilità c’è di contribuire alla riconciliazione?

Pizzaballa. Diciamo che, siamo sinceri, nessuno si aspetta che la comunità cristiana risolva i problemi. Politicamente, siamo più o meno irrilevanti, se posso dirlo. Forse questo farà arrabbiare qualcuno, ma è così. La prima cosa è stare lì, esserci. Non cadere nella tentazione di volere per forza avere un ruolo in queste situazioni, ma essere capaci di dire una parola. Innanzitutto, sostenere la propria comunità, incoraggiarla ed essere presenti. Non possiamo risolvere tutti i problemi, però dobbiamo essere presenti. Molto spesso, quando c’è una crisi o una difficoltà, la prima domanda che ti fanno è: «Tu dove eri?». La risposta deve essere: «Ero lì, dovevo esserci». Questa è la prima cosa. Poi, sostenere, aiutare anche dal punto di vista materiale, non soltanto i propri, ma anche gli altri. Uno dei motivi per cui, ad esempio, la nostra comunità, la piccola parrocchia di Gaza, con poco più di 600 persone rimaste, riesce ancora a mantenere il suo dinamismo, è perché non si è ripiegata su se stessa in attesa che finisca la guerra, ma cerca di aiutare, con il nostro supporto, naturalmente, distribuendo aiuti, vivendo e così via. Poi, l’altra parola che Papa Francesco usa spesso è «parresia». Noi non riusciamo, non possiamo risolvere il problema, però possiamo dire una parola di verità su quello che sta accadendo, dove la gente possa ritrovarsi, senza però diventare parte di uno scontro. Credo che questo sia il ruolo che la Chiesa può portare.

Scholz. Lei ha parlato in diverse occasioni del fatto che non c’è riconciliazione senza perdono, ma al contempo ha sempre sottolineato che il perdono non si può imporre. Ma è possibile in qualche modo invitare al perdono, soprattutto in situazioni di ingiustizia oggettive e molto pressanti?

Pizzaballa. Come devo rispondere... Non è facile rispondere a queste domande, perché non sono astrazioni. Per noi in Terrasanta, perdono e giustizia sono parole importanti, difficili, che toccano concretamente la carne della vita delle persone. Per cui bisogna fare attenzione quando se ne parla. La fede cristiana non può essere separata dall’idea di perdono. La fede cristiana è l’incontro con Cristo, e quell’incontro è un incontro che ti salva e ti perdona. Incontrando Cristo, incontrando Dio, la prima esperienza che fai è di essere peccatore. Però questa coscienza, questa consapevolezza di essere peccatore, non è una condanna, ma è un annuncio di salvezza. Questo peccato è stato salvato, redento, non ha più valore di fronte a Dio. Ora, a livello personale, perdono e giustizia sono quasi sinonimi. Gesù sulla croce non ha aspettato che si facesse giustizia per perdonare. Ha perdonato. E ci sono state, nella storia, persone che, anche di fronte al plotone di esecuzione, pur essendo innocenti, perdonavano. Sono esperienze fortissime, bellissime. Quindi, a livello personale, giustizia e perdono non si possono totalmente separare, sono quasi sinonimi, se illuminati dalla fede. A livello comunitario, le dinamiche sono diverse. A livello pubblico e comunitario, la comunità si regge anche su altre parole: dignità, uguaglianza, che sono costitutive della vita di una comunità. Per cui perdonare senza che ci sia dignità e uguaglianza non è un gesto che porta dignità e uguaglianza, ma significa giustificare un male che si sta compiendo. Quindi il perdono deve essere presente, ma le dinamiche sono completamente diverse, richiedono tempo. Un processo di guarigione, innanzitutto, di accoglienza e di riconoscimento del male, dell’ingiustizia commessa, e che poi ha bisogno anche di una parola di verità su quello che sta accadendo. Perché se non fai verità, se non dici le cose con chiarezza, cosa perdoni? Però questo deve essere fatto a livello comunitario, con dinamiche molto diverse. In Sudafrica, dopo l’Apartheid, c’è stata una commissione che ha dovuto lavorare anni per recuperare, riconoscere, capire, valutare, guarire e così via. Per cui non è semplice. E come pastore, mi trovo sempre in questa difficile situazione. Perdonare oggi, per un palestinese, perdonare oggi significa giustificare quello che sta accadendo, non può farlo, deve attendere. Però, come pastore, non posso dire: «Guarda, è vero che devi fare giustizia, però ricordati che la giustizia senza perdono diventa semplicemente recriminazione, mettere la persona nell’angolo». Può diventare vendetta, la giustizia. Lo scopo non è quello di chiudersi, fare una verità e incastrare l’altro, ma superare questa situazione. E questo lo può fare solo il perdono. E la comunità cristiana, la fede cristiana, deve portare questo contributo, deve portare dentro il dibattito pubblico questa possibilità. Forse in questo momento non si può fare. Dovremo attendere, dovremo lavorare a livello personale, in piccoli gruppi, e così via, ma dovremo tendere a un momento in cui lo potremo fare, perché è l’unica via per superare questa impasse.

Scholz. Per approfondire ancora questa tematica così difficile, esistenzialmente difficile, vorrei fare una domanda. Tanti rancori, tanti odi hanno radici molto profonde, quasi inestirpabili. Rispetto a questo, Papa Francesco ha chiesto anche una memoria penitenziale e lei stesso ha usato l'espressione «purificazione della memoria». Cosa intende con questa purificazione della memoria?

Pizzaballa. Anche qui, molto brevemente. Quando ero bambino, mi insegnavano a fare l’esame di coscienza. Queste cose adesso non si fanno più, purtroppo, ma quando ero bambino mi insegnavano a fare l’esame di coscienza. Non sapevo cosa fosse il peccato, però le suore mi dicevano: «Ma cosa devo dire?». Erano i peccati che avevo fatto. Però era una formazione, un’educazione a prendere coscienza che, nella propria vita, non tutto è limpido, bello, chiaro e sano. Allora, purificare la memoria, innanzitutto significa prendere coscienza. Oggi, a quasi sessant'anni, ho coscienza che certe cose che ho fatto venti, trenta, quarant'anni fa non avrei dovuto farle, erano sbagliate, ma allora non me ne rendevo conto. Quindi purificare la memoria significa avere la consapevolezza che abbiamo sempre bisogno di rileggerci, di rileggere le nostre relazioni, alla luce delle nuove relazioni, della consapevolezza che si acquisisce, e prendere coscienza che posso aver sbagliato. Posso avere una lettura del passato che forse giustificava certi gesti, ma che oggi invece sono superati. Quindi, avere consapevolezza, purificare la memoria non significa cancellare tutto. Non significa essere rinunciatari su tutto o annullarsi. Non è questo. Ma prendere coscienza che ho bisogno di rileggere continuamente la mia storia alla luce della consapevolezza attuale. E questo può aiutare nelle relazioni con l’altro, soprattutto quando si toccano i temi delle relazioni con l’altro, nella storia, voglio dire, nelle nostre relazioni con l’ebraismo, ad esempio, nel passato. Oggi abbiamo preso coscienza di quanto male abbiamo fatto. Questo non significa annullarci, non ci annulliamo. Però prendere questa consapevolezza mi aiuta oggi a rileggere e ricostruire queste relazioni su un modello diverso, che non è quello del passato. E così dobbiamo fare continuamente. Se restiamo chiusi nelle nostre narrative, ed è quello che spesso accade oggi in Terra Santa, chiusi dentro narrative chiudenti, escludenti anche, non ne usciremo mai. Oggi in Terra Santa le narrative sono esclusive, l’una contro l’altra, non fianco a fianco, ma contro. Ecco, allora abbiamo bisogno di purificare questa memoria, che non significa cancellare la propria storia, ma rileggerla in maniera tale che questa storia mi aiuti oggi a vivere in maniera diversa rispetto al passato.

Scholz. Rispetto a questa «purificazione della memoria», abbiamo tutti, o forse non tutti ma la stragrande maggioranza, pensato che ci fosse stata una purificazione, anche a livello laico, di un fenomeno storico drammatico, tragico, come l’antisemitismo. Invece, ci stiamo rendendo conto che sta riaffiorando. Non è solo la critica al governo israeliano, è proprio un antisemitismo, anche in tanti giovani, che si riaffaccia. Come si spiega questo fenomeno?

Pizzaballa. È un dramma l’antisemitismo. Una cosa è criticare la politica di un governo, che di per sé è legittimo. Un’altra cosa è dire che non puoi essere ebreo. Questo è inaccettabile e deve essere condannato. Anche qui, come dicevo prima, ci sono narrative escludenti, pro Palestina, pro Israele, una che esclude l’altra e così via. La responsabilità dei religiosi – anche se l’antisemitismo attuale ha un’impronta più politica che religiosa – è importante per evitare di diventare strumentali a questo. Dobbiamo creare una cultura di relazioni, di accoglienza reciproca, dove nessuno è escluso. L’antisemitismo è una sorta di cartina di tornasole per capire quali sono i modelli su cui la società si mantiene, si costruisce. La civiltà si costruisce con, non contro.

Scholz. In tante immagini che ci giungono da questa guerra, soprattutto da Gaza, c’è qualcosa che, ogni volta che lo vediamo, ci pone una domanda alla quale lei forse ha una risposta, e cioè la sofferenza dei bambini. Perché vedere bambini senza acqua, senza cibo, orfani, traumatizzati... a questa sofferenza degli innocenti c’è una risposta?

Pizzaballa. No. Ultimamente, in questi ultimi anni, mi sembra che a volte abbiamo ridotto la fede a una sorta di panacea, una fede che risolve tutti i problemi, un’appartenenza alla Chiesa come a una comunità perfetta, e così via. Non è così. Anche nella fede cristiana resta comunque un elemento di tragicità, tragico, che permane, che esiste. Le nostre domande sono le domande di tutti: perché? Perché lo sappiamo. È la malvagità dell’uomo che compie queste azioni. Non ha senso che Dio debba renderci conto di ciò che noi facciamo. Questo però non risolve il problema, il dramma, l’elemento tragico della fede. Nella fede possiamo solo orientare questa domanda a Dio. Restare dentro questa domanda, che però ti sostiene e ti aiuta a fare tutto il possibile affinché questo non accada, o perché con gesti di amore si possa bilanciare, per quanto possibile, quel dolore e quella tragicità che vediamo nelle immagini di Gaza e in tante altre parti del mondo. Ma ecco, la fede non è una risposta a tutte le domande. La fede è una relazione dentro la quale tutte le domande trovano spazio.

Scholz. Grazie, grazie. Vorrei proprio lasciare queste sue ultime parole anche come invito alla nostra conversione, perché fra un senso di impotenza e un senso di onnipotenza lei ci ha portato a guardare questi conflitti così drammatici in un’altra luce. Non perché ci sia una soluzione, ma perché c’è una speranza contro ogni speranza che lei ci ha insegnato oggi, e di questo la ringrazio tantissimo.

Pizzaballa. Grazie a voi.

da www.meetingrimini.org