Dalla prefazione a "Chiedimi se sono felice"

Stralci dalla prefazione di Davide Prosperi al volume "Chiedimi se sono felice" (a cura di Caterina Giojelli, Itaca, 2021)

Voi bambini imitate Gesù.
Non l’imitate.
Siete dei bambini Gesù.
Senza accorgervene, senza saperlo, senza vederlo.

(C. Péguy)

Giunti a questo punto, non si può evitare di osar dire almeno qualche parola sulla questione più spinosa – questione sulla quale chi come me non ha vissuto direttamente una esperienza simile a quella dei genitori che parlano in questo libro, può permettersi di balbettare qualcosa soltanto sotto voce, e non senza timore e tremore.
Questi figli, questi bambini soffrono. In certi casi, soffrono molto e continuamente. Stante tutto quanto detto fin qui, rimane il tremendo mistero: perché? Perché un bambino, che non ha fatto mai nulla di male, perché un innocente, un bambino deve soffrire?
Si tratta di un enigma tremendo, un enigma cui la ragione umana, lasciata a se stessa, non sa trovare risposta. Come noto, è infatti questo l’argomento principale di quanti – e sono sempre più numerosi – affermano essere immorale far venire al mondo bambini di cui la scienza moderna è in grado di stabilire in anticipo che saranno affetti da disabilità gravi: perché condannare una persona umana ad una vita di umiliazioni e tormenti, quando si potrebbe risparmiargliela?
La domanda è tutt’altro che banale. Certamente, quanto detto, ma soprattutto la testimonianza “in carne ed ossa” di tanti bambini, sofferenti eppur felici di vivere, aiuta a rispondere alla sfida: chi ha il diritto di dire a Chiara che sbaglia, quando dice di sentirsi un fiore, perché nella sua vita non c’è in realtà nulla di bello? Quale scienziato?
E tuttavia noi sentiamo che questa risposta non basta. Qualcosa rimane fuori. Ci sono situazioni in cui si toccano livelli di sofferenza tali, che davvero vien la tentazione di dar ragione al mondo. Ci sono momenti, sì, possono esserci, in cui può essere dato a questi figli, così come ai loro genitori, che assistono impotenti al loro soffrire, di sentirsi salire in cuore le tremende parole di Giobbe (3,11-13.16.20):

Perché non sono morto fin dal seno di mia madre
e non spirai appena uscito dal grembo?
Perché due ginocchia mi hanno accolto,
e perché due mammelle, per allattarmi?
Sì, ora giacerei tranquillo,
dormirei e avrei pace…
Oppure, come aborto nascosto, più non sarei,
o come i bimbi che non hanno visto la luce. […]
Perché dare la luce a un infelice
e la vita a chi ha l’amarezza nel cuore…


La risposta che Dio ha dato al grido di Giobbe non è una risposta fatta di parole. Quale parola potrebbe qui bastare? La risposta di Dio è stata ed è un evento, una parola fatta di carne e sangue: Cristo, il Dio crocifisso dall’amore. È in Cristo, questo Figlio che il Padre Suo lascia che sia immolato per la redenzione del mondo, che il mistero d’ogni lacrima, di tutto il dolore innocente di questi bambini trova senso. Un senso che rimane misterioso, e tuttavia un senso reale e come tale sperimentabile. Non è inutile la sofferenza di questi bambini. Come direbbe Péguy, che oltre al mistero della Speranza ha scritto anche Il mistero dei santi innocenti – cioè i neonati trucidati da Erode che la Chiesa venera come santi – questi piccoli sono, pur “senza saperlo”, dei “bambini Gesù”: sono cioè associati in modo tutto speciale alla croce di Gesù, che vuol anche dire alla sua fecondità, alla sua forza redentrice. «Cosa c’entra la salvezza del mondo con la vita di mio figlio?» si chiede Luca Frigerio, uno dei tanti papà che parlano nelle pagine di questo libro. Luca ha trovato risposta a questa domanda in un libricino prezioso, purtroppo non noto quanto merita: Pedagogia del dolore innocente del beato Carlo Gnocchi, prete brianzolo che dedicò l’ultima parte della sua vita, dopo la guerra, ai “mutilatini”. Don Gnocchi dice che «il dolore dei bambini collabora alla salvezza del mondo perché partecipa del sangue versato da Gesù. Come Gesù è l’innocente crocifisso, così questi bambini sono ciò che nell’umanità più si avvicina a quella mancanza di colpa, a quel sangue innocente, al sangue di Cristo».
Tante delle testimonianze riportate in questo libro si soffermano giustamente su questo grande mistero. Volendo fare l’avvocato del diavolo, qualcuno potrebbe obiettare: che prove abbiamo che questo è vero? Non è in fondo tutta questa gran “teologia della croce” nulla più che una pia autoconsolazione?
A questa obiezione risponderei così: certo, un mistero di fede come questo deve essere innanzitutto creduto, in pura fede, poiché non ne abbiamo prove tangibili. E tuttavia proprio le pagine di questo libro dimostrano, che a quanti credono, viene donata di fatto l’esperienza di ciò che credono, se è vero che attorno a questi «bambini Gesù», fiorisce davvero un’umanità nuova, redenta. Il loro sacrificio porta frutto – lo porta innanzitutto nella vita di coloro cui sono affidati.
Veniamo così all’ultimo e più vertiginoso insegnamento che ci danno questi «bambini Gesù». Nella vita si soffre. Non c’è modo di evitare il dolore. Non solo, spesso si soffre ingiustamente. E come non c’è modo di evitare il dolore, non c’è modo di eliminare l’ingiustizia. Tutti siamo un po’ vittime innocenti – oltre che un po’ carnefici. Ebbene, questi bimbi ci insegnano e ricordano che la sofferenza non è solo qualcosa da allontanare ed attutire il più possibile (senza ovviamente negare che il farlo sia giusto, il cristianesimo non è masochismo). La sofferenza, quando è innocente, può diventare un’azione – anzi l’azione più grande, feconda, potente che esista. Quale è l’opera più grande, l’opera con la O maiuscola che Cristo ha compiuto? Non la guarigione del cieco nato, non la resurrezione di Lazzaro. Ma la redenzione del mondo mediante la croce. Ave Crux – spes unica!
Sì, questi «bambini Gesù», questi bambini che agli occhi del mondo non dovrebbero essere mai nati, hanno invece una grande missione. E i loro genitori, i loro cari ne hanno una non meno grande: aiutarli a svolgerla, aiutarli a portare la croce. Nemmeno Gesù ha portato la croce da solo. Ha avuto bisogno, ha voluto aver bisogno di Simone di Cirene. Soprattutto ha voluto la vicinanza di sua madre, ha avuto nell’ora cruciale bisogno della vicinanza di Sua madre. Lo stesso è tanto più vero per questi piccoli ma grandi discepoli del Signore.
Vengo così alla conclusione. La croce non si porta da soli: questo è vero dei «bambini Gesù», ma è vero anche dei loro genitori, delle loro famiglie e degli amici che collaborano con essi. Ecco, l’associazione Mongolfiera, mi pare si possa dire, è questo: una compagnia di amici che si mettono insieme per aiutarsi innanzitutto a riconoscere la grandezza del mistero che si cela nei corpi sofferenti dei loro figli, e perciò ad accompagnarli con la venerazione e la dedizione che spetta loro.
Ringrazio gli amici della Mongolfiera per la testimonianza che danno, una testimonianza di cui abbiamo oggi più che mai bisogno.