Monsignor Louis Sako.

SAKO: «Restiamo in Iraq perché Dio ci vuole qui»

Ancora sangue sulla Chiesa irachena, ma i cristiani continuano a testimoniare la loro fede. Al centro di un recente Sinodo, la loro situazione e le sfide del futuro. Ne parliamo con l'arcivescovo caldeo di Kirkuk
Luca Pezzi

Suzana era cattolica. Il marito lavora in un ristorante vicino all’arcivescovado di Kirkuk. Era sposata da un anno. Qualche settimana fa, un commando ha fatto irruzione nella sua casa uccidendo lei e Muna, la suocera. Stessa città e stessa scena, sette minuti più tardi. Altro quartiere, altra casa... e altro morto: Basil Shaba Yousif, vendeva liquori.
Monsignor Louis Sako, arcivescovo dei Caldei di Kirkuk dal 2003, ha celebrato i funerali di questi cristiani. Con lui, Tracce.it è tornato ad aggiornare la situazione irachena a pochi giorni dalla conclusione del Sinodo della Chiesa caldea (28 aprile-5 maggio ad Ainkawa, vicino ad Erbil, capitale del Kurdistan; ndr).
Come sono andati i lavori del Sinodo?
Bene. C’erano il patriarca Emmanuel III Delly e sedici vescovi. Abbiamo studiato in profondità la situazione dei cristiani in Iraq, le loro sfide e speranze, e la situazione della Chiesa caldea dopo la caduta del regime. È stato un evento storico. I temi affrontati possono essere considerati la “magna charta” degli anni a venire, come chiesto dal Papa durante la visita ad limina.
Quali temi?
L’emigrazione dei cristiani, le sfide che abbiamo davanti e le soluzioni. Lo stato dei cristiani nella Costituzione federale e in quella del Kurdistan. Le sette evangeliche e il proselitismo. L’organizzazione della Curia patriarcale, la situazione del Seminario maggiore e della Facoltà di teologia. La vita dei preti, i salari, la loro formazione teologica e spirituale. La scelta dei membri del Sinodo permanente e quella dei nuovi vescovi di Erbil, Mosul e del Canada. Abbiamo formato comitati per dare seguito alla decisioni sinodali.
Qualche settimana fa un commando ha fatto irruzione in due case cristiane freddando alcune persone. Come mai?
Gli attacchi hanno preso di mira i cristiani per creare in città un’atmosfera di paura e confusione. Adesso la situazione è tranquilla, anche se in verità la sicurezza è precaria un po' dappertutto. C’è concorrenza fra il Governo centrale e i gruppi che controllano Kirkuk dal 2003.
Si tratta di episodi isolati?
Sì, abbiamo relazioni buone con tutti e continuiamo il nostro ruolo di ponte e di dialogo.
Come ha reagito la sua comunità?
Il Governo della città, il capo della polizia, quello dell'esercito, i membri del Consiglio municipale, i capi religiosi musulmani e quelli delle tribù, erano tutti presenti ai funerali. Tante le lettere di condanna dei partiti politici. La popolazione ha reagito positivamente. I cristiani all'inizio hanno avuto paura: hanno pensato che il loro destino potesse diventare come quello dei loro confratelli di Mosul. Li ho rassicurati, li ho incoraggiati a rimanere. E anche il Sindaco ha appoggiato la presenza cristiana.
Non è una zona a rischio?
La città sì, ma la popolazione è aperta, educata e non vuole violenza. Chi usa la violenza perde: i partiti politici lo sanno bene.
Come vivono i cristiani nella sua diocesi?
Fanno la spesa tranquillamente, vanno a scuola e a lavorare come prima. Anche di notte la vita è normale. La domenica la chiesa si riempie e il primo maggio la gente ha fatto festa per le ordinazioni dei nuovi sacerdoti che domenica scorsa hanno celebrato la prima messa.
Qualche settimana fa ha rinnovato la sua preoccupazione per il progetto sponsorizzato da politici, intellettuali e religiosi di un ghetto cristiano nella piana di Ninive. Perché questa preoccupazione?
Il progetto di istituire una zona autonoma, "safe Haven", preoccupa molto noi vescovi. È una trappola! I cristiani nella piana di Ninive sono 80mila; gli arabi sono la maggioranza. Chiudersi lì, dunque, vorrebbe dire suicidarsi. Si tratta di un piano voluto da alcuni partiti e religiosi che vivono fuori dal Paese, ma è un’utopia. Il ministro assiro-kurdo, Sargis Agajan, è il principale promotore del progetto sostenuto dai kurdi, ma vi sono anche certi partiti e religiosi assiri.
Il vostro dissenso può essere collegato alla ripresa delle violenze?
Penso che gli attacchi contro i cristiani a Dora, quartiere cristiano di Bagdad, oltre a quanto è successo a Mosul, siano legati con la piana di Ninive e con soldi dati a chiese e villaggi cristiani in favore di questo progetto.
Non sarete costretti a fuggire?
Per ora non penso, ma nessuno conosce il futuro. Tutto è precario in questo Paese.
Allora, perché rimanere?
Sono convinto che Dio ci voglia in Iraq. Come luce e sale della Terra... Abbiamo sempre portato il messaggio evangelico con fedeltà ai nostri concittadini musulmani, nei luoghi di lavoro e a scuola. La nostra condotta ha aiutato gli altri a pensare. Siamo Chiesa, e la Chiesa è sempre mandata, missionaria. Chiesa non vuol dire esclusivamente il clero, ma tutti i fedeli. Siamo chiamati, oggi più che mai, a rimanere e a vivere i valori cristiani, dialogando e collaborando per un mondo migliore. Siamo lì a dire che la violenza non ha futuro: il bene, la pace, il perdono, il dialogo posso assicurare la stabilità e la convivenza.
Ma perché rischiare la vita?
La vita di un vero cristiano è fatta per essere data. La vita è per gli altri e non per me in una maniera egoistica: una vita egoista non ha valore. Credere, vivere, dare la vita includono un rischio. Penso che la vita sia un’avventura. Quando sta con Dio ed è per gli altri, è sempre riuscita.