La nostra Africa

CHIESA - VERSO IL SINODO
Alessandra Stoppa

Un popolo dal fortissimo senso religioso, il rischio dello spiritualismo, la sete di un «Dio vicino». E la sfida del cristianesimo. Che abbraccia una cultura senza cancellarla. All’apertura del secondo Sinodo africano, alcuni contributi ci introducono alla fede nel Continente nero. Le testimonianze di chi, a vario titolo, vive le ferite e le speranze di una Chiesa in continua crescita

«Io non ho altro da offrire all’Africa se non la verità di Cristo». Sono le parole di Benedetto XVI. Era il 15 marzo, alla vigilia del suo viaggio nel grande continente africano. «Non ho altro da offrire, davanti alla sua profonda anima religiosa, le sue antiche culture e il suo faticoso cammino, le sue dolorose ferite, le sue potenziali speranze». È il continente più lacerato e, insieme, il protagonista di una crescita eccezionale di fedeli. Le statistiche dicono che tra qualche anno supererà l’Europa per numero di cattolici. Quella africana è una Chiesa che interpella tutti. Ora, il 4 ottobre si apre a Roma il secondo Sinodo africano dei vescovi. Alla vigilia del grande incontro, abbiamo chiesto di introdurci alla realtà dell’Africa e della sua Chiesa a chi le vive in prima persona. Dalla Nigeria al Sudafrica. Sei, tra uomini e donne, che in vario modo e da lungo tempo sono immersi nelle «profonde ferite» e nelle «potenziali speranze» del continente. Due missionari italiani, padre Giuseppe Panzeri, cappuccino di Lecco da 15 anni in Camerun, e Caterina Dolci, suora bergamasca da 24 in Nigeria. Luigi Salemi, un giovane architetto italo-sudafricano di Johannesburg. Rose Busingye, ugandese, che a Kampala si prende cura delle donne malate di Aids e degli orfani di guerra: lei parteciperà al Sinodo, invitata come uditrice. Poi Renata Cardini, un’imprenditrice di Addis Abeba. E Joakim Koech, insegnante di Nairobi.

Com’è vissuta l’esperienza della fede in Africa?
Rose: Il popolo africano ha un grandissimo senso religioso. Ha, radicatissima, la dipendenza da qualcosa di più grande di sé. Ma il rischio è che la fede galleggi. Perché non penetra tutti gli strati profondi dell’uomo. C’è solo quando c’è un problema:?mi ammalo, allora vado in chiesa e chiedo il miracolo. Ma poi Dio non c’entra con me. Come se la fede fosse vissuta nel sottofondo “magico” della mentalità africana. Non ho soldi, prego e i soldi vengono. Ma Dio non entra nella mia vita. Non è Lui che mi sta creando ora, non è Lui che mi sta dando l’essere, che mi dà il respiro. Come se camminasse parallelo alla vita. Invece è Lui che mi sta facendo in questo momento.
Suor Caterina: Questo stesso rischio è diffuso anche in Nigeria: un distacco tra fede e vita. Soprattutto al Nord, dove vivo io. Le chiese sono piene, si canta, si balla, ma manca il nesso con la vita. È più una religiosità.
Padre Giuseppe: Però questo dualismo è vinto quando l’aspettativa incontra una risposta in carne e ossa.?Quando il Papa è venuto in Camerun ad annunciare il Sinodo, sono partiti pullman pieni di gente che si è mossa proprio per questa ragione: «È come se Gesù venisse a trovarci». Quando faccio visita nelle case, mi dicono: «Oggi Dio si è fatto vicino». Il fatto drammatico è che spesso la Chiesa è vissuta come un’organizzazione. Sia dal popolo che dalla mentalità clericale. Mentre nella gente c’è l’aspettativa di un Dio che le si fa vicino. Questa aspettativa rischia di perdersi, anche a causa di una “inculturazione” malintesa.

Il fattore dell’“inculturazione” è uno dei punti cardine della riflessione della Chiesa, soprattutto sull’Africa. Riguarda l’incontro tra il cristianesimo e le tradizioni di un popolo. Giovanni Paolo II la definiva così: «Una cultura, trasformata e rigenerata dal Vangelo, produce dalla sua propria viva tradizione espressioni originali di vita e di pensiero cristiani». Com’è vissuta nei vostri Paesi?
Padre Giuseppe: Spesso l’“inculturazione” è malintesa, perché è ridotta a un confronto tra due culture: l’africana e l’occidentale. Risultato: due mondi che restano paralleli o che diventano un sincretismo. Invece è un’altra cosa: in una cultura in cui non si è mai parlato di Cristo irrompe un elemento nuovo dal quale nasce una nuova cultura. In alcune tribù non esistono certe parole, per esempio “speranza” o “penitenza”. Non ci sono proprio nel vocabolario. “Inculturare” vuol dire portare una nuova esperienza. Non è un confronto tra culture.

Qual è l’origine di questo malinteso?
Rose: Per molti, certe ingenuità della prima evangelizzazione. È stato detto: «Metti via gli idoli, ti dico io chi è Dio». Ma è diverso uno che ti dice: «Ti aiuto a conoscere Dio, perché anch’io lo sto cercando, ha creato te e me».
Padre Giuseppe: È molto evidente nei nomi. Nella mia zona, il Nord-ovest del Camerun, il Dio cristiano è chiamato Nyvymban, cioé “Dio dei bianchi”. Come fosse un Dio importato.
Luigi: Così pure nei Battesimi. In Africa non c’è una versione in lingua dei nomi evangelici, per cui sono giustapposti a quelli della tribù. Restano due cose separate. Culturalmente, significa affermare che il cristianesimo non completa la tua umanità.
Joakim: Da noi è evidente un altro aspetto di questa interpretazione dell’“inculturazione”. Dopo la colonizzazione, c’è una forte tendenza ad “africanizzare” la Chiesa. Si pensa: «Ora dobbiamo avere la “nostra” Chiesa». Per cui nei conventi indossano veli variopinti, tradizionali, ma così tutto si riduce a un problema di forma.
Padre Giuseppe: Oppure si vive un aut-aut. In Camerun, la prima generazione di cristiani (chi oggi ha 80-90 anni) si è trovata davanti a un bivio: o la tradizione o il cristianesimo. Hanno dovuto scegliere. E hanno seguito il cristianesimo. Per cui, da un certo punto di vista, hanno una fede più radicata, ma hanno comunque vissuto una separazione.

C’è, invece, la possibilità di non vivere questa separazione?
Joakim:
Sì, c’è. E non per l’idea diffusa che il cristianesimo si adatti alla cultura africana. Ma perché nell’avvenimento cristiano, come è stato per me l’incontro con Cl, fai esperienza che il cuore ha desiderio d’infinito. Questa non è una cosa africana. Questa è una cosa dell’uomo, di tutti.
Rose: Il movimento propone un metodo che chiede le ragioni della propria esperienza, ma non si tratta di un lavoro intellettuale, è un incontro. Per questo valorizza ciò che c’è. Mi viene da pensare che se don Giussani fosse stato il primo missionario in Uganda, avrebbe valorizzato a pieno questo senso religioso del popolo africano. Avrebbe detto: «Quello che cerchi negli spiriti, è Dio. E, se prima era ignoto, ora è presente e ti cerca anche Lui».

Come il cristianesimo cambia quel che c’è, senza annullarlo?
Padre Giuseppe:
C’è tanta gente che va a messa, poi fa un rito della sua tradizione, poi chiede all’amico musulmano di pregare... Insomma, le prova tutte. Invece, quando accade veramente, l’incontro cambia tutto, perché abbraccia quel che sei e la tua storia. Penso a un nostro amico, Peter. Mi ha detto: «Nella mia tradizione ho capito qualcosa di cosa significa essere uomo. Ma, nell’incontro col cristianesimo, ho capito che ho una dignità più grande». L’avvenimento cristiano non cancella nulla. Fa comprendere di più se stessi. Il test è che anche il rapporto con la tradizione diventa più libero. Perché le tradizioni rischiano di essere una gabbia: nascono come ricerca del divino, ma finiscono per diventare una struttura. I capi villaggio dicono cosa devi fare e, se non lo fai, ti escludono dalla tribù: diventa un peso anziché essere un aiuto.

Altre questioni che dovrebbero essere toccate al Sinodo?
Suor Caterina:
Il pericolo crescente in Nigeria è la percezione della Chiesa come organizzazione, del parroco come capo di un gruppo di potere. Ed è sempre più difficile nominare i vescovi: i gruppi etnici vogliono i propri rappresentanti e arrivano persino alle minacce.
Luigi: In Sudafrica, c’è una nuova generazione di vescovi. Prima la Chiesa era solo una cosa “dei bianchi”, ora i vescovi africani sono numerosi. Questo, però, comporta che molti giovani vadano nei seminari per interesse. È visto come un prestigio. E, non avendo le possibilità per studiare, scelgono la strada sacerdotale.
Renata: La nostra situazione è molto diversa. L’Etiopia è stata una civiltà giudaica, poi una delle primissime comunità cristiane, ha una storia millenaria. Per cui la cultura è fondamentalmente cristiana. Ma - come negli altri Paesi - è evidente la persistenza di forme di magia. Non possiamo poi dimenticare che l’Africa è abitata da moltissime confessioni:?in Etiopia la maggioranza è ortodossa,?i cattolici sono l’1%. Di questi molti, per l’educazione ricevuta, vivono come me nella difficile compresenza delle due anime, cattolica e ortodossa, in una stessa famiglia. Una diversità che si riflette anche nella realtà sociale: la Chiesa ortodossa tende generalmente all’assistenza, quella cattolica fa una proposta per l’uomo di cambiamento. Perché la persona possa capire chi è, crescere, avere un lavoro, una famiglia. È una presenza essenzialmente di opere educative.

Punti di speranza?
Padre Giuseppe:
La preoccupazione stessa dell’“inculturazione” da parte della Chiesa ha dato anche dei frutti. Certe strutture su cui era organizzata la tribù ora fanno vivere le parrocchie. Da noi, per dire, la riunione dei guerrieri (samba, che significa “sette”) dove si discuteva la difesa del villaggio è diventata la riunione per decidere della vita parrocchiale. La processione del lezionario a messa è il corteo con cui i messaggeri si recavano dal capotribù. Tradizioni che in tanti villaggi sono sparite, vivono ancora nelle chiese.
Suor Caterina: Comunque, il problema della Chiesa è lo stesso ovunque: preoccuparsi di annunciare Cristo, senza fossilizzarsi sulle forme. Saranno gli uomini a fare i conti con le tradizioni. I ragazzi del mio villaggio mi dicono: «Qui ci sentiamo liberi di esprimerci, nella nostra tradizione non possiamo perché c’è la gerarchia». Capiscono da soli che un Gesù che ti porta questa libertà è più affascinante. C’è grande sete di un Cristo che risponde a tutte le domande. La responsabilità è su questo.
Luigi: Se poi io guardo che Dio è arrivato fino al Sudafrica, fino all’estremo punto dell’Africa, allora capisco che il Mistero sta lavorando e lavorerà sempre. Anche se non so come.
Rose: Dio non ha confini e non si ferma neanche davanti al peccato. Dobbiamo avere la semplicità di riconoscere questo fatto:?Dio è entrato nel mondo, senza aver schifo di nulla. Ecco la speranza.