Dove tutto ha avuto inizio

PRIMO PIANO - NATALE IN TERRA SANTA
Alessandra Stoppa

Dal muro che taglia Betlemme, alle aule della Cattolica piene di arabi. E poi Salwa, Tommaso, il Custode... A sei mesi dal viaggio del Papa, la vita di uomini e donne che fanno i conti con la propria fede. E con una “vocazione dentro la vocazione”: quella di vivere qui, dove la presenza di Cristo sembra qualcosa di fragile e nascosto. Ma è una sfida per tutti

«Scendi al volo, faccio il giro dell’isolato e ti riprendo. Hai due minuti». Essere catapultata alla Natività di Betlemme da una jeep non è esattamente quello che ti eri immaginata. Ma corri. Ti abbassi per entrare dall’ingresso di pietra del grande santuario bizantino. Una porta murata e rimpicciolita perché i turchi non la profanassero coi loro cavalli. Le navate sono in penombra. C’è la fila, lunga, di pellegrini. Ti intrufoli fra le teste coperte dai foulard e il fumo delle candele. Fino alle scale. Puoi arrivarci col fiatone e senza prepararti, ma scendi nella grotta ed è irresistibile. Non sono i tuoi pensieri a dare senso a quella roccia sottoterra, è il contrario. Ti sorge una domanda di cui nessun pensiero è capace. Chi ha creato tutto si è messo con me? «Jallah, jallah!», un tizio ti spinge, devi lasciare spazio agli altri. Catapultata fuori un’altra volta. Risali in macchina. Ma quella domanda si è accampata in testa.
Siedi a fianco di Sobhy Makoul che guida spedito la sua jeep. Se sei qui per vedere come vive e cresce il seme della presenza cristiana dove il Natale è entrato nella storia, non c’è guida più efficace. Sobhy è il segretario del Patriarcato maronita di Gerusalemme: un cristiano maronita palestinese con passaporto israeliano. E ti scorrazza, rigorosamente per scorciatoie, tra le teste con treccine e yarmulke delle vie d’Israele, fino alla sabbia dei Territori.
La meta è Betania, a poche centinaia di metri oltre il Monte degli Ulivi. Ma ci tocca fare un giro di venti chilometri per via del muro. Costeggiamo i bordi del deserto di Giuda, verso le Alture Rosse. Passiamo Ma’ale Adumimm, uno degli insediamenti israeliani a est di Gerusalemme. C’è tutto il tempo di vedere calare il sole. Fino alle luci rosse e blu del check-point. Rallentiamo. Il ragazzo in mimetica dà uno sguardo ai passaporti, un altro nell’abitacolo. China appena la testa, per vedere chi sta dietro. Poi un saluto che è solo un cenno, poco convinto. Come se fosse una gentile concessione lasciarci andare.

I?boccoli di Sojoud. Arriviamo a Betania che è già buio. Sulle strade sconnesse si alza la polvere. Non c’è illuminazione, né i nomi delle vie. Dove vive Samar Sahhar con le trenta bambine della sua casa d’accoglienza, c’è piuttosto una discesa rocciosa.
Forse è meglio così. Se ci fossero indirizzi, luce e campanelli i furgoni non sbaglierebbero strada e loro non godrebbero di provviste non calcolate. «Anche ieri sono piombati qui con dei sacchi di riso. Non erano per noi. Ho detto alle mie ragazze: “Shhhhh... è la Provvidenza”». Samar ride e dà una carezza a Norma. Ha quindici anni ma lo sguardo profondo che ti interpella. È una delle più grandi tra le figlie di Samar, cristiana palestinese che ha fondato questo orfanotrofio imparando l’accoglienza dai suoi genitori: trasformarono una stalla in una camera per accogliere dieci bambini, che diventarono cento, poi trecento. Lei ha aperto questa casa per le femmine, “Lazarus Home”.
Beviamo il tè in veranda, mentre inizia la processione in pigiama per dare la buonanotte a mamma Samar: una a una le bimbe la baciano, poi scappano via ridendo. Sujoud no. Le si aggrappa alle gambe perché non vuole andare a letto. È la più piccola della casa, quattro anni. Quando è arrivata qui era stata presa a martellate dalla madre, non aveva più i denti e intere ciocche di capelli. Ma non riesci a immaginarlo, oggi vedi due occhi che brillano e i boccoli nerissimi. Samar la prende in braccio senza interrompere il racconto della sua giornata, passata in tribunale. «Salwa è una musulmana, madre di quattro bimbe che sono qui. Ha ucciso il marito che la costringeva a prostituirsi. L’ha fatto per difendere le altre figlie. Rischia la pena di morte». Da quando è iniziato il processo, Salwa si è trovata in aula una famiglia che non sapeva di avere. Samar, con altri amici, è andata a testimoniare per lei. Non appena possono vanno a trovarla in carcere. Ultimamente la trovano che aiuta e fa compagnia alle altre donne in attesa di giudizio come lei. È la vita frantumata che cresce nuova, come i boccoli neri di Sujoud. Non senti il bisogno di chiedere come sia possibile, perché ce l’hai davanti. È la carezza stabile di Samar.
«È quel che serve qui: rapporti stabili. Un amore stabile», ci dice Tommaso Saltini, una volta tornati a Gerusalemme. Siamo nel suo studio, nel cuore della Città Vecchia, davanti alla torre di David. È il  responsabile dell’Associazione di Terra Santa, l’organizzazione non governativa della Custodia per le attività di cooperazione internazionale. «Qui serve stare, fisicamente stare». Si alza per chiudere la finestra: mancano due ore al tramonto e dai vetri penetra la voce acre del muezzin che invita alla preghiera. «Lo vedi innanzitutto su di te: più qui i contesti sono molteplici e complessi, più hai bisogno di un luogo, di una comunità», com’è per lui la casa dei Memores Domini dove vive con Ettore e Alberto, che lavorano per la Custodia e per Avsi. La presenza cristiana è qui a fare i conti con la propria vita. Non per essere un ponte tra palestinesi e israeliani.
La stessa Chiesa ha bisogno della dedizione dei francescani, fedeli da otto secoli. Il loro “quartier generale” si estende intorno al convento di San Salvatore, a due passi dal Sepolcro. Qui il Custode di Terra Santa, padre Pierbattista Pizzaballa, ci riceve col suo realismo robusto e telegrafico: «L’incisività dei cristiani nella vita pubblica è minima. Siamo pochi. E diversificati. Tante Chiese, tanti riti. C’è una continua emigrazione. Soprattutto del ceto medio. Soprattutto dai Territori». Poi riparte con piglio bergamasco: «Ma anche se la vita dei cristiani qui è fragile, ha un’importanza sproporzionata alla sua presenza!», batte sulla poltrona le mani giovani che spuntano dal saio. Non sta parlando delle opere di carità, educative, sanitarie, sociali («comunque importantissime: le nostre scuole sono le più antiche e prestigiose»). C’è una cosa prima di questo: «La testimonianza viva che passa nei rapporti personali. I cristiani sono una presenza che non crea problemi. È un fatto concreto e non da poco». Si ferma: «Sono una realtà pacificante». Qui. Dove si accavallano odi secolari e contraddizioni. Dove i rapporti pubblici sono ingessati e lo status quo dei luoghi santi sembra aver impregnato la vita quotidiana. Con le sue ripartizioni tese che sono nell’aria. Diventate quasi un modo di pensare. Non può scardinarle un discorso, nessun discorso, solo un fatto più radicale.
  
«Ci siamo sbagliati». Come la visita del Papa, a maggio scorso. Non era ben vista. «C’erano molti dubbi», continua Pizzaballa. Con la guerra di Gaza alle spalle, sembrava inopportuna. Molti cristiani per primi la scongiuravano, col pensiero fisso alle strumentalizzazioni, agli equilibri. «Ci siamo sbagliati», erano state le parole con cui ci aveva accolto poco prima monsignor Antonio Franco, Nunzio Pontificio per Israele e Delegato per Gerusalemme e i Territori dell’autorità palestinese. Eravamo andati a trovarlo nella sua residenza sotto l’imponente Università dei mormoni del Monte Scopus. «La scelta del Papa ci preoccupava. Invece era quello che serviva. Che lui venisse e parlasse a tutti noi. La percezione della comunità cristiana ne è stata trasformata, ha ripreso speranza, tantissimi sono venuti a dirmelo». Pizzaballa ce lo conferma: «È stata una visita molto vera. Mai “politicamente corretta”. Stiamo rileggendo i discorsi ora e vengono fuori in tutta la loro forza. È stato un incoraggiamento, in tutte le difficoltà che si vivono». Ma che cosa sostiene lei ogni giorno? «Il rapporto con la gente mi sostiene molto». «Molto», ripete. «Quando capisci che l’uomo ha solo bisogno di essere amato, cambia tutto. Cambia il rapporto immediatamente, si disintossica da tutto». Le famiglie cristiane hanno già iniziato a chiedergli un aiuto per il Natale. Da come abbellire il quartiere ai momenti di celebrazione. E anche questo è un aspetto che vuole custodire. «Non è routine, è rito. È partecipare a un fatto e attenderlo». C’è la frenesia per i pellegrini in arrivo. C’è il messaggio da scrivere. «Ci sto lavorando. È una sfida, perché non può essere scontato. Per me, dico. Cosa vuol dire che Gesù riaccade? Bisogna che guardi davanti a me».
  
Da Hebron a Gaza. Ci salutiamo e gli chiedo qual è la sua preghiera la mattina, quando si alza in questa terra mai in pace. «Cambia ogni giorno, la preghiera. Però sempre chiedo di essere fedele. Alla vocazione che mi è stata affidata, di seguirla secondo la Sua volontà». Quando ha iniziato questo compito si è sentito «schiacciato da tante emergenze e problemi: volevo risolvere tutto, mi lasciavo fagocitare. Col tempo imparo ad affidare le cose. Alcune vanno proprio lasciate andare. E nessuna ti appartiene. Non sono tue». È la povertà di san Francesco. «Non puoi mettere tutto il cuore nelle cose perché le perdi». Dice che ci vuole distacco, e anche una «certa solitudine è necessaria». In questa terra dove le passioni assorbono tutto.
  La prima cosa di cui ti parlano i ragazzi di qui è la relazione eterna che sentono tra i loro piedi e la terra sotto di essi. «Vivere in Terra Santa è un grande onore». Jacob è nato a Betlemme e dice che morirà qui. Ha una croce d’oro al collo. Tutti i giovani cristiani di qui ce l’hanno. Se non è il ciondolo, è un tatuaggio all’interno del polso. Ha 21 anni e studia Scienze informatiche e business in questa Università cattolica di Betlemme che ha i cortili interni pieni di ragazze col velo. Alcuni maschi con la kefiah inneggiano a una gigantografia di Arafat. Oggi sono cinque anni dalla sua morte. Gli altri assistono, tutti insieme. Prima di essere musulmani o cristiani si sentono palestinesi.
«Devi essere sicuro di avere una ragione per vivere qui». Lubna vive a Hebron, la città delle tombe di Abramo, Isacco, Giacobbe. È musulmana. Il velo incornicia stretto i suoi vent’anni che si infiammano quando dice che «sono nata qui per un motivo: migliorare le condizioni del mio popolo». A 11 anni aiutava suo zio a portare gli stranieri a Hebron perché vedessero come stavano «davvero» le cose. Da allora a oggi «tutto quello che faccio è in relazione a questa terra». Parla tesa: «La mattina mi alzo, anche se il futuro è scuro, perché per me svegliarmi è svegliarmi qui».Una sua compagna, Berlanty, di Gaza, è stata arrestata dai militari israeliani mentre tornava a casa. Studiava a Betlemme dal 2005, ma ora ai cittadini della Striscia è proibito stare in Cisgiordania. L’hanno rimandata a Gaza e non può tornare indietro, doveva laurearsi a dicembre. «Bad luck», ti dice con amara ironia Robert Smith, vice presidente per gli Affari Accademici dell’ateneo, che ha fatto ricorso al Supremo tribunale d’Israele per difenderla e ora è preoccupato per gli altri studenti di Gaza, che potrebbero non ricevere il permesso: «Certe situazioni si stanno inasprendo».
Te lo esemplifica molto bene padre Eugenio Alliata, in un salottino affacciato sulla chiesa della Flagellazione, nel quartiere musulmano. È docente allo Studium Biblicum Franciscanum. Passa dal raccontarti le meravigliose scoperte archeologiche di questo secolo ai ragazzi cristiani della West Bank che «vengono in pellegrinaggio qui, hanno sedici, diciott’anni e mi confidano il loro dispiacere più grande: non essere mai stati al mare. Ce l’hanno a venti chilometri. E non possono andarci. Che cosa fanno quelle famiglie la domenica?». Gli scendono le lacrime. Non te lo aspetti da questo frate energico entrato in convento a nove anni, da trenta in Terra Santa. Conosce la storia di ogni frammento degli scavi, ti racconta degli anni a Nazareth a fianco di Beniamino Bagatti, il più illustre archeologo francescano del secolo scorso. «Ovunque si mette mano sotto terra si trovano luoghi della Chiesa. I numeri dicono che la presenza cristiana è minuscola. Ma poi guardi qui…»: il tratto di via Dolorosa fuori dalla porta è pieno di pellegrini «tutto il giorno, tutti i giorni. È un seme, ma c’è, e non scomparirà mai». Come per la processione delle Palme: arrivano dai villaggi, potrebbero essere duecento e magari sono venticinque, «ma allora tutti applaudono quei venticinque». Tra poco, con la festa del Natale, i cristiani «canteranno e alzeranno il volume delle radio e delle tv e apriranno le finestre per far sentire le musiche e i canti».
  La sera, in macchina, si parla della situazione politica. «Non vi vengono le vertigini per tutto ciò che sfugge, per le dinamiche che non si vedono?», chiedi pensando ad alta voce. «Una volta mi venivano le vertigini. Ora mi viene la decisione di vivere la realtà presente», risponde guardando davanti a sé la strada per Gerico padre Vincent Nagle. Californiano, lavora per il Patriarca latino. «Tutti hanno bisogno di Cristo». È questo il suo giudizio politico stasera. Tornati a Gerusalemme, svolti in una delle viuzze della Città Vecchia e incontri Filippo, Giovanni e Daniele. Prendono le misure tra gli archi e i gradoni di pietra. Sono qui per la tesi in Architettura: un progetto di ampliamento della Custodia. Tre studenti incantati dai crociati che «in cento anni hanno costruito le cose più belle che ci sono qui».
Li guardi puntare il laser e annotare sui fogli le misure del quartiere, tra il suk e il Sepolcro. «La vita di Gesù è fatta di distanze reali, ci pensi?», ti chiede Filippo. Una vita che si può misurare. Fatta di passi d’uomo. Di un chilometro e mezzo tra il cenacolo e il Monte degli Ulivi. Di «un tiro di sasso». Tanto così si allontana Gesù dai discepoli nel Getsemani, per inginocchiarsi e pregare. «È successo tutto in poco spazio. È una storia reale come solo può esserlo la vita». Come un tiro di sasso tra gli alberi. Eppure i luoghi santi non rispondono alla domanda che suscitano.

Lizy e la Grotta. «Non è dalle pietre che nasce la fede, ma toccarle con mano la rafforza», ti dirà l’indomani José Miguel García, biblista spagnolo, davanti alla chiesa di Emmaus, nel villaggio di El Qubeibeh, undici miglia a ovest di Gerusalemme, la distanza indicata nel vangelo di Luca. Dalla terrazza, tutta la zona di Ramallah è assolata. Qui i due discepoli sfiduciati hanno incontrato Gesù lungo il cammino. Non avevano creduto che era risorto. Né l’hanno riconosciuto vedendolo. Finché non gli è arso il cuore nel petto stando con lui. Chi ha creato tutto si era messo con loro, per la loro felicità.
È l’ardore che fa star qui ogni giorno suor Lizy. Da vent’anni si prende cura dell’educazione dei bambini di Ortas, un paesino disgraziato vicino a Betlemme. Ti racconta la sua storia come un’innamorata. Indiana, il viso d’attrice, taglia corto sul Natale da queste parti: «È straordinario. Non tanto per la grotta. È quello che permette di vivere. Sei amato e allora inizi a guardare l’altro per quello che è, nel mistero che Dio solo sa».