Giovanni Paolo II.

Quei Papi agli altari, «trasparenti e disponibili per l'opera di Dio»

In occasione della firma del decreto che riconosce le "virtù eroiche" di Giovanni Paolo II e Pio XII, don Massimo Camisasca, con le parole dell'allora cardinale Ratzinger, spiega di cosa si tratta
Massimo Camisasca

In occasione di una canonizzazione avvenuta tre anni prima della sua elezione a sommo pontefice, il cardinal Ratzinger, in un articolo pubblicato sull’Osservatore Romano, parlò delle virtù eroiche che si richiedono per il riconoscimento della santità di un uomo o di una donna da parte della Chiesa.
In cosa consiste l’eroismo nell’esercizio delle virtù? Devo dire che questa domanda è risuonata spesso dentro di me in occasione di tante beatificazioni e canonizzazioni, soprattutto durante il pontificato di Karol Wojtyla. Di quali virtù si tratta? Delle virtù teologali (fede, speranza e carità)? O anche di quelle cardinali (prudenza, giustizia, fortezza e temperanza)? E cosa vuol dire eroismo?
Allora il cardinal Ratzinger rispondeva così: «Virtù eroica […] vuol dire che nella vita di un uomo si rivela la presenza di Dio, cioè si rivela quanto l’uomo da sé e per sé non poteva fare. Virtù eroica […] non vuol dire che uno ha fatto grandi cose da sé, ma che nella sua vita appaiono realtà che non ha fatto lui, perché egli è stato trasparente e disponibile per l’opera di Dio».
Vorrei sottolineare soprattutto quest’ultima espressione dell’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. L’eroismo, nella vita cristiana, si raccoglie in quest’unico atto della libertà: conoscere la volontà di Dio e seguirla.

Karol Wojtyla ha cominciato subito a conoscere la volontà di Dio che si è manifestata a lui sotto i segni della dolcezza e della forza. La dolcezza della madre, morta quando lui era molto piccolo, di cui ha sempre conservato nel cuore la nostalgia. La venerazione per Maria è stata il frutto maturo di questa memoria. Ed anche la straordinaria e nuova attenzione che egli ha avuto per il compito della donna, di ogni donna, nella società e nella Chiesa. La di suo padre, da cui ha imparato a pregare. Lo vedeva inginocchiato davanti al letto. Forse va ricercata proprio in questa esperienza la radice di quella capacità, soprannaturale in Wojtyla, di parlare con Dio nella preghiera. «Essere santo è nient’altro che parlare con Dio, come un amico parla con l’amico». Così commenta ancora il cardinal Ratzinger.
Chiunque abbia accostato per un po’ di tempo Giovanni Paolo II ha notato in lui non solo la frequenza della preghiera, ma soprattutto la sua profondità. Due giornalisti, Accattoli e Del Rio, hanno paragonato Wojtyla a Mosè. Come il grande profeta ha traghettato il popolo dal deserto alla terra promessa, così Wojtyla ha traghettato la Chiesa verso il secondo millennio. Ma il riferimento a Mosè, a mio parere, va approfondito: così come egli parlava faccia a faccia con Dio (cfr. Es 33,11) allo stesso modo Wojtyla viveva un dialogo permanente con il nostro Creatore e Redentore.
Non so approfondire di più, e non voglio azzardare ipotesi che forse ci allontanerebbero dalla realtà. Ciò che era straordinario nel papa era la quotidianità del suo dialogo, il suo desiderio di leggere tutto nella luce di Dio. Forse questo spiega anche la frequenza con cui voleva incontrare persone, conoscere punti di vista, attingere a sapienze diverse: Dio parla anche attraverso i più piccoli. E questo spiega anche la sua grande capacità di ascoltare, quasi accogliere in chi parlava randelli della rivelazione di Dio.
Ho sempre pensato: come fa un uomo che conosce così tanti particolari del male, e soprattutto del male nella Chiesa, ad essere così in pace? Certo, mi dicevo, la sua sarà una pace drammatica. Eppure era una pace reale. Recentemente Gian Franco Svidercoschi, un giornalista che è stato per molto tempo accanto a Giovanni Paolo II, mi ha raccontato che la sera in cui arrivò al papa la notizia dell’uccisione di padre Popieluszko lui era a tavola con il Santo Padre ed altre persone nell’appartamento pontificio. Il Papa si alzò da tavola e andò subito a pregare nella cappella privata. In ginocchio, in solitudine, in concentrazione. Poi tornò a tavola. Erano giorni drammatici per la sua terra e, forse, anche per l’Europa. Ma egli tornò a tavola pacificato. E come ricomposto in unità da quella preghiera e da quel sacrificio.

Ho cercato di delineare, seppure in tratti molto fugaci, quale sia stata la fede di Giovanni Paolo II. La virtù teologale della fede è stata a mio parere la stella polare della sua vita. Tutta l’immensa mole dei suoi interventi pubblici e, per quanto mi è stato possibile vedere da testimone, anche la modalità dei suoi interventi privati, documentavano in lui una fede costantemente vissuta e cercata come giudizio sugli eventi delle vite personali e del mondo. Alimentava questa fede nella celebrazione della Messa, davanti all’Eucaristia, nell’amore per la Scrittura. Quest’ultimo emergeva soprattutto nelle omelie che rivelavano la sua profonda penetrazione dei significati scritturistici e ne mostravano, in chiave fenomenologica, l’attualità per la vita dell’uomo.
Il rosario, la via crucis, la preghiera delle Ore costituivano per Giovanni Paolo II i semi di una continua immersione in Cristo. Quando mons. Scola gli chiese dove trovare la forza e la saggezza per le decisioni, lui rispose: «sull’inginocchiatoio». Penso che egli abbia preso sull’inginocchiatoio la maggior parte delle sue decisioni più importanti.

Voglio parlare poi della sua carità. Giovanni Paolo II è apparso a me come il grande sacerdote, il pontefice che assumeva su di sé il male e il bene del mondo per offrirli a Dio. Oltre al suo raccoglimento nella preghiera, ho sempre pensato alle fatiche dei suoi viaggi e alla sua donazione continua come a una carità verso Dio e verso gli uomini, innanzitutto verso i suoi fratelli di fede. Tutto vissuto senza superficialità, ma in una grande leggerezza dello spirito, nella letizia, perfino nell’umorismo. Nella consapevolezza che la Provvidenza guida le sorti del mondo.
Quando raggiunse la chiara consapevolezza che Dio lo chiamava al sacerdozio, pur nei tempi difficili dell’occupazione nazista, ha lasciato gli studi che amava e il teatro per l’incertezza di un seminario provvisoriamente sistemato nelle stanze del vescovo. Ha detto di sì a papa Paolo VI che l’ha voluto vescovo giovanissimo. Ha detto di sì ai cardinali - e infine a Dio - che l’hanno voluto papa, chiamandolo da un paese lontano. Ha detto di sì alle molte malattie che hanno segnato la seconda parte del suo pontificato, consapevole che tali prove erano una parte privilegiata del suo ministero.

Infine la speranza. La lettura provvidenziale della storia che ho raccolto talvolta dalle labbra di Giovanni Paolo II è stato per me il segno più evidente della virtù della speranza nella sua vita. Le contrarietà che egli ha vissuto fin dagli anni dell’infanzia, e poi lungo tutta la sua esistenza, non hanno spento in lui il sorriso, la letizia, una visione sostanzialmente positiva della vita: tutto ciò egli comunicava con facilità all’ambiente circostante dando a tanti uomini e donne nel mondo il coraggio di affrontare le proprie difficoltà. Giovanni Paolo II ha amato i suoi nemici. Tutto ciò è documentato in modo estremo dalla visita che compì in carcere al suo attentatore e dalle parole di perdono pronunciate pochi giorni dopo l’attentato ancora degente in ospedale.

È stato un uomo prudente nei giudizi. Quando ascoltava pareri negativi su persone, poteva sentire o dissentire, ma non si associava mai in modo plateale alla condanna di nessuno. Ha avuto a cuore i diritti delle persone e ha rispettato la giustizia sociale verso i suoi dipendenti. Ha trattato con giustizia i suoi collaboratori e i suoi famigliari. È stato un uomo forte. Nelle difficoltà e nei momenti felici. Viveva con serenità di spirito, pazienza e conformità al volere divino i giorni che Dio gli concedeva. Non si lasciava trascinare dal suo carattere e dalle sue inclinazioni. Non aveva eccessi d’ira o di impazienza. Pur non avendo cura esagerata della sua salute, ha sempre dedicato il giusto tempo al riposo. Consapevole delle necessità economiche del suo ministero, non amava però lo sfarzo inutile, non esigeva trattamenti speciali nei viaggi o fuori casa. Non voleva cose personali superflue. Nel momento della morte la sua fama di santità si sparse immediatamente in tutto il mondo. Ne fu documentazione l’immensa partecipazione di fedeli, e anche di non credenti, ai suoi funerali, e l’enorme numero di persone che cercò di visitarne la salma. Tale fama di santità non è diminuita. I fedeli continuano a recarsi alla sua tomba, sia per ringraziarlo, sia per chiedere la sua intercessione per grazie e favori.
«Essere santo - concludeva il cardinal Ratzinger - non comporta essere superiori agli altri; anzi, il santo può essere molto debole. La santità è lasciare operare l’Altro».