Padre Leoni in Canada.

TESTIMONI Padre Leoni e quei «dieci anni d’inferno»

Forlì ricorda il centenario della nascita del prete romagnolo che aveva scelto l’Urss come terra di missione. Finendo in gulag per la fede. Nella sua vicenda, l’esempio di «un uomo che riconosceva in tutto la presenza di Cristo»
Marta Dell’Asta

Nel 1955 sulla stampa italiana era scoppiato il caso di un certo Pietro Leoni, gesuita romagnolo che aveva avuto la sorte poco invidiabile di passare dieci anni in un lager sovietico. E di tornare a casa. Questa vicenda - ben raccontata da Mara Quadri e Alessandro Rondoni in Pietro Leoni, Edizioni La Casa di Matriona - è stata al centro delle celebrazioni che Forlì e Premilcuore, dove padre Leoni è nato nel 1909, gli hanno dedicato nel centenario della nascita. Un anniversario cui i media non hanno dato molto spazio, che lunedì 18 verrà ricordato nella testimonianza conclusiva di monsignor Paolo Pezzi, arcivescovo dell’Arcidiocesi della Madre di Dio a Mosca (l’incontro “La speranza del cristianesimo”, alle 21 presso l’Auditorium della Cassa dei Risparmi di Forlì, sarà un omaggio anche alla figura di don Francesco Ricci, il sacerdote di Forlì che s’è speso per sostenere la Chiesa oltrecortina).
Nato nel 1909 da contadini, diventato prete e gesuita, Pietro Leoni era partito per la Russia come cappellano militare nel 1941; nel 1945 era rimasto volontariamente in territorio sovietico per fare il parroco; arrestato quasi subito, aveva scontato dieci anni di lavori forzati nelle miniere di carbone del terribile campo di Vorkuta (nel ’47 li avevano poi portati a 25, gli anni), sino alla fortunosa liberazione e al ritorno in Italia.
In piena Guerra Fredda, un caso del genere non poteva non fare scalpore. Leoni aveva raccontato, senza reticenze, davanti alle platee di tutta Italia, con semplicità di cuore e la sua innata vis polemica. Ma al breve momento di gloria era seguito, quasi una vendetta, il momento delle calunnie, poi l’oblio. Del resto non c’era da aspettarsi di meno, perché nella sua testimonianza padre Pietro accusava sempre l’ideologia comunista come la fonte di tanto male, e questo, detto da un testimone oculare, toccava troppo sul vivo la sinistra italiana, che si era impegnata a squalificarlo con ogni mezzo. Così era riuscita ad imporre l’equazione: Leoni - fascista, e da quel momento i pochi amici e i parenti che cercavano di difenderne il buon nome si erano trovati a sbattere contro un muro di gelido disprezzo. Un vero tabù.
Tuttavia sia la fama che la censura avevano mancato il bersaglio: a Leoni stavano stretti sia i panni dell’anticomunista che quelli dell’impostore prezzolato dal Vaticano. Nessuno, in realtà, aveva interesse a capire per cosa veramente si era battuto quell’esile pretino (quando era tornato era addirittura trasparente) dalla forza indomabile, che era andato a ficcarsi in una situazione gravida di rischi senza nessuna particolare necessità.
Infatti nessuno gli aveva chiesto di restare in Urss a fare il parroco, era stato solo il suo ardente amore per Cristo e la Chiesa a spingerlo: padre Pietro era un missionario fin nel profondo del cuore, e ciò che gli premeva sopra ogni cosa era riportare la gente alla fede. Lo dimostra la sua vicenda umana: il detenuto Pietro Leoni in quei dieci anni non aveva mai tradito se stesso né gli altri, non aveva mai smesso di svolgere apostolato, aveva dato prova di coraggio fisico, fermezza psicologica e una carità senza limiti. La sua fiducia in Dio era così totale da dargli una forza indomabile, fino a mettere in difficoltà la stessa polizia segreta. Un giorno il giudice istruttore aveva perso le staffe con lui e gli aveva dato dell’impudente, poi gli aveva chiesto: «Leoni, ma lei vuole vivere sì o no? Se continua così finirà male!». E lui gli aveva risposto: «Io ho bisogno di una sola cosa: che la santa Chiesa sia salva, e la verità e la giustizia trionfino. Se per questo è necessario che io dia la vita, la do ben volentieri».
Diversamente da altri suoi colleghi sacerdoti che, cercando di dimostrare agli inquirenti che la loro attività religiosa non danneggiava lo Stato sovietico, si erano spezzati miseramente, Leoni aveva resistito con un dominio di sé e una lucidità di giudizio che hanno lasciato stupiti anche gli studiosi che hanno riesumato i verbali d’interrogatorio. Davvero pochi hanno resistito come lui, senza mai firmare nessuna falsa confessione. Ma in tutto questo l’indole personale era stata solo uno strumento potenziato dal totale abbandono in Dio. Sin da quando, il 29 aprile 1945, era stato arrestato a Odessa, e lui non era rimasto troppo sconvolto perché aveva la chiara certezza che nulla accadeva per caso. Questo, per lui, voleva dire solo un nuovo fronte di missione.
La baldanza e l’ironia, che traspaiono anche tra le righe dei verbali, non devono ingannare: padre Pietro aveva paura dell’ignoto e della sofferenza, e la solitudine gli pesava tremendamente, ma non fino a cancellare la presenza di Dio. Uno dei momenti più alti di questa esperienza era stato durante il confronto con un confratello che lo aveva accusato di spionaggio. Lì nell’ufficio del giudice istruttore, padre Pietro aveva immediatamente perdonato il tradimento, e riconoscendo nel traditore stesso la presenza di Cristo misericordioso, aveva chiesto a lui l’assoluzione dai propri peccati.
Negli anni di lager la sua preoccupazione costante era stata quella di celebrare l’Eucaristia il più spesso possibile, in tutte le condizioni e in tutti gli angoli, perché gli era evidente che la cosa che più necessitava a quella povera umanità calpestata era la dignità di figli di Dio, la forza di una presenza invincibile. A causa della messa era finito in cella di rigore innumerevoli volte, aveva scavato nelle miniere di carbone fino allo sfinimento, era finito all’ospedale con le ossa rotte... E intanto pregava sempre: «Signore allontana da me questo calice, ma sia fatta la tua volontà».
Con un senso di lealtà e un amore straordinari, temeva, chiedendo la liberazione, di sottrarsi alla propria missione. Ma non si era sottratto mai, anche dopo il lager, quando era iniziata per lui un’altra prova durissima, forse più amara: tornato in Italia, i suoi superiori gli avevano chiesto di tacere, di dimenticare. Si credeva che questo facilitasse i rapporti internazionali. E lui aveva obbedito, chiedendo di andare in missione in Canada.
«Non mi rammarico dei terribili anni in Russia, durante i quali sono stato lo strumento di cui Dio si è servito. Se potessi tornare indietro e scegliere liberamente, vorrei riviverli esattamente come li ho vissuti, questi dieci anni d’inferno».