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TESTIMONI DIGITALI E il Vangelo finisce in rete

Dal 22 al 24 aprile, un convegno mette a tema le strade aperte dalle nuove tecnologie. Tra incontri e tavole rotonde, oltre 1300 partecipanti affrontano la sfida dell’educazione nell’era internet
Monica Mondo

Testimoni digitali. Dove l’accento va sul sostantivo, e non è scontato. Le novità tecnologiche che aprono nuovi spazi e modi all’informazione rischiano di far perdere valore ai contenuti e al metodo della comunicazione: che è notizia di fatti, racconto, incontro di persone che comunicano. Senza dimenticare un fine più nascosto, fondamentale: orientare, ottenere consenso. Oppure, educare. Qui sta la differenza. È questo che da sempre interessa la comunicazione della Chiesa, fin dai tempi di don Bosco e don Alberione, creatori anche di grandi gruppi editoriali. Come i primi giornali diocesani, dalla volontà della Santa Sede di avere un proprio organo di stampa (nel 1861 nasce L’Osservatore Romano), e anche allora l’attacco da parte di un establishment politico e culturale anticristiano era fortissimo. Nel 1931 apre i microfoni sul mondo Radio Vaticana, negli anni laceranti e bui del fascismo, che poco a poco toglieva voce alla Chiesa; nel 1968, anno cruciale di una presunta liberazione che scardinava tradizione e cultura del popolo cattolico, esce il primo numero di Avvenire. Una decina di anni fa, dopo tempi timidi di scelta religiosa, i vescovi italiani osano una voce più chiara, per una presenza dichiarata sui temi forti, sui valori non negoziabili. Il convegno “Parabole mediatiche”, con la firma del cardinale Camillo Ruini, segna la nascita di una televisione e una radio satellitari, che affiancano l’impegno di un Avvenire che s’impone come giornale di opinione, con cui fare i conti. Schierati, senza tentennamenti, sulle questioni della bioetica, o per rilanciare l’antropologia cristiana, cuore di un’Europa immemore.
Oggi il convegno “Testimoni digitali” mette vino vecchio, il più prezioso, in otri nuovi: l’era di vetro, del digitale e del web, di Facebook e Twitter, apparenti luoghi di libertà incondizionata, offre enormi opportunità e sfida la volontà della Chiesa di essere presente. Come sempre, usando tutti gli strumenti e frequentando tutti gli ambienti. Non per inseguire mode tecnofile, ma per interrogarsi sul modo in cui la rete cambia il nostro modo di vivere e pensare. A questo penseranno le relazioni di studiosi della comunicazione, giornalisti (come Mario Calabresi, direttore de La Stampa), sociologi, semiologi, antropologi. Parleranno di linguaggi, di rischi, di possibilità, di una necessaria formazione, di come e meglio comunicare. Ma il problema è cosa comunicare, non rincorrere il nuovo. Nei nuovi spazi internettiani c’è anche tanto folkore ecclesiastico, ricanto di gerghi giovanilisti all’insegna di un dialogo, di una solidarietà che diventano parole vuote, senza il sostegno di un incontro personale, che è il metodo usato dai cristiani fin dai primi apostoli. È dubbio che i giovani vadano a guardarsi il Papa su Youtube, non cercheranno mai lì il loro vescovo. Ma sulla rete studiano, leggono le notizie, si conoscono, incappano in mistificatori e cattivi maestri. C’è un abuso di “amici” e passioni, di tanti che si sentono invece sempre più soli. C’è confusione sulla dottrina della Chiesa, su siti improbabili che fioriscono per contagio, e non di rado sfiorano l’eresia. Si può ingabbiare, censurare la rete? No, ma la Chiesa può educare ad ascoltarla, a leggerla, può indicare strade sicure. Ci sono tanti che stanno facendo e proponendo cose, se è vero, come dimostra una ricerca promossa dalla Congregazione per il clero, illustrata al convegno, che il 92,9% dei sacerdoti in Italia accede tutti i giorni a internet, e il 61% lo ritiene un mezzo, e un luogo, utili per evangelizzare. Basta guardare i siti delle agenzie missionarie, e i tanti non ufficiali blog e pagine di testimoni nei paesi più lontani, che riescono a farci arrivare il dissenso, la voglia di libertà, a farci conoscere i martiri ignorati, a raccontarci esperienze di Chiesa che non smette di proporre il significato della vita in Cristo. Chi, piuttosto che cosa comunicare, attraverso l’incontro di uomini che lo seguono. Sarà il centro del discorso introduttivo di monsignor Mariano Crociata, segretario della Cei, e della chiusura della tre giorni di convegno, con le parole del cardinal Angelo Bagnasco e l’udienza dal Papa per tutti i partecipanti: oltre 1300, più giornalisti e operatori delle diverse realtà che lavorano nei mezzi di comunicazione “cattolici”, di chi sta dietro ai ragazzi, a scuola o nelle parrocchie, nei movimenti. Basta leggere gli studi preparati dall’Università Cattolica o dal Cnr, che troveranno spazio al convegno: non puoi appaltare la rete ai tanti poteri dominanti, o alla noia di troppe ore trascorse a farsi passare il tempo addosso. Non puoi, proprio in un tempo di attacco frontale al Papa, cioè al suo sguardo sull’uomo che non rinuncia a usare la ragione nella sua pienezza. «C’è un compito per tutti, e un impegno per ciascuno». Dire la verità, testimoniarla. «Ci sono mattoni nuovi con cui costruire... ciascuno al suo lavoro».