L’abbraccio che cura le ferite

PRIMO PIANO - INSIEME A PIETRO
Lorenzo Albacete

Nella vicenda degli abusi c’è una sfida che don Julián Carrón ha formulato così: prendere sul serio, fino in fondo, le nostre esigenze. A cominciare dalla giustizia. L’arcivescovo di Boston SEÁN O’MALLEY, a capo di una delle diocesi più segnate dal caso, racconta cosa ha significato questo per lui. E dove ha visto che «solo Cristo ci dona la speranza per ripartire»

Una lunga barba bianca, da cappuccino, e due occhi azzurri che ricordano le sue origini irlandesi. Il cardinale Seán Patrick O’Malley, 62 anni, è l’uomo che dal luglio 2003 guida l’arcidiocesi di Boston, una delle più antiche di America e, al tempo stesso, una delle più colpite dallo scandalo degli abusi sessuali. Dal giorno del suo insediamento, però, il cardinale O’Malley ha subito avuto chiaro che la prima urgenza non fosse “rilanciare” l’immagine dell’arcidiocesi, ma «completare il processo di riconciliazione con le persone che sono state ferite, avviando un dialogo con tutti», come aveva dichiarato ad Avvenire. Per questo ha voluto visitare tutte le parrocchie travolte da questa vicenda, incontrando di persona chi si è dichiarato vittima delle violenze. Mentre continuano gli attacchi alla Chiesa e al Papa, gli abbiamo chiesto un aiuto a giudicare la «dolorosissima vicenda» descritta anche da don Carrón su la Repubblica.

La prima domanda - o almeno il punto che mi ha colpito - riguarda il fatto che don Carrón, nel suo articolo, ha identificato il problema essenzialmente in una questione di giustizia. Non avevo mai riflettuto direttamente sulla mancanza di giustizia, sul desiderio di ognuno di veder soddisfatta la propria sete di giustizia. Pertanto chiedo a lei, che ha maturato grande esperienza in questo ambito: quanto crede sia utile, per comprendere in che modo affrontare questa crisi, considerarla come una dimostrazione di ciò che Carrón definisce l’«incapacità di rispondere all’esigenza di giustizia che veniva fuori dal profondo del cuore»? Ritiene valido questo approccio?
Sì, poiché indubbiamente questi bambini hanno subito una grave ingiustizia: hanno perso la loro innocenza, e un’ulteriore aggravante è data dal fatto che chi li ha violati rappresentava ai loro occhi Dio e la trascendenza, di conseguenza non è stato pregiudicato solo il loro equilibrio psicologico, ma anche la loro vita spirituale. Secondo la mia esperienza, i bambini che hanno subito abusi appartenevano per lo più a due categorie principali: si trattava o di bambini provenienti da famiglie cattoliche estremamente devote, i quali erano molto attivi nella parrocchia e molto vicini al sacerdote, oppure di bambini provenienti da famiglie separate che si trovavano quindi in situazioni assai vulnerabili. In entrambi i casi, l’abuso ha rappresentato un orribile tradimento, si tratta perciò indubbiamente di una questione di giustizia. La questione è ulteriormente aggravata dal fatto che - e penso soprattutto all’epoca in cui il problema era più acuto e la risposta della Chiesa è stata del tutto inadeguata - l’abuso dei bambini, l’ingiustizia perpetrata ai loro danni è stata del tutto trascurata. L’attenzione è stata interamente rivolta al perpetratore, al modo in cui dovesse essere punito o riabilitato. Spesso la pedofilia è stata considerata come l’alcolismo: è sufficiente che chi soffre di tali patologie segua un programma di riabilitazione, ritorni a un comportamento corretto dando prova di maggiore forza di volontà, e tutto è destinato a risolversi per il meglio. Nessuno, tuttavia, ha cercato di prevenire, o quantomeno di capire o di concentrarsi sull’ingiustizia e il danno commessi nei confronti dei bambini e delle loro famiglie. Vi era inoltre questa coltre di vergogna e di segretezza che impediva alle persone di discutere tali questioni, cosicché i bambini sono stati ulteriormente danneggiati poiché non potevano condividere il proprio fardello con nessuno, né, addirittura, potevano rivolgersi ai loro genitori in cerca di consolazione o di consiglio, ma sono stati lasciati nella confusione e nel dolore di aver subito violenza da colui che ai loro occhi era il rappresentante di Dio.

Dunque, le sembra un approccio utile per comprendere quella che don Carrón ha chiamato «l’insofferenza, persino la delusione delle vittime»?
Sì, senza dubbio. Inoltre, credo che non si tratti semplicemente di un antidoto per chi vuole considerare la questione solo come un attacco mediatico nei confronti della Chiesa. Don Carrón parte dalle vittime e dalla loro esperienza, da ciò che è loro accaduto, e da quale deve essere la nostra risposta di fronte all’esperienza delle vittime e del danno che è stato loro arrecato.

Mi ha colpito, inoltre, l’affermazione di Carrón secondo cui, in un certo senso, sia le vittime che i responsabili si trovano a confrontarsi con il fatto che «niente è sufficiente per riparare il male fatto»; se anche gli autori degli abusi dovessero scontare il massimo della pena che un tribunale può comminare, ciò lascerebbe aperta la ferita nelle vittime.
Grazie alla fede, al perdono e alla misericordia di Dio saremo in grado di spingerci al di là di questa soglia. Tuttavia, senza di essa la ferita è destinata a rimanere incurabile.

Secondo don Carrón, il modo in cui il Papa dà la sua personale risposta a questa crisi si basa sulla consapevolezza che l’infinita sete di giustizia del cuore umano può essere soddisfatta solo in Cristo e da Cristo. Concorda con questa visione?
Sì. Ritengo che don Carrón abbia analizzato la questione con estrema precisione e abbia colto il fondo della modalità con cui il Santo Padre ha affrontato la crisi.

Infine, Carrón sottolinea come il Santo Padre abbia individuato nel tentativo «di staccare Cristo dalla Chiesa perché troppo piena di sporcizia per poterlo portare» il più grande pericolo che dobbiamo superare nell’affrontare questa crisi, pericolo che don Carrón definisce come la «tentazione protestante». Come si accorda tutto ciò con la sua esperienza?
Be’, abbiamo appena celebrato la Domenica della Misericordia: Cristo Risorto ritorna per radunare i dispersi, per curare le ferite del peccato, per rassicurarci riguardo alla misericordia di Dio e per donarci quella speranza che può costituire il fondamento su cui cominciare a ricostruire dopo gli eventi catastrofici occorsi nelle nostre vite.

A Boston ha già avuto modo di notare un... - non so come definirlo - una sorta di movimento, per così dire, in questa direzione, come se le persone stiano cominciando a «riscoprire l’infinito amore di Cristo per ciascuno di [loro]», essendo Egli l’unico in grado di sanare le ferite che tutta questa situazione ha causato. Ha percepito questo movimento?
Sì, e ho incontrato centinaia di vittime. Nel corso della Settimana Santa ho persino avuto modo di incontrare alcune vittime che si sono già ampiamente riconciliate con la Chiesa e hanno trovato nel loro dolore la misericordia e la forza di Dio. La cosa triste, tuttavia, è che ogni volta che questo problema riaffiora in superficie, per molti versi ri-vittimizza le persone. È questo l’aspetto più triste. Perciò, ogni volta che l’argomento riemerge dobbiamo intenderla come un’occasione per ribadire il nostro impegno a favore del processo di guarigione e continuare ad assicurare le persone del fatto che la sicurezza dei loro figli è di primaria importanza per noi che facciamo parte della Chiesa cattolica.