Ecco perché l’Europa può avere fede

PRIMO PIANO - PÉTER ERDÖ
Roberto Fontolan

La crisi finanziaria. Le radici del Continente. L’ecumenismo. In vista del suo incontro con il metropolita Filaret, il cardinale Péter Erdö spiega quale ruolo ha oggi il cristianesimo. E che cosa rende «i nostri desideri più attuali che mai»

Fra qualche settimana lo vedremo sul palco insieme a Filaret, il metropolita di Minsk. Il cardinale Péter Erdö, da otto anni alla guida dell’arcidiocesi di Budapest, parteciperà ad uno degli incontri più attesi del Meeting di Rimini. Il primate d’Ungheria e uno degli esponenti più importanti della Chiesa ortodossa si confronteranno sul tema: “Un uomo colto, un europeo dei nostri giorni, può credere, credere proprio, alla divinità del figlio di Dio, Gesù Cristo?”. Classe 1952, Erdö da quattro anni presiede il Consiglio delle conferenze episcopali d’Europa (Ccee). Grande teologo e canonista, è un protagonista assoluto della scena contemporanea e tra le personalità ecclesiastiche più autorevoli. Per la sua originale visione dell’Europa, oltre che per l’impegno nel rinnovare la Chiesa, con una particolare sensibilità per il mondo ortodosso.

Eminenza, che cosa le suggerisce il titolo della XXXI edizione del Meeting di Rimini?

Il cuore era, nel linguaggio biblico, la sede del ragionamento, dell’intelletto, non tanto quella dei sentimenti, come nel pensiero simbolico di oggi. Intelletto e libera volontà, le due grandi capacità umane nelle quali risplende il volto di Dio Creatore. Proprio nella meditazione sulla complessità e sull’immensità del Cosmo, e nella tensione di voler conoscere sempre più la pienezza della realtà, per trarne delle conseguenze anche per la nostra vita individuale e comunitaria, nascono i “grandi desideri”, cioè la voglia di scoprire il senso e il valore dell’universo e della nostra vita. Proprio per questo il nostro cuore, come dice sant’Agostino, è inquieto finché non riposa in Dio. La nostra apertura strutturale e naturale verso Dio oggi è forse più attuale che mai. L’uomo di oggi non deve aver paura di Dio e della sua verità e amore, che si sono rilevati pienamente in Cristo.

Da qualche anno è presidente della Ccee, l’organismo che raccoglie le Conferenze episcopali europee. Possiamo dire che ha davanti a sé l’Europa intera, le sue istituzioni e le sue culture. Di cosa parliamo quando oggi parliamo di Europa? Cosa ha visto e osservato in questi anni?
Con la parola “Europa” s’intendono molte cose. Per alcuni significa tuttora “l’Occidente cristiano”, per altri tutta l’area d’influenza della cultura greco-romana, sia nella sua forma latina che in quella bizantina, e così anche le Americhe, l’Australia o tutta la Russia. Non pochi parlano di Europa nel senso politico, indicando con questa parola l’Unione europea... Per la teologia cattolica tutte le culture umane sono preziose, perché nate dalla volontà creatrice di Dio come la ricchezza della natura, ma rappresentano specialmente anche un aspetto della dignità umana. La buona novella di Cristo negli ultimi mille anni non ha distrutto la diversità e l’identità culturale dei singoli popoli europei, ma ha illuminato la loro eredità ed ha promosso lo specifico sviluppo di ciascuno. A volte guardo con ammirazione la vita delle comunità cattoliche in Asia o in Africa. Sono convinto che dall’incontro tra il Vangelo e queste culture nasceranno nuove meraviglie per il bene della Chiesa e dell’umanità.

Cosa rivela la crisi economico-finanziaria che sembra toccare un Paese europeo dopo l’altro: la Grecia, la sua Ungheria, la Spagna...? Cosa stiamo rischiando e come ci ritroveremo “dopo”?
Sembra che i desideri dell’uomo si siano allontanati, sotto molto aspetti, dalla realtà. Tale fenomeno culturale osservato con genialità carismatica da Giovanni Paolo II, per esempio nell’enciclica Fides et ratio, proviene un po’ dal dubbio circa la forza conoscitiva dell’intelletto umano. Tale estremo relativismo non può non indebolire il nostro rapporto con la totalità della realtà. Abbiamo spesso la tendenza di parlare di dati fiscali astratti, e i politici - persino nelle loro promesse agli elettori - parlano di questi concetti e si dimenticano di promettere che la gente vivrà meglio o potrà essere più felice. Ormai non si parla quasi mai del bene comune. Certo, per poterne parlare ci vuole un minimo di consenso su che cosa sia l’uomo, su che cosa sia il bene per la comunità umana. Cioè, ci vogliono delle basi a livello di visione del mondo, di etica. In base ad un relativismo estremo sembra che non sia possibile neanche proteggere il bene pubblico, l’ordine pubblico, il “benessere” pubblico. Gli unici fattori della società che avrebbero la legittimazione di intervenire - non solo con parole profetiche - nell’interesse del bene pubblico sarebbero gli organi democraticamente eletti o da essi derivati degli Stati “democratici”. Ma, da una parte, anche per loro è necessario un rapporto con la totalità della realtà e non soltanto una maggioranza formale (che può appoggiare, a volte, anche interessi contrari alla giustizia naturale o persino all’umanità, come l’Europa ha visto all’epoca del nazismo e dello stalinismo), dall’altra parte gli Stati cominciano ad essere molto deboli e condizionati dalle pressioni finanziarie internazionali. In questo contesto risulta sempre più difficile resistere alla tentazione della corruzione e della logica della criminalità. Tutto sommato: la crisi finanziaria risulta un aspetto della crisi culturale generale.

Si può ancora parlare di un Est e di un Ovest dell’Europa o siamo una cosa sola?
Si poteva, si può e si potrà parlare di un Est e di un Ovest dell’Europa, eppure siamo una sola cosa. Da una parte, la divisione dell’Impero romano in Orientale ed Occidentale, fatta da Diocleziano - anche se non i singoli dettagli della struttura amministrativa proveniente dalla sua riforma - è rimasta una realtà culturale viva nel Continente. La parte latina e quella culturalmente bizantina dell’Europa mostrano tuttora delle differenze. Comprenderle e apprezzarle è ancora un compito attuale. Qualcuno, durante le ultime guerre dei Balcani, ha chiesto quale sia la posta in gioco di queste lotte così complesse. E un ungherese che conosceva un po’ la storia, ha risposto: «Si tratta, come sempre, della collocazione precisa di una linea definita ancora da Diocleziano». Naturalmente nella seconda metà del XX secolo, Est e Ovest avevano un altro significato in Europa: quello politico, che indicava le due aree di influsso (sovietica e occidentale o statunitense). Questa linea di demarcazione, ossia la cortina di ferro, grazie a Dio non esiste più. Ma ci sono altre zone culturali ed economiche che dimostrano differenze tipiche: ci sono i Paesi fondatori dell’Unione europea, che avevano parte - anche se non tutti ugualmente - nello stabilire le regole del gioco e le caratteristiche dell’Unione, nel determinare la sua fisionomia. Ci sono poi i cosiddetti nuovi membri, soprattutto Paesi ex-comunisti, che dovevano “appartenere a qualche cosa” per necessità storica, economica o geopolitica, dopo il ritiro delle truppe sovietiche. In questi Paesi, sia per opinione pubblica che per ordine cronologico, aveva più importanza l’appartenenza alla Nato, simbolo dell’occidentalità o della stabilità dell’appartenenza della regione a quella parte del Continente che alla gente di questi Paesi sembrava più felice. A parte il passato sovietico, però, in questi Paesi esistono nuovi tipi di rapporti con la Russia ormai non sovietica. Rapporti economici, di comprensione, di elementi comuni del modo di vivere, certe somiglianze nei problemi della società come il vuoto ideologico e morale sorto dopo l’abbandono dell’ideologia marxista ufficiale, la necessità elementare di un risveglio culturale che può consistere nell’apprezzamento delle lingue nazionali, delle tradizioni letterarie, culinarie, artistiche, nel risveglio di una consapevolezza della propria storia, nel bisogno di comprendere ed elaborare in modo costruttivo il proprio passato prossimo e remoto, il pericolo di una destabilizzazione della vita sociale ed economica in seguito alla corruzione e all’anarchia, che si verificano se lo Stato osserva in modo dogmatico i principi di un liberalismo estremo, lontano dalla realtà concreta di queste società.

Sul piano dei rapporti tra Chiesa Cattolica e Chiesa Ortodossa a che punto è il cammino? In che senso e in quali ambiti il rapporto con la Chiesa ortodossa è divenuto o può divenire una comune testimonianza in grado di incidere sull’Europa?
Dopo quello che abbiamo detto, sembra logico che sentiamo un’attrazione speciale nel dialogo con l’ortodossia. Anche quest’impegno, però, non deve scaturire da una visione romantica. In realtà, dobbiamo accompagnare con gioia il fatto che diverse Chiese ortodosse dell’Est europeo, distrutte in modo violento e perseguitate per decenni, stanno ritrovando sia un’alta qualità di cultura artistica e teologica cristiana, che un rapporto organico con la vita del proprio popolo. Bisogna apprezzare o immaginare come sia importante, per diversi sacerdoti o Vescovi ortodossi, ma anche per alcuni laici e religiosi, l’ortodossia della fede, spesso l’unico valore che potevano conservare tra circostanze a volte proprio umilianti. E questo non si riferisce solo ai martiri e agli incarcerati, ma proprio anche a chi poteva svolgere ufficialmente la sua funzione. Il valore che poteva giustificare molte cose era, nella percezione di non pochi, proprio quello di salvare la fede. Non si trattava spesso della cosiddetta efficienza pastorale, a lungo praticamente impossibile, ma del contenuto oggettivo della fede. Ecco perché è esplosa una vera gioia nel mondo ortodosso per l’elezione di Benedetto XVI come successore di san Pietro. Un alto livello del dialogo con l’ortodossia, quindi, è quello della fede stessa. E in questo campo la somiglianza è così grande che proviamo quasi un dolore fisico per la mancanza della piena comunione. Questo è particolarmente evidente dove i cristiani condividono la stessa sorte nel contesto di culture non cristiane. Esiste, però, anche un livello più modesto del dialogo, quello che si riferisce alla promozione dei valori della morale cristiana e della dottrina sociale. Evidentemente le Conferenze episcopali d’Europa sono competenti, e sono chiamate ad impegnarsi nel dialogo e nella collaborazione soprattutto in questo secondo campo. Le conseguenze pratiche della nostra fede sono, infatti, molto simili e conducono spesso alla stessa posizione nelle questioni odierne della vita sociale. Per questo è nato il Forum cattolico-ortodosso europeo, che comincia a dare i primi frutti, per esempio nella chiara posizione comune circa la famiglia.

Infine, un commento al titolo dell’attesissimo incontro al Meeting, in cui lei prenderà parte insieme a Filaret, il metropolita di Minsk: un europeo dei nostri giorni può credere in Gesù?
Mi sento onorato di poter parlare insieme al metropolita Filaret di Minsk, che stimo molto. Il titolo del dialogo mi ricorda i tempi della mia gioventù. Allora s’insegnava che la religione è una cosa arretrata, che instupidisce la gente. Analogamente, si potrebbe credere che un uomo europeo moderno e colto non possa essere cristiano. Io sono convinto del contrario. Proprio la complessità delle problematiche della nostra epoca, il cattivo funzionamento di meccanismi sociali che richiedono almeno un minimo di denominatore comune circa la collocazione dell’umanità nel cosmo, circa il senso e il valore di tutta la storia umana e delle società, rende necessaria una riflessione su questioni fondamentali della visione del mondo. Quindi, secondo me, un europeo moderno non può far a meno di affrontare almeno la questione, il problema di Dio, di Gesù Cristo, e della sua Buona Novella.