La mostra allestita al Meeting 2010.

MILANO Una casa per il prete degli alpini

Domenica 24 ottobre, viene dedicata a don Carlo Gnocchi una nuova chiesa. E, per festeggiare l'anniversario della beatificazione, arriva una mostra che ha generato «un’unità impensabile»
Maria Acqua Simi

Commozione. È la parola chiave di chiunque si imbatta nella figura di don Carlo Gnocchi. Una commozione sincera, che nasce dall’incontro con un sacerdote - scomparso nel 1956 e proclamato beato il 25 ottobre 2009 - che tanto fece per gli alpini e per i suoi “mutilatini”. A un anno di distanza, domenica 24 ottobre, si terrà la consacrazione e dedicazione al Beato della nuova chiesa del Centro Irccs «S. Maria Nascente» della Fondazione Don Gnocchi, a Milano.
In questo primo anniversario, verrà presentata una mostra itinerante e multimediale dal titolo Con avida, insistente speranza, inaugurata al Meeting di Rimini 2010.
Una mostra che ha una storia tutta sua. Non è l’unica ideata in questi anni. Eppure, è stata scelta per raccontare la vita di don Gnocchi a tutti gli amici, fedeli e operatori della Fondazione a lui dedicata che si riuniranno per ricordarlo.
«Bisogna lasciarsi innamorare del don Carlo per conoscerlo e raccontarlo», spiega con voce sicura Emanuele Brambilla, responsabile del Servizio comunicazione e relazioni esterne della Fondazione. «Ecco perché abbiamo accettato con entusiasmo di promuovere questa mostra, e di riproporla oggi». Racconta di questo sacerdote energico, profondamente legato al suo tempo, che invitava ad amare il presente, munito di una fede salda e di una grande concretezza.
«Don Carlo era un prete da oratorio, un cappellano militare. Come tanti altri. Allora perché Beato? Perché non ha fatto altro che cercare Cristo sulla terra: nei vecchi, nei morenti sul fronte, nei suoi bambini malati. Sta qui la ragione della sua santità, che mi affascina: è una santità alla portata di tutti. E questo nella mostra emerge».
Prosegue: «Siamo rimasti stupiti quando ci sono venuti a proporre questo lavoro, ma la passione che hanno messo negli scorsi mesi per prepararlo è la dimostrazione del fascino attuale di don Carlo. Una mostra in linea con il lavoro culturale della nostra Fondazione, che in questi anni ha visto sempre più persone avvicinarsi alla sua figura».
Come è nata l’idea di portare a Rimini la vita del Beato, lo spiegano bene Paola Brizzi e Silvia Giampaolo, due delle curatrici della mostra. «Da subito, ci siamo rese conto che a don Carlo potevamo chiedere qualunque cosa. Io sono di una fede popolare, legata alle figure dei santi. Silvia meno: poche storie e rapporto diretto col buon Gesù. Siamo diversissime tra noi, colleghe di lavoro e certe volte ci scorniamo. Di fronte a lui, però, ci siamo trovate commosse per la semplicità e radicalità con cui viveva. Tanto da metterci a lavorare insieme per fare una mostra. Immediatamente c’è stata una disponibilità della Fondazione ad accogliere il progetto, nonostante non venisse da loro. Ne è nata un’unità impensabile».
La mostra prende il via, sembra che ci siano degli impedimenti e allora ecco che i curatori si “inventano” una novena tutta speciale a don Carlo. E quei pannelli, frutto di un anno di lavoro insieme al docente e biografo ufficiale del Beato, Edoardo Bressan, e al cronista del Giornale Stefano Zurlo (autore de L’ardimento, volume sulla vita del santo), arrivano a Rimini.
E non si fermano lì. Racconta Barbara: «Ho visitato la mostra al Meeting. Mi aveva incuriosito, perché ho un bimbo di cinque anni gravemente disabile, seguito dalla Fondazione Don Gnocchi. Finito il giro, avevo le lacrime agli occhi. Lì si toccava il tema del dolore innocente che don Gnocchi aveva sotto gli occhi tutti i giorni, così come io ho sotto gli occhi la sofferenza di Benedetto. Don Carlo dice che tutto ha senso se guardiamo al Cristo crocifisso. Quando sono tornata a casa, ho cominciato a guardare mio figlio così: non come un insieme di diagnosi mediche, ma come un mistero infinito. È cambiato perfino il modo di tenerlo in braccio. Per gratitudine, ho deciso di portare la mostra anche nel mio paese».
Anche Rita, medico, non è da meno. Quando le chiediamo cosa abbia significato per lei presentare la mostra, risponde schietta: «Sono amica di una delle curatrici. Ha insistito così tanto che alla fine ho accettato di fare da guida. Mi sono resa conto che per la prima volta non mi davo da fare per un guadagno immediato, come può essere nel lavoro. Pian piano lo sguardo di don Carlo diventava anche il mio. Tornata a casa, non potevo trattare i miei pazienti come prima: spesso le code in ambulatorio ti abituano a vedere solo l’iter diagnostico di un paziente e a scocciarti quando questo comincia a parlare di sé. Invece l’aver visto un modo così umano e cristiano di trattare i malati mi ha fatto ritrovare il gusto del lavoro. Mi fermo coi pazienti magari mezz’ora in più, ma è tutto un guadagno. Anche nel fare la mamma e la moglie». Ed è come se per le vie misteriose che il buon Dio assegna a ciascuno, don Carlo avesse preso per mano anche adesso tutti coloro che a lui si affidano. «Anch’io ho sempre cercato le vestigia di Cristo sulla terra, con avida, insistente speranza», scriveva don Gnocchi dal fronte russo dove accompagnava gli alpini. Ed è forse questa la cifra di tutta la sua opera, il suo radicato amore per Cristo. «Se considero le ragioni della fede mi devo subito rinfrancare. Le opere di carità sono del Signore e a mandarle avanti ci pensa Lui». Fino al Meeting di Rimini, oltre il Meeting.