Chiamato a vivere di Lui

CHIESA - L'INTERVISTA
Davide Perillo

Faccia a faccia con padre MAURO GIUSEPPE LEPORI, scelto a guidare i 1.800 cistercensi sparsi per il mondo. Dopo 26 anni in monastero, una vocazione nella vocazione. Che oggi lo porta a «scoprire un gusto in tutto». Perfino in ciò che uno non immaginerebbe...

«Una seconda chiamata». Con tutto lo spessore che ha quella parola per uno che ha consegnato la vita a Cristo entrando in monastero più di un quarto di secolo fa. Ticinese di Lugano, monaco dal 1984, responsabile dell’abbazia svizzera di Hauterive dal 1994, teologo, filosofo, autore di testi tradotti in mezzo mondo, padre Mauro Giuseppe Lepori da cinque mesi è abate generale dell’Ordine Cistercense. A 51 anni. Età insolita, per una responsabilità del genere. Ma soprattutto una rivoluzione per lui, che si è ritrovato di colpo catapultato dal Canton Friburgo al centro di Roma, nella casa generalizia da dove guida una realtà diffusa in quattro continenti (manca solo l’Australia) da esplorare e conoscere e popolata di 1.800 monaci e monache. Eppure lui la chiama così, chiara e semplice, come tutte le parole che usa senza sprechi, pensando a lungo prima di rispondere: «Una chiamata». Una vocazione nella vocazione. In cui è bello scavare un po’, per capire cosa significhi vivere di Lui, e basta. L’essenziale. «È stato chiarissimo quando ripetevano il mio nome durante lo spoglio», spiega Lepori: «Il problema non era di essere eletto, ma che Cristo mi chiamava. Lo sentivo forte. Con commozione e gratitudine».

Che cosa ha voluto dire fare i conti con questa «seconda vocazione»?
Ho pensato: «Ecco, il Signore mi richiama con un’intensità che pensavo impossibile». E l’ho sentita come una pienezza, un’offerta di vita più grande. Solo tenendo viva questa consapevolezza è possibile andare avanti senza diventare un funzionario. Se no, il rischio è lasciarmi determinare dalle richieste degli altri e dalle cose da fare, più che dalla Sua chiamata. Mentre di fronte a Lui posso scoprire la libertà anche di dire «no». Come quella di accorgermi che pure certe cose aride, alcuni aspetti del lavoro di cui istintivamente non vorresti occuparti - alcune questioni gestionali, l’organizzazione - hanno dentro una vita.

Le manca qualcosa di Hauterive? Non so: il ritmo di vita, certi rapporti. Dopo 26 anni e 16 da abate...
No. Anzi, sono sorpreso di non vivere quel “lutto” che immaginavo. Rimango molto legato a quella comunità, a cui continuo ad appartenere. Ma capisco che devo trovare la comunità qui. Con tutto l’Ordine, ma soprattutto qui, nella casa. Ci starò poco, perché mi tocca viaggiare molto. Ma appena arrivato a Roma ho fatto una riunione con i monaci della casa, che sono soprattutto studenti, e ho detto loro: guardate, io non voglio vivere in un collegio, ma in una comunità. E in una comunità ci sono tre dimensioni da curare in particolare. La fraternità, ovvero una comunione che passa attraverso tutto: la ricreazione, i servizi, l’attenzione reciproca… Poi la liturgia, essere uniti nel riconoscere il mistero di Cristo e celebrarlo, un’attenzione nell’averlo a cuore. Infine, un aiutarsi ad approfondire la Parola: che ci sia un insegnamento comune, un comunicarci quello che ascoltiamo e che ognuno di noi vive, come esperienza e come studi. Con tutte le sfide del caso, eh? Perché un vietnamita e un americano, per dire, sono molto diversi. Ma è una comunità, a tutti gli effetti. Certo, c’è meno silenzio che a Hauterive.

Ma che cosa rende tale una comunità? Quali sono i fattori essenziali, oltre a quei tre punti?
Al Capitolo ho insistito molto su questo: dobbiamo tornare a una vera comunione di vita, non a un semplice “stare insieme”. C’è molto individualismo, oggi, in giro. Una crisi del rapporto tra la persona e la comunità. Molti religiosi sono preoccupati da altro: la scarsità di vocazioni, se devono avere una scuola o no, se gestire la parrocchia o no. Tutto ciò dipende dalle circostanze. Ma la condizione sine qua non per cui può vivere un carisma come il nostro è che ci sia una comunità. A meno che uno non sia così maturo come esperienza da essere in grado di vivere la comunione anche da solo.

Da dove nasce questo individualismo?
Da tanti aspetti. Oggi persino lo Stato ha sempre più la tendenza a rivolgersi all’individuo. E anche la comunicazione sembra fatta apposta: telefonini, internet… Finiscono per incentivare molto l’individualismo. Ma non è il cuore della questione. La verità è che ogni secolo ha posto questo problema a modo suo. Benedetto ne parla in tutta la regola. E se torni indietro arrivi fino ad Anania e Saffira, che frodano gli apostoli simulando di appartenere alla comunità, ma tengono da parte il gruzzolo. È individualismo anche quello. Insomma, il problema c’è stato dagli inizi della Chiesa. Lì Pietro rimprovera i due e dice: avete ingannato lo Spirito Santo. È un invito a portare il problema fino al Mistero racchiuso nel mistero della comunità cristiana, che è un partecipare alla Comunione trinitaria. Lo scopo non è la comunità in sé: è la comunità in quanto Cristo, grazie allo Spirito, ci dà di partecipare all’origine e al fine di tutto l’essere. Non è un volontarismo, un “bisogna essere comunitari”. Alla domanda: «Perché devo sacrificarmi per la comunità?», non posso rispondere: «Perché è così che si ama, che non si è egoisti…». Sono risposte moralistiche, non bastano. Ci vuole una dimensione contemplativa per vivere questa sfida. La consapevolezza del Mistero. Io sacrifico il mio individualismo e ci tengo a vivere in comunità perché voglio vivere la comunione tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. «Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi». Cristo ci offre quell’amore lì, quella comunione. «Rimanete nel mio amore». È importante richiamarlo. Soprattutto nelle comunità monastiche chiamate a una vita di memoria.

La comunità senza memoria è impossibile…
Sì. Molte derive dopo il Concilio, ma anche prima, dipendono proprio da questa idea di comunità che in fondo non è cristiana. O addirittura da certi abusi della libertà; per cui io pretendo che tu rinunci a tutto - o alla tua libertà - per la comunità, ma non ti offro questa dimensione, questa possibilità di vivere tutto ciò per Cristo, per partecipare a ciò che Cristo dona. Così finisce che la comunità è un abuso. Soprattutto laddove ti chiede tutto, come in una realtà monastica. Mentre la fatica la superi solo riproponendo il fascino del Mistero di Cristo. Quello, quando è visibile come esperienza, attira tutti. Di tutte le culture o tutte le epoche. Io qui sono molto sfidato, per esempio. C’è gente di quattro continenti, tutti molto diversi tra loro.

Ha usato l’aggettivo “arido” per alcune delle cose che le tocca seguire nella nuova funzione. Mi ha fatto venire in mente una frase di don Giussani sul lavoro come «l’aspetto più arido e faticoso del rapporto con Cristo». Che cosa sta scoprendo di sé nel rapporto con questa aridità? E che cosa vuol dire? Solo chinarsi su cose che di suo non farebbe?
Scopro che c’è un gusto in tutto, questo è vero. Ma solo se faccio memoria della vocazione, di Cristo che mi chiama attraverso quello. Allora capisco che la ragione è bella. È sempre positiva. Ma “arido” può essere anche soltanto essere in aeroporto ad aspettare un volo, quando sei stanco e non hai voglia di leggere... Devi recuperare sempre la ragione: «Io sto seguendo Cristo. Sto così perché mi chiama Lui. Passo attraverso questo, ma questo trasforma tutto». C’è una sorta di miracolo che avviene. A un tratto, capisci la bellezza.

Cosa vuol dire «fare memoria della vocazione»? E come si accorge che sta avvenendo?
Vuol dire fare memoria di Cristo presente. Ed è vero che le cose aride sono un grande aiuto, perché sfidano. Obbligano di più. Nelle cose che ci piacciono è più facile perdere questo senso. Puoi pensare che le cose ti bastino. Di non aver bisogno di questa Presenza misteriosa. Ma è sempre positivo passare attraverso i deserti. E poi le cose aride sono quelle in cui non vedo esito: che mi domandano quello che non vorrei fare, non vorrei decidere. Quelle sono le cose che portano di più alla domanda. All’affidare tutto a Lui, perché poi ti renda Lui strumento di ciò che vuole fare.

E questa provocazione in che cosa è diversa, o più profonda, rispetto alla “prima vocazione”, a quando è entrato in monastero?
Ho avuto diversi tipi di chiamate. Ma se vogliamo semplificare, la parola che descrive meglio la vocazione monastica è in Giovanni 15,5: «Chi rimane in me ed io in lui, porta molto frutto». Uno si chiede se una forma di vocazione darà veramente frutto alla sua vita. È tentato di mettere in questione una forma che incontra proprio su questo aspetto: darà veramente compimento alla vita? Mentre ero lì per fare il primo mese di prova, non ho meditato altro che la prima metà del 15mo capitolo di Giovanni, fino al versetto 17. Con la coscienza che quello, per me, era il luogo in cui aderivo a Cristo: la fecondità era assicurata da quello. Non era più un ragionamento mio. Uno può essere monaco, abate o vescovo, ma se non è unito a Cristo non è fecondo. Mentre se segui la strada su cui Cristo ti vuole con sé, la fecondità è assicurata. E ci si rinnova ogni volta. La vocazione è Cristo, non è una cosa. È un rapporto. E la vocazione particolare di ognuno è che Cristo per ognuno ha un luogo, una forma in cui gli fa capire: è qui che sei unito a Me. È come un diapason in cui, con l’aiuto della comunità cristiana, ti puoi sintonizzare. Per restare legato all’origine. Perché il problema rimane quello: da dove trovi linfa per la tua vita?

Qual è il compito dei benedettini oggi?
Mostrare che la vita cristiana è una vita umana. E quindi che prende tutto. Non è una vocazione fissata su un compito specifico, funzionale a qualcosa: è una totalità. La Regola di Benedetto tocca tutta la vita. Dagli aspetti spirituali e sublimi a quelli più fisici, materiali. Ed è questo il compito più importante: dimostrare con l’esperienza di vita che il cristianesimo prende tutto l’umano. E lo fa nella misura in cui uno sta a certe dimensioni: la comunità, la preghiera, il lavoro. La stabilità, cioè il legarsi a un luogo incarnato in cui devi cambiare tu, e non l’ambito o le persone. Un’umanità vera devi sempre educarla. È importante che i monasteri che vivono la Regola offrano questo. Luoghi incarnati.

Quali sono i problemi più urgenti a cui sta già mettendo mano?
Posto che il punto fondamentale è la comunione, c’è da fare un lavoro di recupero della libertà. Bisogna educarla e accompagnarla, pazientemente. Tanti problemi, nella Chiesa, vengono da questo: dalla libertà nell’appartenere. Nello stare assieme c’è sempre un legame, una dipendenza. Ma nella libertà.

E come si educa la libertà?
San Benedetto dice che l’abate deve dare ai monaci una parola che sia «fermento di giustizia divina». Un lievito. Occorre un insegnamento, un indicare la strada, che sia come lievito per la persona. Ma poi la persona deve camminare lei, liberamente. Bene: quando si annuncia la verità come presente, affascinante per te ora, allora la libertà è fermentata. Riceve lievito. Così con la libertà - e con il tempo - la persona può crescere. Comunque, la libertà è affermata ed educata anzitutto riconoscendola, aiutando le persone a vedere che ce l’hanno.

Che cosa significa?
A volte non sappiamo neanche che cosa voglia dire, la libertà. Ne abbiamo una concezione totalmente squilibrata. Per mettere in evidenza cos’è la vera libertà è anzitutto importante vivere con l’altro. Metterti in rapporto con lui. Io devo vivere nelle comunità così, cercando di instaurare un rapporto con loro. La relazione manifesta il fascino della libertà. Oggi nella Chiesa si parla molto, ma tante volte si usano parole troppo moralistiche per essere affascinanti: troppi «si deve». Invece è una bellezza che attira.

Come ricorda di continuo Benedetto XVI…
Appunto. Magari alla lunga sembra che non succeda niente. Ma è un lievito. Sembra che non cambi, ma lo fa.

Che consonanza c’è tra il carisma benedettino e quello di Cl? E come l’ha scoperta nel tempo?
La consonanza me l’ha fatta scoprire il Signore con gli incontri. Mi ha sempre dato una chiamata e un luogo per viverla. La chiamata, la vocazione, ti infiamma: ma se non appartieni a un luogo che ti aiuta a portarla e viverla, tutto questo diventa un ricordo. Invece ogni volta che mi sono accorto che c’era una chiamata del Signore, allo stesso tempo c’era un luogo che mi permetteva di camminare. Questo fin dall’inizio. Di fatto l’unità tra l’esperienza del movimento e quella cistercense l’ho scoperta nella mia vita: ho seguito una strada sola. Scoprendo che Benedetto è molto presente in don Giussani: Cl, in qualche modo, ripropone il carisma benedettino.

In che senso?
Come esperienza di umanità e come metodo, ovvero come luoghi in cui questa esperienza di umanità diventa possibile. È tutto incentrato su Cristo presente. Nella mia vita la parabola è stata questa.

E don Giussani? Chi è, per lei?
Un incontro. Raro, in tutti i sensi. L’ho visto poche volte, a differenza di altre persone che pure mi hanno segnato come monsignor Eugenio Corecco, che era vescovo a Lugano. Ma ogni volta è stata piena. Mi ha molto marcato come umanità, come sguardo. E le parole vere che mi ha donato. È rimasto impresso nella mia povera persona. Perché è stato, e rimane, un incontro all’interno del Grande Incontro.