Il fiume Mekong visto da Neak Luang.

CAMBOGIA La mia vita, aperta a tutte le «frecce» di Dio

Mentre padre Alberto sta pregando, una vecchietta vietnamita lo avvicina. Ha in mano un foglio con una lista di peccati, vuole confessarsi. È un lampo che rimette in circolo la fede: «Quello che accade va dato a Lui, tutto»
Alberto Caccaro

“Più lontano mi sei, più Ti risento
farmiti dentro il cuore
sangue, grido, tumore,
e crescermi sul petto.(...)
Più sei lontano e più Ti porto addosso,
fra l’abito e la carne, (...)”
(Gesualdo Bufalino)

Domenica scorsa ho celebrato a Neak Luang, una delle più grandi parrocchie del Paese. Appena dopo Messa, stavo pregando, quando da dietro si è avvicinata una vecchietta. Voleva confessarsi. Con la mano sinistra reggeva un pezzetto di carta con alcune parole scritte in vietnamita, lingua che non parlo, non leggo e nemmeno intendo. Accanto ad ogni parola, un numero. Ho subito capito che si trattava della lista dei suoi peccati con il numero delle volte che li aveva commessi. Parlava in vietnamita... Capiva che io non capivo, ma mi chiedeva semplicemente di ascoltare e di essere prete. Mentre mi parlava, per essere sicura di spiegarsi bene, con le dita della mano destra faceva il segno del numero corrispondente alle volte che aveva commesso l’uno o l’altro dei peccati... Non capivo niente o, forse, capivo tutto.
Questa vecchietta, nella sua scrupolosa attenzione ai numeri, mi indicava, senza alcuna pretesa, la serietà della fede, la povertà di spirito, la purezza del cuore. E i passi da compiere. Non il numero, ma l’attenzione a dire la verità, a mettersi per intero di fronte al Signore. Le parole di Gesù nel Vangelo del giorno preannunciavano questa confessione: «Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità» (Gv 4,23). La vecchietta offriva al Signore la verità di sé, senza maschere. Quello che è accaduto va dato a Lui, tutto. Quante volte hai dimenticato di pregare, Alberto? Quante volte hai dimenticato di dire grazie? Che cosa cerchi? Quante sono le persone a cui non hai ancora offerto il perdono? E quante a cui chiedere perdono... Tante, Signore! I numeri non tolgono o aggiungono niente, ma precisano i contorni del nostro peccato... So solo che, dopo aver assolto quella vecchietta, ho chiesto al Signore la grazia di una confessione così, prima di Pasqua, con la stessa purezza, sapendo che, se per lei bastavano le dita di una mano, per me, invece, ci vorranno le dita di entrambe le mani e quelle del confessore, insieme...
Quello che accade, che osservo, che ascolto, mi percuote, mi ferisce e, a volte, mi risana. Ma non ho alcuna fretta. Occorre patire la realtà, perchè si riveli il vero volto delle cose. Specie quando sentiamo che la realtà ci percuote, dobbiamo stare, rimanere. Qui rileggo l’istanza monastica della stabilitas loci. Più volte, a Prey Veng, ho sentito importante e motivante questa ingiunzione. Rimanere, desti e fedeli alla terra. «È una malattia avere una coscienza troppo acuta dei propri pensieri e delle proprie azioni, una vera malattia...», diceva Dostoevskij. Ed è vero. Più facile è l’indifferenza, il qualunquismo, le scorciatoie, le distrazioni, le opinioni da salotto, non appena l’omologazione dei pensieri, ma la loro premeditata approssimazione e deliberata confusione, come nel ventre di Parigi descritto da Émile Zola: «Quello era il ventre bottegaio, il ventre dell’onestà ruffiana, che si abbuffava beato, e luccicava al sole, trovando che ogni cosa andava per il suo verso migliore».
Mi pare invece più affascinante quello che Cristina Campo scriveva sull’attenzione alle cose, intesa come un’apertura al reale, una sorta di ferita, di eterna passione: «...un’attenzione esercitata è come una feritoia aperta a tutte le frecce, una sorta di continua passione». Anche e sopratutto una passione d’amore. Nel canto XXXIII del Purgatorio, versi dal 16 al 21, Dante si sente raggiunto dallo sguardo di Beatrice, anzi è come percosso negli occhi dagli occhi di lei e scrive: «Quando con li occhi li occhi mi percosse». Il verbo che qui Dante usa è incandescente, denso di significato: Dante è come percosso, ferito, messo a nudo dallo sguardo di Beatrice. Prendo in prestito questa folgorante espressione dantesca per dire della fede. Sento che tutto ciò che mi circonda mi percuote, mi provoca, mi ferisce e, a volte, mi risana. Come lo sguardo di Beatrice: ha senza dubbio risanato Dante, non prima di averlo percosso.
Penso all’apostolo Pietro nel Vangelo di Luca, percosso dallo sguardo di Gesù, ormai condannato: «Allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro, e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto...» (Lc 23,61). Per me, Beatrice non è solo una donna, ma è la realtà tutta, le mie comunità, la scuola superiore, l’asilo, l’ostello. La mia vita “aperta a tutte le frecce”, e Dio dentro di essa. È intrigante quello che Dostoevskij fa dire all’ateo Kirillov ne I demoni: «Dio mi ha tormentato tutta la vita». Ora, lo ripeto a me stesso, che ateo non sono. «Più sei lontano e più Ti porto addosso, fra l’abito e la carne, (...)». Perché sovente la fede è fuoco, passione, tormento, continua ricerca e lotta contro gli idoli e i gadget del mercato, «totalitarismo postmoderno», che ci piega «alle sole funzioni animali del corpo»: «Una vogliuzza per il giorno, una vogliuzza per la notte, fermo restando la salute», dice Nietzsche in Così parlò Zarathustra.
Mentre in moto tornavo a casa, giubilavo. La domenica, torno sempre carico, della stima, dell’affetto, della fede, della vita povera di questa gente, anche se, come domenica scorsa, non so quali peccati ho perdonato. Ma non importa, ho perdonato. E se lo scambio tra di noi, o per la lingua, perché io parlo lo Khmer mentre loro sono vietnamiti, o perché proveniamo da pianeti diversi, non è mai intenso come vorrei, pazienza! Questo però mi ha insegnato a non possedere, catturare la realtà, ma ad obbedire alle circostanze. Osservare, imparare, aspettare, sempre benedire. Quello che accade, tutto, va dato a Dio. Il sacramento della confessione mi sembra un esercizio spirituale necessario per una progressiva, vera, consegna di sé al Mistero di Dio. Come quella nonnina. Per questo è importante ripeterlo, senza tabelle o numeri, ma con la coscienza che solo l’intelligenza che deriva dalla fede può condurci all’intelligenza della realtà. Confessione dopo confessione. Per vincere gli idoli, quelli che Francesco Bacone (1561–1626) chiamava Idola tribus, Idola specus, Idola fori, Idola Theatri. Ma qui interessano particolarmente gli ultimi due, gli Idola fori, derivanti dalla piazza, da quello che pensano tutti, dagli infiniti luoghi comuni tesi a conservare e difendere ancestrali pigrizie e privilegi, e gli Idola Theatri, ovvero dottrine errate che, con il consenso della maggioranza, fanno della nostra vita una storia da teatro... Sperando solo che, alla fine, non mettano a morte il protagonista...
Non pensavo che quella vecchietta suscitasse in me queste riflessioni. Quell’istante, quell’incontro mi ha “percosso”. Ha potentemente rimesso in circolo la fede, la Presenza di Dio, il fascino della verità, della semplicità, della purezza, di una vita povera. Del Sacramento. Ho sempre paura che Dio diventi «una riserva di metafore che gli uomini impiegano per dire di sé, per rappresentare e raccontare di volta in volta il senso e il non senso del loro stare al mondo», ma non più il Dio vivente. Per questo valgono le parole di Alda Merini:

“È inutile presentarsi a Dio
con il viso coperto:
Egli toglierà tutte le bende
della nostra finzione. (...)
Questa è la tristezza della mia mummia:
non hanno pensato che io volevo
la carezza divina.
Ma ecco che viene Gesù, (...)
toglie la mia pietra tombale.
Ecco la resurrezione di Lazzaro. (...)
Io sarò nudo davanti a Gesù,
come comparirò nudo davanti a Dio”.