Il patriarca copto di Alessandria Antonios Naguib.

La paziente "rivoluzione" del cuore

Il patriarca di Alessandria dei copti, Antonios Naguib, ci racconta il "nuovo" Egitto. Tra episodi di violenza ed «eventi profetici», sale la preoccupazione per il ritorno delle tensioni religiose. Ma con un unico impegno: «Cambiare noi stessi»
Luca Pezzi

«Guardavamo all’avvenire con entusiasmo e ottimismo. Era l’inizio di una nuova fase, segnata dalla fratellanza, dalla coesione sociale, dalla scomparsa delle barriere e delle discriminazioni religiose». Parla dell’Egitto di piazza Tahrir il cardinale Antonios Naguib, patriarca cattolico di Alessandria dei Copti. Racconta che cosa ha rappresentato per il suo Paese la testimonianza esplosa in quel «centro e focolare dei giovani», che ha fatto cadere il regime di Hosni Mubarak in soli diciotto giorni. Ma parla al passato. Ora che piazza Tahrir è stata ripulita e nuove elezioni sono attese per settembre, rischia di prendere la scena un clima diverso. Che lo preoccupa.

Che cosa è cambiato da gennaio a oggi?
Dopo due o tre settimane dalle rivolte, sono accaduti dei fatti violenti contro i cristiani. A Qena, vicino a Luxor, un uomo è stato aggredito e accusato falsamente da alcuni salafiti che gli hanno tagliato un orecchio. Qualche giorno prima, nella stessa città, due cristiani sono stati processati secondo la sharia: uno è stato ucciso e l’altro è morto dopo essere stato gettato dal quarto piano. Lo abbiamo saputo dal vescovo ortodosso. E poi alcune personalità, assenti all’inizio delle proteste, ora si sono imposte come protagoniste e leaders del movimento per il cambiamento. La voce dei capi e dei rappresentanti dei Fratelli Musulmani si è fatta sentire sempre di più e adesso occupa l’avanguardia della scena. I Fratelli Musulmani hanno condizionato la speranza di un’uguaglianza sulla base della cittadinanza: l’elemento religioso è tornato a creare distanza, se non discriminazione, tra musulmani e non musulmani.

I giornali hanno parlato anche di una chiesa bruciata…
Di fronte agli incidenti a sud del Cairo, come la chiesa bruciata e demolita, dobbiamo guardare all’atteggiamento positivo dimostrato dal Consiglio supremo delle forze armate, che ha subito deciso per la ricostruzione dell’edificio. Ma, allo stesso tempo, non possiamo non considerare che per convincere i musulmani a riparare il danno e ad accettare i cristiani è stato inviato uno dei capi dei Fratelli Musulmani. La strada scelta non è stata la legge, il rispetto della giustizia, ma la voce di un capo religioso che dà direttive e impone soluzioni.

Qual è dunque la vostra preoccupazione?
Ci chiediamo chi avrà l’ultima parola: la voce fondamentalista e l’imposizione di una società religiosa o - come tutti gridavamo e speravamo - quella di un Paese democratico e di una società con diritti e doveri uguali per tutti. È il timore dei cristiani, ma anche di tanti intellettuali e moderati musulmani.

Questo è proprio il problema più serio: il frutto politico, sociale e culturale di questa transizione. Qual è il compito dei cristiani, ortodossi e cattolici in questo passaggio estremamente delicato?
Abbiamo il dovere di lavorare insieme per un coordinamento dei nostri atteggiamenti e per aiutare la nostra gente ad orientarsi e a non perdersi attirata da false propagande. Cercheremo di incontrarci di nuovo con i capi delle Chiese: non per creare un blocco o un partito, ma per individuare quale direzione prendere. È quello che abbiamo già fatto di fronte alla Commissione che stava lavorando alla modifica della Costituzione, di quei pochi articoli sulla candidatura presidenziale e sul controllo delle elezioni.

Ma il referendum (del 19 marzo scorso) per la modifica totale o parziale della Costituzione vi ha visto in minoranza.
Non dobbiamo smettere di sostenere la nostra gente e non dobbiamo essere delusi dal risultato del referendum. Anche se tutti i cristiani avessero votato il cambiamento radicale della Costituzione non avrebbero toccato il 10% e il “no” (quindi la completa modifica; ndr) ha raggiunto il 22,2%. C’è un’altra percentuale del Paese che condivide questa visione. È un risultato incoraggiante - lo dico ai fedeli e soprattutto ai giovani - che invita all’impegno politico nei partiti esistenti e in quelli che si formeranno in favore di uno stato civile e democratico.

Torniamo al desiderio di cambiamento che ha travolto il vostro Paese a gennaio.
La volontà di cambiamento è stata una sorpresa per il mondo esterno, ma anche per noi egiziani. E il suo scopo, la fine di un regime corrotto e ingiusto, è stato raggiunto in soli diciotto giorni. Ci sono stati un migliaio di morti e oltre cinque mila feriti. Un “prezzo” consistente, ma lo scopo è stato raggiunto. Proprio in quei giorni, ho letto l’intervista di un giornalista straniero a un dimostrante. Gli domandava per cosa manifestasse, e lui rispondeva: «Vivere degnamente, mangiare, potersi sposarsi, avere una casa». Il giornalista, sorpreso, replicava che non erano gli scopi di una rivoluzione: ma diritti fondamentali.

Si chiedeva libertà, giustizia… Qualcuno ha parlato di “rivoluzione di fede”. Cosa ne pensa?
Quei valori umani sono valori spirituali. Che provengono da una visione dell’uomo alla luce della fede, una concezione dell’uomo creato da Dio a sua immagine e somiglianza. Quindi, anche della sua intelligenza e della sua volontà che non possono essere dominate o soffocate. Questi valori spirituali permettono all’uomo una relazione pacifica con Dio, con i fratelli e le sorelle. Con l’altro. E da questi valori deriva la fratellanza tra cristiani e musulmani, la solidarietà verso gli stessi scopi.

Di recente, Wael Farouq, docente di arabo all’American University del Cairo, ha tenuto a Roma e a Rimini un incontro dal titolo: Le forze che cambiano la storia sono le stesse che cambiano il cuore dell’uomo. Lo spunto è una frase che don Luigi Giussani rivolse a un ragazzo che aveva appena aderito agli avvenimenti del Sessantotto italiano…
Esatto. Così si tocca l'essenziale… Il regime è caduto facilmente, ma per cambiare il cuore serve tempo. Ci vuole pazienza e intelligenza. Quando oggi vediamo tornare problemi legati al clima che dominava prima delle rivolte, ci accorgiamo che il problema essenziale non è la struttura, ma la gente che vive la struttura. Il problema sono la sua intelligenza e il suo cuore. Se il regime si può cambiare in un attimo, l’uomo e il suo cuore non cambiano facilmente.

E qual è il vostro contributo in questo cambiamento?
Come Chiesa e come guide religiose, dobbiamo aiutare i nostri fedeli a crescere nella fede e nella fiducia in Dio presente, che opera e continua a farlo. Questa maturità chiederà tempo. Intanto, l’impegno deve essere a cambiare noi stessi. Quello che deve cambiare è il nostro cuore, le attitudini, le relazioni; dobbiamo vivere ciò a cui il Sinodo ci ha richiamato: la presenza dei cristiani in Medio Oriente, come comunione interna e testimonianza dell’amore a Dio e di Dio. E questo nel rispetto e nell’accettazione, perché l’amore di Dio è un amore paziente.

Lo scorso ottobre, si è tenuta la prima edizione del Meeting Cairo e lei è stato testimone di questa strana e sorprendente collaborazione tra cristiani e musulmani. Alla luce di quanto è successo da gennaio a oggi, qual è il suo giudizio? Pensa che quell’avvenimento abbia ancora un valore di esempio, di paradigma e di possibilità reale per poter continuare la costruzione di un nuovo Egitto?
Possiamo paragonare il Meeting del Cairo al movimento per il cambiamento che ha suscitato l’ammirazione di tutto il mondo. Hanno la stessa natura. Chi poteva aspettarsi quella partecipazione, quella corrispondenza e quell’entusiasmo suscitato nell’animo di chi ha partecipato al Meeting di Rimini? Sono rimasto sorpreso dalla quantità di persone e dall’entusiasmo. Non si potevano distinguere cristiani e musulmani e negli incontri si parlava lo stesso linguaggio: esattamente come a piazza Tahrir, quando è scoppiato il movimento per il cambiamento. Mi piace chiamarlo così perché il termine “rivoluzione” ha in sé qualcosa di violento. Si tratta di eventi profetici tanto quanto il Sinodo, perché la gente, non solo in Egitto, ma in tutta la regione, sta rischiando la vita per valori sostanziali e di fede, valori spirituali e umani che trovano il proprio fondamento - come dicevo - nella relazione con Dio.