L'ingresso della <em>Maestà</em> nel Duomo di Siena.

Una processione lunga settecento anni

Una giornata di festeggiamenti per i sette secoli della "Maestà" di Duccio di Buoninsegna. E per ricordare che, «senza un avvenimento che accade ora, la tradizione sarebbe solo folclore»
Linda Stroppa

Non ci sarebbe stato modo migliore per celebrare i settecento anni dalla consegna della Maestà di Duccio di Buoninsegna al popolo di Siena. Nella data storica, a ricordo esatto di quel 9 giugno dell’anno del Signore 1311 - quando, dopo trentadue mesi d’intenso lavoro, il pittore senese terminava la sua opera - si è ripetuto quello spettacolo, unico ed emozionante: la traslazione della pala per l'altare maggiore con una processione solenne fino al Duomo.
Lavorata sia sulla fronte che sul retro, «la Maestà è la più grande tavola dipinta nella storia dell’arte italiana e il più grande ciclo di storie di Gesù e Maria mai realizzato», racconta Mariella Carlotti, già curatrice della mostra “Figlia del tuo figlio. La Maestà di Duccio di Buoninsegna”, presentata al Meeting di Rimini nel 2005, e autrice del volume Il cuore di Siena, sulla storia e il significato dell’opera. Un capolavoro voluto e commissionato da tutti i cittadini che chiedevano alla Madonna di proteggere la loro città: «Nel dipinto, i senesi sentirono espressa la loro autocoscienza, quella per cui su ogni moneta veniva inciso Sena vetus, civitas Virginis (Antica Siena, città della Vergine) o su ogni documento veniva apposto il Sigillo della Repubblica: la Madonna con il Bambino tra due angeli e l’epigrafe Salvet Virgo Senam veteram, quam signat amenam (Conservi la Vergine l’antica Siena che lei stessa rende bella)».
Quell’attaccamento a poco a poco venne meno: nel 1506 la tavola fu rimossa perché «non piaceva più», mentre nel 1711, in pieno illuminismo, venne praticamente fatta a pezzi e gettata in una soffitta del museo dell’Opera del Duomo. Grazie a un paziente restauro, però, oggi possiamo vedere i due scomparti centrali: la Vergine con il bambino, circondata dai santi e dagli angeli su fondo oro, da un lato, e ventisei storie della passione di Cristo, dall’altro.
«La Maestà è una testimonianza efficace dell’avvenimento cristiano» continua la Carlotti. «Chi entrava nel Duomo era colpito dalla presenza di Maria e questa lo disponeva ad accorgersi di Cristo, la cui storia era narrata nel retro della grande tavola. Per questo, in occasione dei suoi settecento anni, il Vescovo ha deciso di organizzare dei festeggiamenti pubblici». In una lettera alla comunità di Siena, monsignor Antonio Buoncristiani ha raccontato che «nel 1311, una grande processione di popolo accompagnò l’immagine sacra alla Cattedrale attraverso le vie del centro». Per questo, ripetere simbolicamente il gesto di Duccio «non significa solo riappropriarsi di uno straordinario patrimonio di civiltà», ma permette di recuperare la nostra «memoria collettiva, che pone al centro della sua identità i valori dello Spirito esaltati nella Bellezza».
E così è stato, il 9 giugno, quando tutti gli abitanti della città toscana, «dal sindaco agli sbandieratori di ogni contrada», hanno ripercorso il tragitto che il pittore fece, completato il lavoro, dalla sua bottega alla Cattedrale. Dopo la recita dei Vespri, arrivati nel Duomo, la vista era commovente: «La gente accalcata per riuscire a vedere meglio, il suono delle campane a festa, gli sbandieratori inchinati davanti alla Maestà per chiedere la benedizione di Maria, come avveniva nel Medioevo, mentre il canto del Te Deum, eseguito solitamente in occasione del Palio del 16 agosto, si elevava dalla cappella del coro». Un’unità che, nel contesto politico e culturale di questi ultimi anni, era andata persa, ma che quel giorno si è ricomposta: «Durante i festeggiamenti, è emerso in maniera evidente il profondo legame che la Chiesa mantiene con la tradizione. All’origine dell’opera di Duccio, così come all’origine del Palio, c’è un’esperienza presente: l’incontro e il dialogo tra due mondi, la Civitas e l’Ecclesia. Senza il riconoscimento di un avvenimento che accade ora, anche la bellezza della festa del Palio sarebbe puro folclore».