Don Luigi Guanella.

L’esiliato di Dio

Domenica 23 ottobre la canonizzazione del sacerdote lombardo. Dalla lotta al liberismo, ai progetti «falliti» e alla preferenza per gli infermi: una vita spesa nell’obbedienza, da cui sono fiorite grandi opere di carità (da Tracce, settembre 2009)
Paola Bergamini

Don Luigi con passo veloce percorre la via principale di Prosto, alla periferia di Chiavenna (Sondrio). Deve raggiungere i bambini del catechismo. E poi c’è da preparare la lezione per la scuola serale, andare a trovare quel povero demente... Da pochi mesi è vicario della parrocchia, dal giorno della sua ordinazione sacerdotale: 26 maggio 1866. Ha 23 anni. Tante le cose da fare. I rapporti con l’arciprete non sono sempre solari. Vuole più tranquillità. E invece questo vicario non sta fermo un minuto. La gente pende dalle sue labbra. La Parola di Dio diventa carne. Opere. In un frangente storico in cui il rapporto tra Stato e Chiesa è sempre più teso - proprio in quell’anno il Parlamento con una legge sopprime le congregazioni religiose e dispone la conversione del patrimonio immobiliare - il giovane don Luigi Guanella non si accontenta del quieto vivere: il popolo non può essere ingannato. Immerso nei suoi pensieri, quel giorno quasi non si accorge dell’uomo che bruscamente lo ferma: «So che lei è destinato a Savogno: mi è nato ieri un figlio e se venisse a battezzarlo domani l’avrei caro». Don Luigi è esterrefatto. La notizia del suo spostamento è arrivata prima ai nuovi parrocchiani che a lui. Pronto risponde: «Servo fedele, benché io nulla sappia». L’anziano arciprete, a quanto pare, proprio non ne poteva più di tutto quel trambusto. Non importa, bisogna obbedire. Significa che il Signore ha in serbo un altro progetto.
Il giorno dopo, 17 giugno 1867, si inerpica su per i duemila gradini che lo portano a mille metri di altitudine alla nuova destinazione. La lunga camminata gli fa piacere: è nato in montagna, a Franciscio, vicino a Campodolcino nella valle di San Giacomo. Nono di 13 figli, fino al momento di entrare nel seminario per giovani poveri del Gallio a Como, era abituato a quel tipo di vita. E non si rattrista che ad attenderlo non c’è nessuno dei 400 abitanti. La gente di montagna è fatta così: bisogna vincere la loro naturale ritrosia. Subito si dà da fare: si improvvisa imbianchino, muratore, ingrandendo la chiesa e costruendo una tettoia per le donne che si recano al lavatoio. Apre la casa parrocchiale per la scuola diurna per i bambini e serale per gli adulti. Avvicina ogni persona, trasmette a tutti la certezza della fede. I savognesi ascoltano questo giovane prete che parla dell’Eucarestia con accenti che rendono trasparente il Mistero. Tutta la comunità gli si stringe attorno. Come a Prosto, ha una cura particolare per i malati nel corpo e nella mente, più volte all’anno ne porta alcuni a Torino, nella Piccola Casa della Divina Provvidenza. I suoi viaggi nel capoluogo torinese sono anche per accompagnare le giovani che desiderano approfondire la loro vocazione. Tante si fermano nelle Congregazioni di don Bosco e del Cottolengo, al punto che viene accusato sul giornale anticlericale Il libero alpigiano di voler popolare di preti e di suore la Valtellina. Nel 1872 pubblica il Saggio di ammonimenti familiari per tutti, ma specialmente per il popolo di campagna, stampato a Torino nella tipografia di San Francesco di Sales, in cui mette in guardia il popolo della campagna «a difendersi contro le maligne arti con cui i settari massonici, congiunti con i liberali del giorno agognano a rovinare nell’anima soprattutto, e poi anche nel corpo, ogni persona per bene. (…) In presente dobbiamo dimostrare gran coraggio in opporre scuole, libri e istituzioni cattoliche alle scuole, ai libri ed alle istituzioni dei massonici». Questo, oltre alla sua ferma opposizione a mantenere l’insegnamento contro le diposizioni ministeriali del 1862, lo fa entrare tra i sorvegliati speciali. Viene accusato di sovversione e intolleranza. Non può più rimanere a Savogno. Ma nel suo cuore c’è il desiderio di andare incontro ai bisogni della gente.

«Signore, fa che io veda». Nei suoi viaggi a Torino ha avuto modo di entrare in stretto contatto con don Bosco e di conoscere la sua opera. Forse è quella la sua strada. Chiede al Vescovo di trasferirsi a Torino, dove il fondatore dei Salesiani lo accoglie a braccia aperte. Gli viene affidata la direzione dell’Oratorio di San Luigi con 700 ragazzi e poi quella del collegio di Mondovì. Ma i giovani per lui non sono tutto, il suo pensiero è rivolto agli infermi, soli, trascurati. Più volte la sua preghiera è: «Signore, fa che io veda». Trascorsi tre anni, il Vescovo di Como lo richiama in diocesi. Don Luigi obbedisce. La nuova destinazione è Traona, nella bassa Valtellina, in aiuto all’arciprete colpito da paralisi. Monsignor Carsana lo aveva inviato con queste parole: «Lassù, come ben sapete, avete case e conventi disusati per fare quelle fondazioni che avete fisse nell’animo; ma guardate poi che non siano fantasie di cervello caldo e illusioni funeste. Provate per vostro conto. Io vi benedico». Le difficoltà che deve affrontare sono tante. Ma non si scoraggia. Fa catechismo, apre scuole diurne e serali. Le autorità civili lo marcano stretto: non vogliono che porti «i progetti oscurantisti appresi alla scuola di don Bosco». Imperterrito va avanti. Predica e ancora una volta ridà alla gente il gusto di sentirsi cristiana. Con i soldi avuti da una eredità, acquista il convento di San Francesco dove istituisce un piccolo collegio. Sembra la prima pietra dell’opera che lui ha in mente. Niente da fare. Viene intimata l’immediata chiusura perché «ritenuto sovversivo il fondatore». Non solo. Alla Curia indirettamente le autorità civili consigliano di «dare al Guanella una cura d’anime sopra un pizzo di montagna dove egli non possa esercitare pericolose influenze».
Il 26 agosto 1881 si trasferisce a Olmo, piccolo paese, lungo la via che porta allo Spluga. Ha il cuore colmo di amarezza. Non accetta questo accanimento nei suoi confronti solo per essersi mostrato «nemico acerrimo del liberismo», come lui stesso scrive. Nel suo “esilio” prega e chiede aiuto a Dio. La risposta arriva con la notizia che a Pianello Lario è morto il parroco, don Carlo Coppini, che aveva dato vita a un orfanotrofio affidandolo ad alcune pie donne. Quello è il germoglio da far fiorire. Don Luigi ritorna da monsignor Carsana affinché gli venga assegnata la parrocchia. Il Vescovo è titubante: come trattare questo «fondatore fallito», come in molti lo definiscono? Alla fine gli viene concesso il semplice incarico di amministratore della parrocchia di Pianello. Arriva alle 11 di sera, nessuno lo attende. Ancora una volta con pazienza si conquista le persone. Soprattutto le religiose dell’orfanotrofio, che hanno timore di questo prete che ha fama di matto. Si alza presto e celebra la messa per i filandieri che vanno al lavoro, visita le famiglie, catechismo, scuola serale, predicazione. Appena ha un momento libero scrive i suoi opuscoli. Quando il prevosto Mussi rinuncia alla direzione dell’orfanotrofio le suore chiedono che sia lui il direttore. Il germoglio comincia a fiorire: fare un’opera di assistenza e carità. L’ospizio acquista nuovo vigore, con le suore c’è subito sintonia. I confini di Pianello per don Luigi in breve tempo diventano stretti. La Provvidenza inizia a dispiegare i suoi disegni.
Il 25 febbraio 1886 si reca a Como dal prevosto di Sant’Anna, che gli indica la casa e il terreno di un certo signor Biffi. È l’ideale per aprire un istituto per “serve povere”. Il 6 aprile tre suore aprono la casa di via Santa Croce. Il numero degli assistiti aumenta di giorno in giorno. Il 26 maggio 1890 don Guanella può lasciare il suo impegno a Pianello per dedicarsi completamente alle due Case della Provvidenza. Solo a Como vengono assistite oltre 200 persone tra anziani, infermi, ciechi, sordomuti, malati cronici, studenti poveri e ragazzi tolti alla delinquenza. Per ognuno don Luigi ha una cura particolare. Un sacerdote che visita l’opera commenta: «Con quale riverenza don Guanella prestava gli uffici più umili di soccorso e di pulizia personale ai vecchi malati, quasi trattasse con le sue mani le carni sacrosante di Gesù Cristo». A chi gli chiede come fa a provvedere ai bisogni di tante persone, risponde: «Provvede la Provvidenza».

«Lasciatelo fare il bene». Il 25 ottobre 1891 monsignor Andrea Ferrari - beatificato nel 1987 da Giovanni Paolo II - fa il suo ingresso nella diocesi di Como. Gli basta poco per capire la portata dell’opera di don Luigi. Così che quando gli giungono voci poco benevole taglia corto: «Andate a visitare le case e vi convincerete che quello che fa non è secondo la prudenza umana, ma secondo la prudenza cristiana. Lasciatelo fare il bene alla gente». Con il suo appoggio, in un anno porta a termine il progetto della chiesa del Sacro Cuore.
I destini di questi due prelati rimangono legati. Nel 1894 monsignor Ferrari diventa arcivescovo di Milano e Guanella inizia la sua opera nel capoluogo. Prima con l’apertura di alcuni asili e poi, grazie all’aiuto del Cardinale, acquista un grande edificio attiguo alla chiesa di Sant’Ambrogio ad Nemus dove accogliere i suoi infelici. È instancabile. A Como acquista la vecchia filanda Binda. Soldi non ce ne sono, ma come sempre la Provvidenza viene in suo aiuto. Il nuovo Vescovo liquida con queste parole il nuovo progetto: «Faccia quello che vuole, perché con i santi non si può discutere». Vi troveranno ospitalità oltre 300 inferme.
Il 18 ottobre 1899 convoca i parroci e i cappellani della Piana di Spagna, zona paludosa tra Chiavenna e Colico. Il suo progetto? Prosciugare e bonificare. Sembra impossibile. Acquista una casa e i terreni attigui nel cuore della landa e con l’aiuto degli sterratori veneti e dei suoi “buoni figli” nel giro di pochi mesi paludi e stagni sono prosciugati. È la Nuova Olonio San Salvatore. Nascono altre opere e fioriscono le vocazioni, soprattutto quelle adulte, sia maschili che femminili: sono i Servi della Carità e le Figlie di Santa Maria della Provvidenza.
Il 27 settembre 1915 don Luigi è nella casa di Como a colloquio con un amico. A un certo punto si accascia. È la paralisi. Il suo fisico da montanaro è stremato. Muore il 24 ottobre. L’amico cardinale Ferrari, al momento di benedire la bara, dice: «Con quale nome preferiresti che io ti chiamassi? Tu mi risponderai sicuramente: servo della carità».