Padre Alberto con giovani cambogiani.

La pagina dove Dio vuole poetare

Da qualche mese in Italia, il missionario del Pime pensa al destino dei ragazzi di Prey Veng. Perché, tra chi si sposa e chi conta i suoi giorni, siamo tutti chiamati ad «avere cura dell’umano senza cedere di un millimetro»
padre Alberto Caccaro

«Così il Padre vostro celeste non vuole che si perda neanche uno solo di questi piccoli» (Mt 18,14)
Me ne sono andato ormai da qualche mese, ma non riesco del tutto a staccarmi dalla Cambogia. Il destino dei ragazzi di Prey Veng occupa ancora il mio tempo, la mia immaginazione. Penso spesso a loro: Kosol, il poeta, che si sposerà il prossimo 1 gennaio, Hong che settimana scorsa ha superato il test di ammissione alla facoltà di Medicina, Saet che, malato di cancro, conta i suoi giorni. E tanti altri. Sono giovani, tanto giovani. E vorrei essere con loro ancora per un po’, ma non sono così buffo da pensare di poter fare la differenza. Anzi. Non avrei voluto scrivere questa lettera perché si scrive solo da terre lontane mentre ora mi trovo vicino, in Italia. Ma forse non è del tutto vero. Sento di essere ancora lontano. Altrove: non ancora qui, non più là. Allora, per continuare a vivere, non importa dove, faccio come Etty, prego, perché «quando si prega per qualcuno, gli si manda un po’ della propria forza».
Ricordo ancora il giorno in cui il papà di Kosol arrivò all’ostello portando suo figlio. In bicicletta, trenta chilometri di strada sterrata alle spalle, e il figlio seduto dietro. Kosol aveva allora sedici anni, una bella voce, serio, sincero, e una particolare attitudine per la scrittura. Qualche anno dopo, partecipando ad un concorso per poeti in erba, arrivò secondo con una poesia sulle cose dell’amore. Non vinse perché, dissero i giudici, i suoi versi sapevano troppo di terra. Forse la giuria cercava il sublime che Kosol non poteva ancora esprimere. Ma non si fece attendere. Al momento della premiazione gli chiesero non di recitare, ma di cantare i suoi versi... Allora strappò un applauso tale, che sembrava arrivato primo! La mamma, presente alla premiazione, era visibilmente commossa. Ora Kosol è a un passo dalle nozze ed avrà bisogno di quell’amore che spesso ha cantato: «Lo desideri, accanto, come nell’abbraccio... L’amore quando lo possiedi toglie al cuore ogni tremore».
Dice Heidegger che «la verità come illuminazione e nascondimento... accade solo se poetata». Kosol, forse inconsapevolmente, ha cominciato a curare le ferite del suo popolo. In lui avviene ogni giorno quella «svolta di respiro», direbbe Paul Celan, per cui «l’uomo “inspira” il mondo che lo circonda e lo espira rielaborandolo in visioni, immagini, tensioni, comprensioni della vita, del destino». Non importa quanto brutta possa essere la realtà che ti circonda, prenditi a cuore ciò che vedi, inspira, e restituisci tutto in versi, poeticamente, piegando «l’indolenza della materia a un disegno di bellezza interiore», come scriveva don Carlo Gnocchi. Auguri Kosol!
Hong, invece, è un po’ più giovane. Lo incontrai per via di un sentiero interrotto. Stavo andando in moto verso quello che poi avrei scoperto essere il suo villaggio. Da tempo la gente mi diceva di andare da quelle parti. Zone remote che rimangono inondate dall’acqua per buona parte dell’anno, sono raggiungibili solo in barca, oppure bisogna aspettare la stagione secca per andarci in moto o in bicicletta, quando i sentieri riaffiorano. Infatti, quando l’acqua si ritira, restituisce le risaie ai contadini, e le piste, dissestate e difficili da percorrere, ai viandanti. Aspettai e andai, per un sentiero interrotto, ad incontrare Hong. Quel giorno ero costretto a procedere come dentro la rotaia di un tram. E se qualcuno procedeva in senso contrario, avremmo dovuto giocarci la precedenza. Fu così che la prepotenza della mia moto costrinse la bicicletta di Hong a fermarsi, ma mi fermai anch’io. Stavo procedendo verso ovest, lui invece stava andando a scuola, quindici chilometri più ad est, verso Prey Veng. Fermandomi, gli chiesi di dove fosse e dove stesse andando. Aveva tredici anni. Qualche giorno dopo lo invitai a stare da noi, presso il nostro ostello, appena aperto, e accettò. Chi avrebbe immaginato che insieme, qualche anno dopo, avremmo tradotto Il rischio educativo di don Giussani. Ora che ha appena superato gli esami di ammissione alla facoltà di Medicina tutto mi è più chiaro: anche lui curerà le ferite del suo popolo. Sta per iniziare un cammino lungo: otto anni di studio, solo per diventare medico generico, con libri di testo in francese o inglese, e medici spesso dediti al guadagno facile più che alla cura della persona, Hong dovrà faticare per non cadere, per rimanere integro, ma sono certo che potrà farcela. Lo conosco bene!
E, da ultimo, Saet, malato. «Il dolore ha troppa fantasia», dice Renzo Barsacchi, ed io non voglio crederci, ma la telefonata di ieri ha confermato ancora la stessa diagnosi. Come faccio ad inspirare questa realtà e restituirla poetata? Bastano alcuni versi? «Il poeta - dice Alda Merini - è come plasma puro / sopra cui Dio imprime a volte / le proprie contraddizioni». Ti prego, Signore, sii tu ad inspirare questo dolore e a poetarlo in versi di Grazia per curare chi tu vuoi. Ti prego Signore, aiutalo! Rendi vere le parole evangeliche che la Tua Chiesa ha proclamato quest’oggi: «Il Padre celeste non vuole che si perda neanche uno solo di questi piccoli». Conobbi Saet quando cominciò, quattro anni fa, a frequentare la nostra scuola. Alto, piacevole, positivo, non sopporto ora di saperlo malato. La settimana scorsa per due notti di fila ho trovato chiamate non risposte. Ho chiesto ad un giovane fidato in Cambogia di cercare e prendere contatti con il numero telefonico rimasto registrato nel mio telefono. Era Saet che mi cercava. No! Non può essere. Sento cosa significa per un papà o una mamma avere un figlio. È forse quel corpo la pagina su cui Dio vuole poetare, imprimere i suoi versi e le sue contraddizioni? «Tu, Dio, sempre così muto: / silenzio che più si addensa / più esplode: e ti parlo, ti parlo... ma so che odi e ascolti / e ti muovi a pietà: / allora anch’io mi acquieto e faccio silenzio». La fede. Non so che altro dire, credere. Il destino dei ragazzi di Prey Veng occupa ancora i miei giorni, le mie preghiere. Ma sono certo che anche Saet curerà le ferite del suo popolo: «Quando un bambino sarà riuscito a comprendere la somiglianza che esiste tra il suo dolore e quello di Gesù - scrive don Carlo Gnocchi -, la preziosità che egli può conferire alla sua sofferenza, per sé e per gli altri, inserendola in quella di Cristo... con questo egli avrà toccato il centro più profondo e più inesplorato, il più originale ed operante di tutto il cristianesimo, quasi il “punto verginale” della dottrina di Cristo. E quando si ha la ventura di “toccare” così da vicino Iddio, negli anni della giovinezza, il suo segno gaudioso resterà valido e indelebile per tutta la vita... Ogni stilla di sofferenza umana e di pianto acquista valore soprannaturale di redenzione e di grazia». Così la missione è l’accadere di questa mistica somiglianza.
In questi mesi di studio intenso, appassionato, incontro interlocutori interessanti che mi aiutano a fare una sintesi adeguata e rispettosa dell’enorme posta in gioco. Il nostro destino, il destino dei ragazzi di Prey Veng e del mondo intero. Dobbiamo avere cura dell’umano, nei suoi successi e nei suoi fallimenti. Senza cedere di un millimetro, fino a che si compia quella mistica della somiglianza che è, per me, il senso della missione della Chiesa. Mi aiuta Hong con la sua intelligenza, Saet con il suo dolore. Mi aiuta Kosol con la sua poetica perché «la lingua della poesia accoglie nel suo ritmo il dolce e il doloroso della ricordanza. Per un istante buca il tempo irreversibile e sospende - nel tempo della lingua, del suo ritmo - la parvenza che viene da lontano. E dispiega l’esperienza di un colloquio con essa» (Antonio Prete). Forse è questo il colloquio da cui ripartire ogni giorno.
«Essere in mano a Lui, sentirmi forte / di debolezza, privo della speranza / nella Speranza che da lui si avventa / contro i miei rami deboli. Il dolore ha troppa fantasia. Solo il respiro / mi basta e il mio sbandare / dietro di lui». Buon Natale!