Stretti tra due fuochi

MEDIO ORIENTE - LA CHIESA CHE SOFFRE
Paolo Perego

La Primavera araba si è trasformata in guerra civile. E i cristiani sono corteggiati da entrambe le fazioni. Stare con Assad? Domani saranno traditori. Con i ribelli? Oggi rischiano la vendetta della dittatura... Padre SAMIR KHALIL SAMIR racconta la vita di chi è rimasto

Sono presi in mezzo a una guerra che non è la loro. Tra autobombe, cecchini. E carri armati che reprimono una ribellione che dura da mesi. Migliaia i morti in un anno di guerra civile. Forse più di settemila. E poi c’è l’embargo, quelle sanzioni dell’Occidente approvate a dicembre, anche dalla Lega araba, per cui manca il gasolio, l’elettricità, il gas. Il cibo. E fa freddo in Siria, d’inverno. Ad Aleppo, Damasco, Daara, Homs. Sulle montagne imbiancate dalla neve. A farne le spese, è il popolo. Senza distinzioni: musulmani sciiti, sunniti, alawiti, profughi iracheni. E cristiani, tra maroniti, cattolici, ortodossi: più del 10% della popolazione, oltre due milioni.
«La posizione dei cristiani nella Siria di oggi è molto delicata», spiega padre Samir Khalil Samir, gesuita e studioso dell’Islam dell’università di Beirut, in Libano, il Paese confinante dove senza sosta continuano ad arrivare profughi. «Per decenni hanno vissuto senza discriminazioni. Erano cittadini, come tutti gli altri. Ma ora il loro futuro è quanto di più incerto possano aspettarsi».

Dittatura laica. Dal 1970 nel paese mediorientale è al potere la dittatura Baath degli Assad, famiglia alawita. «Gli alawiti sono circa l’11% della popolazione. Eppure, sono riusciti a mantenere il potere per tutto questo tempo»: prima con Hafiz al-Assad e poi, dal 17 luglio 2000, col figlio Bashar al-Assad. «Una setta sciita: così i sunniti, la maggioranza dei siriani, vedono la minoranza alawita. Una dittatura, quella baathista, di stampo socialista e laico. La religione è riconosciuta come fatto sociale, e tuttavia non incide sulla vita dello Stato. Per questo, paradossalmente, pur essendo antidemocratico, il regime non ha mai operato discriminazioni verso minoranze e gruppi religiosi». L’unica attenzione del potere in quarant’anni è stata verso ogni possibile minaccia per la dittatura, da qualunque parte venisse. Fino ad arrivare a una maniacale forma di controllo preventivo, come racconta padre Samir: «Su tutto. Non c’è libertà di parola di fronte a una rete impressionante di spie: si parla di una ogni cinque persone. Mi è capitato, in passato, di andare a fare delle conferenze in Siria. Ricordo un incontro organizzato in un convento francescano alle 9 di sera. L’indomani mattina telefonarono alla residenza dei gesuiti dove stavo, chiedendo il motivo per cui fossi andato a tenere una conferenza per dire la tal cosa, la tal altra: una sintesi perfetta del mio discorso. Sapevano tutto. Un’altra volta, per strada, mi sono permesso di fare alcune domande, il perché di un simbolo, il significato di una data importante... L’accompagnatore s’irrigidì subito: “Sei pazzo? Non puoi parlare così per strada!”. È che basta un sospetto per arrestarti. E il carcere vuol dire violenza, torture, soprusi».

«Da che parte state?». Quando nel marzo del 2011 la folla è scesa in piazza chiedendo libertà sulla scia di quella “primavera” che aveva investito gli altri Paesi del Nord Africa, Assad ha sparato sulla folla, portando in piazza i carri armati. La repressione si è fatta poi sempre più violenta, e i gruppi di rivoluzionari sunniti più radicali, appoggiati anche da alcuni Paesi arabi, davanti all’escalation di omicidi e torture si sono armati e hanno iniziato una guerriglia durissima, soprattutto in certe zone del Paese. A Hama, per esempio, nella zona di Homs, dove non si era mai spento il ricordo della strage del 1982, quando Hafiz al-Assad fece radere al suolo un intero quartiere per colpire i Fratelli Musulmani: «Una carneficina che è rimasta nella memoria della gente. E che ora si tramuta in vendetta e violenza», continua padre Samir.
In questo quadro la posizione dei cristiani è drammatica. Il regime laico in qualche modo garantiva loro la sopravvivenza. «Ma se i ribelli takfiristi depongono Assad, quelli che verranno dopo di lui saranno radicali sunniti, salafiti e Fratelli Musulmani. Lo abbiamo già visto in Tunisia, dove ha vinto il partito islamico. E osserviamo la Libia e l’Egitto nella loro rinascita. Stati dove la rivoluzione è partita con uno spunto laico, e dove pure il rischio di derive fondamentaliste è alto. I cristiani temono la ribellione. E d’altra parte non possono appoggiare il regime liberticida di Assad. Sono presi tra due fuochi e tirati per la giacca da entrambe le parti. “Da che parte state?”. Con Assad? Domani saranno dei traditori. Coi ribelli? Rischierebbero la repressione del regime oggi».
Uno stallo vissuto per mesi, tra la paura e l’incertezza del futuro. E che sempre di più sta diventando insostenibile. Tanto che qualche voce inizia a levarsi coraggiosamente anche nella Chiesa, non tanto come presa di posizione politica, quanto piuttosto come richiesta di aiuto.
«Un vicolo cieco, senza nessuna prospettiva di soluzione. Una notte buia»: è la descrizione che monsignor Samir Nassar, arcivescovo maronita di Damasco, fa del suo Paese, dove «alla fine di ogni messa i fedeli si dicono addio. Ho avuto solo una dozzina di persone per la messa di Natale e non più di 20 bambini al catechismo: tanti giovani hanno già pensato di andare via e sono già molti i cristiani rifugiati ai confini, in zone dove si combatte. Ci viene chiesto di non rimanere neutrali. Come possiamo mantenere il nostro ruolo di mediatori tra due islam antagonisti senza rimanerne vittime?». È la stessa preoccupazione di Madre Agnès-Mariam de la Croix, superiora del convento ecumenico di San Giacomo il Mutilato a Qara, per cui «esistono gruppi armati ribelli responsabili di attacchi ai diritti dell’uomo tanto quanto il regime». Senza contare, denuncia la religiosa, i primi “attacchi” ai cristiani: «A Natale i ribelli takfiristi hanno proibito di esibire i simboli della festa cristiana. Mentre le persone che rifiutano di prendere posizione vengono iscritte nelle liste nere dei comitati rivoluzionari».

Un aiuto per tutti. «Nella vita quotidiana le comunità cristiane continuano, per quanto è possibile, ad aiutare tutti», aggiunge padre Samir: «A Homs, per esempio, dove la repressione è più violenta e dove tanti iniziano a fuggire. A messa ci vanno in pochi, è pericoloso anche solo uscire di casa, per via dei cecchini. C’è molta gente che non ha più da mangiare, perché non può comprare le provviste. Ho ricevuto un rapporto delle comunità dei gesuiti che sono in quella zona. Hanno aiutato circa cinquecento famiglie, cristiane e musulmane. Tutta la Chiesa in Siria si sta muovendo così». Lo testimonia anche l’appello dei francescani a firma del custode di Terrasanta, padre Pierbattista Pizzaballa (vedi box). Un segno di speranza, che va oltre l’ideologia o il confessionalismo. Oltre ogni schema. «A Homs i gesuiti hanno un terreno agricolo fuori città», racconta padre Samir: «Fa parte di un progetto di sviluppo della regione e ci lavorano cristiani, alawiti e sunniti. Settimana scorsa sono arrivati i ribelli a cercare gli alawiti. Erano armati, volevano ucciderli. Uno dei lavoratori, un musulmano sunnita di una certa età, li ha fermati: “Qui non ci sono alawiti, sunniti o cristiani. Quello che facciamo è per tutti. Siamo tutti fratelli, tutti siriani. Se volete uccidere qualcuno, prima dovete uccidere me”». Lui, sunnita come loro, della loro parte. Hanno rubato tutto, saccheggiato, ma senza fare morti. L’atto di quel musulmano, da dove nasce? «Non è questione di difendere la cristianità ideologicamente. Rappresenta un fattore di speranza. Il rischio di una diaspora dei cristiani è alto, ma se accadesse sarebbe una grave perdita per tutto il Paese. Hanno un ruolo fondamentale. Si deve a tutti i costi aiutare la Siria a trovare un’intesa nazionale». L’Onu sta valutando come prendere posizione, ma è difficile trovare un accordo. Di poche settimane fa è la notizia del veto di Russia e Cina a un incremento delle sanzioni. La Siria ha un ruolo strategico di equilibrio per l’intera area mediorientale. «E d’altra parte un aiuto non può neppure venire dai Paesi Arabi, troppo interessati a che il regime di Assad venga scalzato al fine di isolare ulteriormente l’alleato Iran».

Un gesto efficace. Eppure non si può non continuare a richiamare a «una soluzione urgente e pacifica», come ha detto monsignor Mario Zenari, nunzio apostolico, davanti all’orrore della strage di bambini di Homs. «Deve cambiare il cuore della gente», continua padre Samir: «Occorrono testimoni. Persone come padre Franz, olandese, rimasto a Homs nonostante l’evacuazione della comunità gesuita di cui è superiore. È rimasto, da solo. Per aiutare la gente. Tutti hanno detto: “È pazzo. Girare per una città piena di cecchini che sparano a qualunque cosa si muova”. Eppure è lì. Vent’anni fa ha messo in piedi un’iniziativa, una serie di pellegrinaggi da una città all’altra, per tutti: migliaia di giovani musulmani e cristiani in cammino per una settimana. “Se devo morire morirò, ma non posso abbandonare il popolo”».
Testimoni di speranza. Dopo duemila anni, proprio nei luoghi dove è nato il cristianesimo, la salvezza passa ancora dalla carne e dal sangue di chi è disposto a dar la vita per Cristo. «Dobbiamo pregare per la fede di questa gente, come ha fatto il Papa. Non è un banale rifugiarsi nella preghiera. No. È davvero l’unica possibilità per la pace. Che Dio, anche attraverso i cristiani di Siria, possa cambiare il cuore degli uni e degli altri che si combattono. Per questo dobbiamo pregare per loro».