Mosè Bianchi, "Crocefissione"<br>(1881).

Fine o inizio?

Il quarto e ultimo gesto di catechesi con l’arcivescovo Angelo Scola, in preparazione della Pasqua. «Cristo è padrone di ogni dolore». Cosa vuol dire questo per noi? «Che in ogni relazione il sacrificio non annulla il possesso, lo potenzia»
Francesca Mortaro

Nelle ultime tre stazioni della Via Crucis, Gesù muore in croce, è deposto e messo nel sepolcro. Sembra la fine di tutto, ma è davvero così? «Immedesimiamoci con il quadro che abbiamo davanti, la Crocefissione di Mosè Bianchi. Cosa vediamo?», domanda l’arcivescovo Angelo Scola nell’ultimo incontro dell’Itinerario di Quaresima. «Un corpo teso nell’ultimo spasimo della morte, le braccia aperte nel gesto d’implorazione, il volto non reclinato, ma proteso verso il Padre. Questo è l’abbandono estremo di sé». Poi lo sguardo si sposta sulla figura di Maria Maddalena che sta ai piedi della croce: «Il corpo chiuso in se stesso, le mani sugli occhi per non vedere lo strazio dell’Amato: è un abbandono che diventa estrema desolazione. In lei c’è tutta la tragedia della fine. In Gesù tutta la speranza certa dell’inizio». Continua Scola: «Abbiamo seguito la Croce fino a qui, come Maria Maddalena, con il cuore piegato dal dolore per i nostri peccati. Ora decidiamo di seguirLo con la massima consapevolezza, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Cristo, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo».

«Gesù disse: È compiuto! E chinato il capo, consegnò lo spirito», dice il Vangelo di Giovanni. Gesù muore in croce. Rebora descrive così quel momento: Immobile è tutto, un istante che è eterno. Solo si muove l’inesausto amor del Signore. «Dopo duemila anni, questo amore raggiunge noi qui, oggi, e tutti gli uomini», sottolinea Scola: «Il Figlio è trafitto dall’orrore di queste tenebre. Patisce la nostra intima lontananza da Dio. A Lui questa lontananza non era affatto famigliare (come invece spesso è per noi), era quanto di più estraneo potesse capitargli. Solo il Figlio fattosi uomo sa cosa possa significare perdere un padre. Si porta il lutto fin nell’intimo del suo cuore. Ma l’amore di Dio è così ricco che può assumere anche questa forma di oscurità, e assumerla per amore del nostro oscuro mondo». Giovanni parla della morte di Cristo come di una consegna: «Consegnò lo spirito». È il dono supremo. «Amici, contemplando il Crocefisso», commenta Scola, «impariamo il significato del sacrificio, parola che noi vorremmo evitare sempre. Eppure non è una condanna, ma diventa la condizione dell’amore vero che libera l’altro, non che lo lega. Solo passando dal cuore di Cristo trafitto noi possiamo conoscere il Suo amore. Questo inesausto amore potrebbe cambiare il nostro sguardo sui nostri affetti feriti, sui nostri cari ammalati, soprattutto su quelli che si trovano in stato terminale».

Il silenzio del Sabato Santo è il momento di «massima distanza». Gesù viene deposto dalla croce. Rilke commentando il mistero di questo istante dice che Gesù è «padrone dei dolori». «È proprio così», commenta Scola: «A Lui appartiene ogni sofferenza e dolore degli uomini, perché li ha acquistati con il prezzo della sua vita». Il silenzio del sepolcro dice «l’universale solidarietà del Crocefisso: non c’è spazio né tempo che non siano attraversati e redenti dal Signore. Non c’è persona che rimanga esclusa. Di più. In Lui l’uomo è posto nella condizione di capire che la gratuità è la legge di ogni rapporto. Perché è la gratuità che rende stabile ogni rapporto». E continua: «Cosa vuol dire questo per noi? Che in tutte le relazioni, da quelle più intime e costitutive – tra lo sposo e la sposa, tra genitori e figli -, a quelle tra amici, compagni di lavoro, fino a quelle domandate dalla ricerca del bene comune e dell’edificazione della civiltà della verità e dell’amore, il sacrificio non annulla il possesso che l’amore genera. Anzi è la condizione che lo potenzia. L’amore è dono di sé e non può esistere se vogliamo sottrarci alla croce».

Gesù viene deposto nel sepolcro. Giovani spiega che «presero il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli, insieme ad aromi». Nel versetto precedente aveva parlato di una gran quantità «di mirra e aloe». Benedetto XVI, nel secondo volume di Gesù di Nazaret, scrive che la sepoltura di Gesù è regale: «Il genere della Sua sepoltura lo manifesta come re. Nei momenti in cui tutto sembra finito, emerge in modo misterioso la Sua gloria». «Chi non riconosce la grandezza del Crocefisso?», domanda Scola: «Ciò che fa problema è riconoscere Cristo risorto qui e ora. Eppure è solo la Sua dolce presenza, vivente in mezzo a noi, che ci ha convocato qui a pregare insieme. Lui ci ha rassicurati: “Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo”». Continua: «Gesù, che ogni giorno e in tutti i luoghi si offre a noi nell’Eucarestia, modella le nostre esistenze secondo la “forma” della Sua esistenza: una vira grata, donata, salvata per salvare». Sine dominico non possumus: lo dissero i martiri di Abitene di fronte al divieto di Diocleziano a celebrare la Messa. «Possiamo ripeterlo anche noi con sempre maggior consapevolezza. Riprendiamo, in questo tempo santo che ci separa dalla Pasqua, la bella tradizione di partecipare alla Santa Messa quotidiana. L’Eucarestia è il gesto di preghiera per eccellenza, scuola di preghiera e di vita, paradigma dell’esistenza cristiana. È germoglio di Resurrezione».

Infine, l’Arcivescovo propone un nuovo appuntamento: martedì 27 marzo, risponderà (via tv, radio e web) a tutte le domande che i fedeli hanno inviato, sul percorso fatto insieme in questi quattro gesti lungo la Via della Croce. Il dialogo sarà trasmesso alle 21 da Telenova, Radio Marconi e www.chiesadimilano.it.
Il cammino non finisce, come ricordato ieri l'Arcivescovo nella preghiera conclusiva: «Concedici, o Signore, di conoscerTi, come i discepoli di Emmaus, risorto e vivo, gustando la Tua compagnia e annunciandola instancabilmente, con l’entusiasmo e l’audacia dei primi, a tutti i nostri fratelli uomini».