«Messico, non dimenticare»

Quelle «parole forti, che non avevano nulla di compiacente». E la sfida alla nostra fede «superficiale e abitudinaria». Ad un mese dalla visita del Papa, il Nunzio apostolico in Messico racconta «la traccia profonda» di quell'incontro
Alessandra Stoppa

«Abbiamo partecipato del mistero dell'esistenza di un Papa». Cioè di «un uomo scelto da Dio», che «ha messo inquietudine nel cuore di tutti i sapienti». Monsignor Cristophe Pierre, Nunzio apostolico in Messico, descrive così - a un mese dalla visita di Benedetto XVI - che cosa significa per un popolo incontrare il suo Pastore. E racconta di come il passaggio del Santo Padre in quella terra, l'incontro con i bambini e il dialogo con i Vescovi abbiano «già lasciato una traccia profonda».

Perché «una traccia profonda»?
Questa visita ha permesso a tutti di vivere un’esperienza molto intensa di gioiosa comunione attorno alla guida universale della Chiesa. E sappiamo che è l’esperienza stessa della vita ecclesiale a rafforzare e far crescere la Chiesa. Come ha detto il Presidente del Messico, Felipe Calderón, il popolo aveva bisogno di veder ridestata la speranza in un contesto assai difficile. E il Papa è venuto a confermarlo nell’importanza di continuare a sperare, di andare avanti con la ricchezza della sua fede. Basta guardare alle numerose testimonianze di chi lo ha incontrato per esserne sicuri.

Per esempio?
Innanzitutto vedere tante lacrime di gioia scorrere su visi contenti. Io mi sono emozionato davanti a questo, perché sono sentimenti che non hanno niente di artificiale, vanno fino al più profondo dell’essere: là dove Dio ci raggiunge e ci tocca. Poi la visita del Papa ha suscitato molteplici iniziative, in particolare nel campo della catechesi.

Quali?
Ormai non si contano più le pubblicazioni, assai ben preparate, sul Santo Padre e sulla Chiesa. In questo periodo, mi è toccato di essere vicino a un grande numero di professionisti della comunicazione che hanno preso coscienza, in quanto cattolici, della loro responsabilità di utilizzare le nuove metodologie per incidere sulla realtà sociale. Sono convinto che nel campo delle comunicazioni di massa la visita del Papa marcherà una nuova era per questa Chiesa. Spero che i cattolici siano capaci di essere più audaci che in passato in questo campo. Ma soprattutto non bisogna dimenticare che il Papa è anche venuto per confermare i Vescovi, per incoraggiarli nel loro apostolato di evangelizzazione, e i suoi messaggi rappresentano una ricca miniera che i Pastori dovranno saper sfruttare perché la Chiesa del Messico non perda nulla del suo dinamismo missionario.

In che modo li ha confermati?
Io ho molto apprezzato quell’incontro, tra il Papa, i Vescovi messicani e i rappresentati delle Conferenze Episcopali dell’America Latina nella Cattedrale di Nuestra Señora de la Luz, a León. L'ho apprezzato perché ci ha dato una bella immagine di ciò che è la Chiesa.

In che senso?
Il Papa aveva desiderato questo momento di dialogo con i Pastori. Dopo aver ascoltato il saluto di monsignor Carlos Aguiar Retes, Presidente della Conferenza Episcopale Messicana e del Consiglio Episcopale Latinoamericano, è ritornato sul tema della missione continentale che i Vescovi avevano lanciato cinque anni fa ad Aparecida (Brasile) per tutto il Continente: il punto era rilevare le nuove sfide di un mondo che corre il pericolo di allontanarsi da Dio e di perdere la sua relazione vitale con la dimensione religiosa. Confermando così i Pastori, Benedetto XVI li invitati a edificare una Chiesa di comunione, dove tutti, sacerdoti, religiosi e laici hanno il loro posto, conformemente alla propria vocazione. Con la forza e l’umiltà che lo contraddistinguono, il Papa ha ampiamente dimostrato che la sua missione è quella di aiutare la Chiesa ad essere sacramento del Cristo risorto nella realtà umana, con la testimonianza della vera comunione.

A distanza di un mese, crede che il viaggio del Papa abbia aiutato il Messico a «non perdere la sua anima», come Lei si era augurato?
Mi ricordo del primo viaggio di Giovanni Paolo II in Francia e della sua famosa frase: «Francia, non dimenticare…». Lo stile di Benedetto XVI è senz’altro diverso. Però ha continuamente evocato le migliori tradizioni di questo popolo, perché si trovano nel cuore di una cultura alla quale hanno dato forza e valore ma che rischia di rovinarsi o anche di perdersi «se i cristiani non sanno resistere alla tentazione di una fede superficiale e abitudinaria». Il Papa è venuto a dire ai cristiani e ai loro Pastori che hanno l’enorme responsabilità di aiutare questa società a non perdere la sua anima.

Prima della visita, Lei aveva detto: «I messicani hanno la segreta speranza che si realizzi di nuovo il prodigio di un incontro che li aiuti a non perdere la speranza», come era stato con Giovanni Paolo II. È accaduto?
Credo il prodigio dell’incontro si sia realizzato. Il popolo messicano vive un periodo difficile, non solo per i problemi tanto evidenti della violenza e della povertà. Più profondamente si nota la grande preoccupazione di perdere i valori etici, che sono il suo patrimonio più prezioso. I genitori, i professori, i politici e anche noi sacerdoti siamo preoccupati perché è sempre più difficile trasmettere le tradizioni umane e cristiane di questo popolo alle nuove generazioni. C’è in atto una rottura nella trasmissione inter-generazionale dei valori. Già i Vescovi dell’America Latina cinque anni fa, nella Conferenza di Aparecida, avevano descritto questo fenomeno. Perciò l’avvenire appare indeterminato, anche perché quelli che finora erano considerati "maestri" oggi non sanno più come educare. Questa crisi di educazione genera una crisi di speranza. Proprio per questo tutti gli interventi del Papa hanno avuto come scopo il ridare la speranza. E mi sembra molto significativo che il primo discorso pubblico lo abbia rivolto ai bambini, cioè al nostro futuro, sapendo che rivolgendosi a loro parlava anche agli adulti.

Che cos’ha significato questa visita per Lei, personalmente?
In questi anni come Nunzio Apostolico in Messico, ho sperimentato varie volte che cosa significa l’incontro del popolo credente con il Pastore. Benedetto XVI non cessa di ripetere che la nostra fede non è in un’idea o in un’ideologia, ma in una Persona che incontriamo nella Chiesa e grazie alla Chiesa. A Guanajuato il Papa, essendo tale, non ha avuto difficoltà a convocare più di un milione di persone che volevano partecipare del mistero dell’esistenza di un Papa, cioè di un uomo scelto da Dio per dare alla Chiesa unità e fermezza.

Quale momento l’ha colpita di più?
Sono stati tanti gli incontri del viaggio, ognuno in sé bello nella sua unicità. Ho raccolto testimonianze come quella di una persona che ha ricevuto l’Eucaristia dal Santo Padre e che esprimeva la commozione per quell’avvenimento così importante per la sua vita. Ma mi piace soprattutto fissare l’attenzione sul volto di Benedetto XVI quando si è affacciato al terrazzino della casa del Conde Rul in Guanajuato: il suo sorriso splendido, con quello dei bambini che erano accanto a lui e dei tremila fanciulli che lo ascoltavano e salutavano festanti sull’antistante piazza della Pace, traduce la bellissima atmosfera che si era creata in quel momento. Le parole che il Pontefice ha pronunciato non hanno avuto niente di complicato. Hanno espresso una realtà semplice, ma essenziale, e cioè che i bambini sono importanti e perciò devono essere accolti, protetti, accompagnati e amati. Devono essere soprattutto educati. In quel momento, ho avuto la sensazione che il Papa con le sue parole metteva inquietudine nel cuore di tutti i sapienti del Messico, di quelli che praticano la violenza, l’ingiustizia, o che rendono i bambini vittime inermi della povertà, di una cattiva educazione e dello sfruttamento sessuale. Di fronte a queste situazioni create dalla pochezza umana, il Papa ha risposto con la bella frase rivolta non solamente ai suoi piccoli ascoltatori: «Ognuno di voi è un dono di Dio per il Messico e per il mondo».

Come ha vissuto il Santo Padre quei giorni?
Mi è sembrato molto contento, non solamente per l’accoglienza che gli è stata riservata, ma soprattutto per ciò che tale fervore rivela e che nondimeno lo ha condizionato nell’analizzare con sguardo lucido una situazione della quale conosce le ambiguità e le contraddizioni. Per esempio, in risposta all'Arcivescovo di León, José Guadalupe Martín Rábago, che nel suo saluto non ha esitato a parlare di una «realtà drammatica», «alimentata da radici perverse», dove «la povertà, la mancanza di opportunità, la corruzione, l'impunità, la crisi del sistema giudiziario e il cambio culturale portano alla convinzione che questa vita vale la pena di essere vissuta solo se permette di accumulare beni, senza tener conto delle sue conseguenze e del suo costo», il Papa ha toccato il nocciolo della realtà, insistendo sulla necessità di «avere un cuore nuovo» dove Cristo potrà abitare come principe della pace, grazie al potere di Dio che è la potenza del bene, la forza dell’amore. Molto concretamente, non ha esitato a lanciare l'invito a resistere alla tentazione di una «fede superficiale e abitudinaria», talvolta «frammentaria e incoerente», a «superare la fatica della fede e recuperare la gioia di essere cristiani». Queste parole sono forti, non hanno nulla di compiacente e vanno al cuore del rischio che affligge numerosissimi cristiani che purtroppo si accontentano di una fede sentimentale, che, come ha detto il Santo Padre nella conferenza stampa ai giornalisti durante il volo da Roma, ha assai poca incidenza nella vita di tutti i giorni. Per questo, ha riproposto l'intuizione dei Vescovi ad Aparecida, che invita i cristiani a vivere un vero incontro con il Signore per essere autentici discepoli e missionari.