La copertina del libro.

«L'uomo è la via della Chiesa»

Gli ultimi sei anni di pontificato di Giovanni Paolo II ripercorsi da George Weigel. Una revisione dei suo lungo periodo di lotta con il comunismo. «Ha operato perchè un popolo potesse essere libero»
Ubaldo Casotto

La fine e l’inizio - Giovanni Paolo II: la vittoria della libertà, gli ultimi anni e l’eredità è prosecuzione e completamento di Testimone della speranza, la biografia di Karol Wojtyla che l’americano George Weigel scrisse nel 1999. Frutto di lunghi colloqui con il pontefice, con il suo segretario Stanislaw Dziwisz e con molti testimoni e protagonisti, oltre che dell’accesso a nuovi documenti, questo secondo volume (edito da Cantagalli, 624 pagine, 29 euro) si occupa degli ultimi sei anni di pontificato e di vita del papa polacco e ne tenta un primo bilancio storico, anche se avverte che “la vera stima di un pontificato e dei suoi risultati si può fare solo dopo secoli”, ma proponendo un termine di paragone significativo che tradisce già la sua valutazione: «Anche alla morte di Pio V nel 1572, nessuno poteva sapere se i suoi sforzi per attuare il concilio di Trento sarebbero stati coronati da successo, così da essere ricordato come un grande pontefice riformatore e non come un altro sedicente riformatore destinato al fallimento. Per come andarono le cose, il suo lavoro lasciò un’impronta secolare nella Chiesa».

Alla biografia degli ultimi anni, Weigel ha voluto far precedere una ricostruzione aggiornata della lotta «durata 42 anni» di Wojtyla con il comunismo. Se ne era già occupato nel precedente volume, ma nel frattempo l’accesso a nuove fonti e soprattutto agli archivi dei servizi segreti dei paesi dell’Est ha rivelato quanto cruento e accanito sia stato il tentativo di quei regimi di sopprimere, o comunque di arginare l’effetto dell’elezione di Giovanni Paolo II al soglio di Pietro. Oltre alla mole impressionante di rapporti che Weigel cita, di manovre di discredito, di tentativi d’infiltrazione nelle istituzioni ecclesiastiche, di boicottaggio dei suoi viaggi, è molto interessante la prospettiva con la quale legge questa parte del pontificato: Giovanni Paolo II ha adottato come criterio generale non un “principio”, ma la sua esperienza di vescovo nella Polonia comunista.

Le sue diffidenze nei confronti della Ostpolitik (la linea diplomatica di “dialogo”della Santa Sede con i regimi dell’Est per garantire la sopravvivenza della Chiesa) nascono dal fatto che per Karol Wojtyla prima e per Giovanni Paolo II poi la sopravvivenza della Chiesa è garantita dalla sua vitalità, dal suo essere esperienza di popolo, dal suo saper difendere la dignità di ogni uomo. Giovanni Paolo II, che ben conosceva il comunismo, si è appropriato dei termini “libertà”, “liberazione”, “solidarietà”, “diritti umani” e li ha rovesciati, mostrando con la sua coraggiosa, intelligente e creativa presenza pubblica (il cardinale di New York John O’Connor si meravigliava della capacità di Giovanni Paolo II di trasudare “presenza”) che «l’uomo è la via della Chiesa» e che l’unico liberatore dell’uomo è Gesù Cristo.

In virtù di questa convinzione - maturata nella sua esperienza di sacerdote, educatore (il primo report preoccupato su Wojtyla dei servizi polacchi segnalava come pericolosa la sua attività con i giovani), professore e vescovo a Cracovia - non ha dichiarato guerra a un’ideologia, ma ha operato perché un popolo potesse essere libero, parlando alla sua anima, cioè al cuore di ciascuno. Uno degli episodi più belli raccontati nel libro di Weigel è la reazione di un minatore della Slesia durante l’omelia di Giovanni Paolo II a Czestochowa nel 1987: c’era più di un milione di persone, un suo vicino gli ha chiesto qualcosa, e lui, che era giunto a piedi perché il regime aveva cancellato i trasporti per impedire la partecipazione dei minatori, l’ha gelato: «Non chiacchierare quando il Papa sta parlando con me!». Le forze che cambiano il cuore dell’uomo sono le stesse che cambiano la storia.