Il filosofo messicano Rodrigo Guerra López.

«Una comunione che cambia la vita e la società»

Il filosofo Rodrigo Guerra è stato nominato membro del Pontificio Consiglio Justitia e Pax per la dottrina sociale della Chiesa. Un privilegio che ha dentro un compito: «Ricominciare da Cristo per guardare la realtà con una simpatia di fondo»
Luis Javier Rosales Camarillo

Papa Benedetto XVI ha di recente nominato alcuni nuovi membri del Pontificio Consiglio Justitia et Pax, dicastero vaticano incaricato di approfondire e promuovere la Dottrina sociale della Chiesa nel mondo intero. Tra i nomi, insieme a Michel Camdessus, già direttore del Fmi, il cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco-Frisinga, o il cardinale Oscar Rodriguez Madariaga, compare anche il filosofo Rodrigo Guerra López, direttore del Centro di Ricerca sociale avanzata (Cisav) di Queretaro (Messico) e membro della Pontificia Accademia Pro Vita.

Che cosa ha significato la chiamata del Papa al Pontificio Consiglio Justitia et Pax?
Mi sono chiesto: perché Benedetto XVI non chiama un altro? Conosco persone e istituzioni in Messico e in tutta l’America Latina che hanno una lunga tradizione nel campo della diffusione della Dottrina sociale della Chiesa. Grazie all’aiuto di alcuni amici, vedo che devo interpretare questa nomina come parte del dono che Dio ci offre per vivere un’adesione più radicale a Gesù nella persona del Santo Padre. In questo periodo in cui il sospetto e la sfiducia verso la carne concreta della Chiesa crescono sempre più, l’educazione che abbiamo ricevuto permette di guardare con un affetto particolare l’invito a seguire il Papa, in qualsiasi battaglia. La fedeltà al Vangelo è sempre sequela di uno, di una persona concreta che ci accompagna: il Papa, i Vescovi, don Julián Carrón.

In che modo il carisma di Cl ha arricchito la Chiesa?
La grazia che ho sperimentato nel 1989, quando ho incontrato il carisma di don Giussani nella città di Puebla, mi sorprese enormemente. Quello che accadde nella mia vita non fu l’immergermi in un gruppo ristretto o in una aristocrazia moralista più o meno devota, ma fu la scoperta di una modalità di vivere nel cuore del mondo, cioè nella Chiesa, intesa come permanenza della presenza sperimentabile di Gesù nella storia. Per questo, credo che il carisma di Cl non debba essere visto come l’aggiunta di un elemento estraneo che “arricchisce” la Chiesa; al contrario, è Gesù presente nella Chiesa che ha arricchito e dato piena consistenza alla vita e all’identità del movimento. Il carisma, almeno nella mia storia personale, è stato il modo con cui Dio mi ha aiutato a scoprire la ricchezza della Chiesa come comunione e non come organizzazione, strategia o progetto.

A livello personale e umano, quale è stato il contributo più importante derivatole dall’appartenenza a questo carisma?
Dopo molti anni, percepisco - non senza difficoltà - che prima di incontrare il carisma vivevo prigioniero di un’ideologia, che sostituiva senza che me ne rendessi conto l’esperienza della fede. Questo aveva delle conseguenze che mi hanno ferito intimamente, portandomi a ferire a mia volta gli altri con il mio moralismo. Grazie al dono che don Giussani ci ha fatto condividere, continuo a vedere il mio io ferito e affaticato, ma accompagnato da una speranza sempre nuova e purificante: Gesù è qui, la Sua tenerezza non viene meno. La sua pietà non mi abbandona malgrado la mia dimenticanza. Per questo, nel mio cuore c’è posto solo per gratitudine e speranza. Cl ha significato nella mia vita la possibilità che il mio limite e il mio tradimento non mi blocchino, ma che sia sempre possibile ricominciare. Il carisma ha riscattato la mia umanità, ha asciugato le mie lacrime e ha contribuito come nessun’altra cosa al mondo ad un lento processo di guarigione.

Come ti aiuta questo a stare saldo davanti allo stress, alle responsabilità, al lavoro e alla famiglia, senza che tutte queste cose diventino obiezioni?
Le obiezioni nascono davvero. Stanno ovunque. Molte volte ho trascurato la mia famiglia, e la mia assenza non è stata priva di conseguenze. Ma sicuramente, come ha ribadito di recente Carrón, Dio non permette che succeda nulla se non per una maturazione. E proprio in questo, possiamo verificare la maturità della nostra fede: “Le circostanze ci sono date perché maturi in noi la coscienza di qual è la nostra consistenza”, vale a dire perché scopriamo che siamo fatti per un Altro. Questo è così vero che perfino la nostra fragilità, il nostro peccato, sono trasformati da Dio in un’opportunità perché scopriamo la necessità di un’adesione incondizionata a Lui. Che grande mistero! E nello stesso tempo, quanta tenerezza c’è dentro questo gesto di pietà verso la nostra umanità piagata. Voglia Dio sostenere il mio povero “io” anche adesso, in questo nuovo servizio che il Santo Padre mi chiede.

Qual è la sfida posta ai cristiani dal vivere in un mondo secolarizzato?
La sfida per i cristiani in un mondo secolarizzato non può essere altra che ricominciare ogni momento da Cristo, per guardare la nostra realtà personale e culturale con una simpatia di fondo. Questo ci permette di superare la facile tentazione della condanna e di aprirci a un atteggiamento missionario, anche in circostanze ostili. La risposta alla sfida della secolarizzazione non è la costruzione di trincee o l’impegno nel “combattimento”, ma piuttosto l’adesione incondizionata all’Amicizia cui siamo stati affidati. Se la nostra adesione sarà adulta, allora la creatività culturale nascerà dalla gioia per aver incontrato la via che guarisce la nostra umanità ferita. E si manifesterà come impegno missionario.

Che importanza ha la dottrina sociale della Chiesa nel momento attuale, soprattutto nell’Anno della Fede?
Il mio maestro Rocco Buttiglione mi insegnò molti anni fa a intendere la dottrina sociale della Chiesa come la coscienza teorica di un movimento pratico. Questa prospettiva non è stata sempre accolta da alcuni “professionisti” della diffusione della dottrina sociale, che tendono a pensare che essa non sia che un puro insieme di “valori” o “principi etici” da applicare o, come diciamo in Messico, da “contestualizzare”. Ma il suo fondamento è l’invito a vivere l’esperienza della fede come movimento, vale a dire come soggetto comunionale nel quale accade qualcosa che cambia la vita. Questo riconoscimento ci permette di dare un giudizio su quello che accade e ci spinge a essere buona notizia davanti a tutti gli uomini del nostro tempo: quello che abbiamo incontrato in Gesù rinnova davvero tutte le cose, anche le più intricate nel contesto della complessa “questione sociale” che viviamo in America Latina e nel mondo intero. La nostra fede, allora, non è un’esperienza intimista e fuori del tempo, ma possiede una dimensione storica e culturale che ci spinge ad abbracciare tutto l’umano. Così la dottrina sociale della Chiesa, a mio parere, è una dimensione costitutiva dell’annuncio evangelico.