«Cosa mi aspetto dalla fede»

CHIESA - INTERVISTA
Davide Perillo

«L’uomo è colto nell’intelligenza quando è colto nel cuore». Dall’educazione di sua madre al rapporto con i non credenti, monsignor GERHARD LUDWIG MÜLLER, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ci guida nella sfida che la Chiesa vive quest’anno. A conclusione del Sinodo per la nuova evangelizzazione, un dialogo sull’unica strada che non riduce il desiderio

«Una novità di vita in grado di cambiarci nel profondo». Basterebbero queste dieci parole a capire che cosa c’è in gioco, che cosa Benedetto XVI ci sta chiamando a scoprire - o riscoprire - in questi mesi. E Gerhard Ludwig Müller, 64 anni, tedesco di Finthen (Magonza), da sei mesi a capo della Congregazione per la Dottrina della Fede (posto che fu a lungo proprio del connazionale Joseph Ratzinger) e quindi, in qualche modo, custode di questo patrimonio senza fine, la fede l’ha definita proprio così, pochi giorni fa, durante il Sinodo sulla nuova evangelizzazione: una novità di vita «piena e perenne». Qualcosa a cui possiamo attingere stando davanti a Chi «ha portato ogni novità nel mondo portando se stesso»: Cristo. Non una dottrina da reimparare, non una serie di conseguenze da trarre. Ma prima di tutto un fatto. Una Persona.
Monsignor Müller lo ribadisce in un dialogo che arriva proprio a ridosso del Sinodo. Presto per azzardare bilanci, definitivi, per capire come e dove i contenuti emersi in Aula - a cominciare dai contributi del Pontefice - potranno dare frutti. Ma un’occasione ottima per fare il punto sul lavoro che ci attende nei prossimi mesi. Magari partendo proprio dalla sua origine, dal punto di abbrivio.

Eccellenza, qual è stata secondo Lei l’urgenza che ha spinto il Papa a proclamare l’Anno della Fede?
L’urgenza fondamentale è quella indicata in apertura della Lettera apostolica Porta Fidei: invitare ciascun battezzato a riscoprire il cammino della fede per mostrare a tutti la bellezza dell’incontro con Cristo. Tra i cristiani, infatti, ai nostri giorni, l’attenzione sembra spesso spostarsi sulle conseguenze della fede, dando semplicemente per presupposta la sua esistenza. È su tale cuore, su tale origine della nostra fede, sulla Persona stessa di Gesù, che occorre invece tornare consapevolmente a volgersi. Lui stesso venne una volta interrogato sull’argomento da parte di chi lo stava ad ascoltare: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?». E la sua risposta fu: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato» (Gv 6, 28-29).

Una delle caratteristiche più evidenti dell’era moderna è la drammatica frattura tra credere e sapere: la fede è sentita come “inutile” o, spesso, legata alla sfera del sentimento e dell’ipoteticità, non della ragione e del vero. Perché? E come l’Anno della Fede può rispondere a questa sfida?
La fede è una fonte di conoscenza: attinge verità che la ragione sola non è in grado di raggiungere. Quanto più avviene l’incontro con Cristo, tanto più l’intelligenza e la volontà dell’uomo sono sollecitate ad accogliere con slancio e gratitudine i contenuti precisi della Rivelazione divina. Che è dono gratuito e profondamente corrispondente, aldilà di ogni prevedibile attesa, alle attese più profonde del cuore di ogni uomo. Se si riduce invece la fede a sentimento irrazionale, a qualcosa di privato che non riguarda per nulla la realtà da conoscere e da amare, quasi fosse volta a contenere le turbative di una psicologia messa a dura prova dalle complessità del vivere contemporaneo, allora ci si pregiudica a priori la possibilità di individuarne la vera natura e la sua straordinaria portata veritativa. Anche questa è una grande sfida con la quale l’Anno della Fede intende misurarsi.

Fëdor Dostoevskij si domandava: «Un uomo colto, un europeo dei nostri giorni, può credere, credere proprio, alla divinità del Figlio di Dio, Gesù Cristo?». Lei cosa risponderebbe?
L’uomo è colto nell’intelligenza quando è colto nel cuore. La semplice erudizione non basta. Potrebbe riempire di inopportuno orgoglio. Mia madre non ha frequentato l’università, era casalinga, e da profonda credente nella divinità di Gesù Cristo mi ha educato a “leggere dentro” la realtà, a verificare in modo profondo quanto lei stessa aveva ricevuto nel dono della fede che mi ha trasmesso. Altri incontri, anche intellettualmente importanti, sono poi seguiti nella mia vita. E sono sempre stato convinto che la fede cattolica corrisponda alle esigenze intellettuali più elevate e che non dobbiamo soffrire di alcun tipo di complesso. Ma è indispensabile domandare e ricercare un cuore semplice, umile, come diceva Gesù, senza il quale lo spirito umano non si apre alla realtà nella sua interezza, anche a quella rivelata da Dio, pretendendo di ridurla a una misura finita.

Ma come la fede risponde alle esigenze dell’uomo di oggi? Come capiamo se e in che misura è «pertinente alle sue esigenze», secondo una formula sintetica che usava don Giussani?
L’uomo di oggi, come quello di sempre, desidera essere felice. Pensare di ridurre la felicità a ciò che ciascuno in modo isolato, individualistico, soggettivo, estraneo e nemico verso i propri simili, ritiene essa sia, procacciandosi tutta una quantità di “cose” (o addirittura di persone) che dovrebbero garantirla, non porta molto lontano rispetto all’obiettivo atteso. L’esperienza e i dati lo attestano. La fede cristiana ha dal canto suo introdotto nel mondo, fin dall’inizio, fin da quando il Signore ha chiamato attorno a sé i suoi primi amici, la possibilità di una convivenza rinnovata, improntata a Lui come criterio vivente, in cui addirittura il perdono avrebbe potuto trovare l’indispensabile spazio. Nonostante la fragilità e le debolezze di noi cristiani, la Chiesa continua ad essere il luogo della contemporaneità di Cristo all’uomo di ogni tempo. In questo luogo obiettivo della Sua presenza, le esigenze vere dell’uomo di oggi, come è stato per quello di ieri e come sarà per quello di domani, vengono riconosciute e valorizzate.

Che impatto crede possa avere questa iniziativa sui non credenti? Qual è la “sfida” positiva che la Chiesa lancia al mondo in questo modo?
Se i credenti in Cristo si offriranno vicendevole testimonianza della verità della loro fede, che è fede nella verità di Cristo incontrato come pienezza della propria esistenza, allora anche i non credenti potranno forse rimanerne meravigliati. E proprio come accadde all’inizio del cristianesimo, potranno forse tornare a porre domande con libertà, con verità e desiderio buono di conoscere. Facendo per altro verso leva sull’integralità della natura umana attentamente considerata e sulle esigenze fondamentali di compimento che la connotano, a fronte degli insuperabili insuccessi che storicamente la qualificano, ogni uomo, anche non credente, potrà sinceramente aprirsi al pensiero e, chissà, come accadde a san Paolo di costatare nell’Areopago di Atene, all’attesa di un Dio ignoto. Come ha scritto Franz Kafka: «Anche se per me la salvezza non dovesse arrivare mai, voglio essere pronto in ogni istante ad accoglierla».

L’Anno della Fede è iniziato sulla scia del cinquantesimo anniversario del Concilio: come quest’occasione può aiutarci a rileggerne importanza e contenuti?
Il Concilio Vaticano II è stato l’avvenimento principale nella storia della Chiesa contemporanea. Come ha ben sintetizzato la Nota con indicazioni pastorali della Congregazione per la Dottrina della Fede del 6 gennaio 2012: «A partire dalla luce di Cristo che purifica, illumina e santifica nella celebrazione della sacra liturgia (cfr. Costituzione Sacrosanctum Concilium) e con la sua parola divina (cfr. Costituzione dogmatica Dei Verbum), il Concilio ha voluto approfondire l’intima natura della Chiesa (vedi la Costituzione dogmatica Lumen Gentium) e il suo rapporto con il mondo contemporaneo (la Gaudium et Spes). Attorno alle sue quattro Costituzioni, veri pilastri del Concilio, si raggruppano le Dichiarazioni e i Decreti, che affrontano alcune delle maggiori sfide del tempo». Papa Benedetto XVI ne ha offerta la chiave di lettura adeguata, quando ha respinto come erronea la cosiddetta “ermeneutica della discontinuità e della rottura” e ha promosso quella che lui stesso ha denominato «l’“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato», trattandosi di «un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino» (Discorso alla Curia Romana, 22 dicembre 2005). Occorre perciò superare qualsiasi scontro ideologico, da qualunque parte provenga, rinunciare a polemiche pretestuose dettate da ragioni circostanziali e immergersi all’unisono nella dottrina della Chiesa, che per l’assistenza dello Spirito Santo conserva integro nel tempo il patrimonio di fede ricevuto dalla Tradizione apostolica.

Che cosa si attende Lei, Eccellenza, da questo anno?
Mi attendo che la bellezza della fede in Cristo possa risplendere sul volto e nella vita di tante persone. Che possa contribuire a produrre frutti di testimonianza e conversione. Si tratta, in fondo, di una provvidenziale occasione offerta dalla Chiesa tutta alla libertà di ciascuno: accoglierla è indice di saggezza, perché Gesù ci si fa incontro oggi e non cessa di bussare alla porta. L’Anno della Fede è un aiuto perché ogni istante della vita sia quello del riconoscimento personale di Cristo.

Che cosa chiede a noi - il movimento -, in particolare?
La celebrazione eucaristica sia l’anima delle vostre giornate. L’ascolto della Parola di Dio le alimenti. Attraverso le forme più diverse della cultura, della carità e della missione, approfondite il dono ricevuto. E con tutti i vostri fratelli nella fede contribuite all’edificazione del Corpo di Cristo, perché il mondo veda e, vedendo l’opera buona della fede, creda.