Da sinistra il cardinale Jorge María Mejía,<br> Gianni Valente, Massimo Borghesi.

Il Concilio, semi che fioriscono dopo cinquant'anni

All'incontro dell'Associazione Rosmini, l'intervento del cardinale Jorge María Mejía, testimone diretto del Vaticano II. Che per il filosofo Massimo Borghesi fu un «evento». Perchè «chiuse le opposizioni tra Chiesa e mondo moderno»
Eugenio Andreatta

Il Concilio Vaticano II? Massimo Borghesi non ha dubbi. Una sola parola lo definisce adeguatamente: evento. Siamo a Padova, nella sala dello Studio teologico all’ombra della Basilica del Santo. All’incontro organizzato dall’Associazione culturale Rosmini e moderato dal vaticanista Gianni Valente, oltre al docente di Filosofia morale dell’Università di Perugia c’è anche il cardinale argentino Jorge María Mejía, 89 anni, testimone diretto. Al Concilio, infatti, fu perito per conto dell’episcopato argentino.

Ma perché un evento? «In passato i Concili erano sorti in presenza di gravi errori dottrinali da correggere», spiega Borghesi. «Con il Vaticano II si trattava piuttosto di chiudere un periodo storico di opposizione e contrasto tra Chiesa e mondo moderno e di affermare un cristianesimo che guarda alla storia in modo positivo, non per irenismo acritico, ma proprio perché confida in Dio». Un punto di svolta sulla modernità che si nota non tanto nella Gaudium et Spes sui rapporti tra Chiesa e mondo contemporaneo, ma in due testi per così dire minori che - a giudizio anche dello stesso Ratzinger - rappresentano i veri punti di svolta, la Dignitatis Humanae sulla libertà religiosa e la Nostra Aetate sui rapporti con le altre religioni, in particolare l’ebraismo.

A noi oggi risulta quasi impossibile capire perché parlare di temi quali la libertà religiosa era così delicato e scottante a quel tempo. «Ma dobbiamo considerare», spiega il filosofo, «che solo un secolo prima c’era stato il Sillabo, che aveva condannato la libertà di parola, di coscienza e di opinione». Di qui il tentativo che caratterizza tutta la prima metà del Novecento di costruire la cittadella della fede, la fortezza cristiana, sulla scorta dell’ideale medievale, ad esempio con la filosofia neoscolastica. Ma - come sempre - il Signore parla attraverso la storia. A sottolineare la libertà religiosa, ad esempio, furono anche i vescovi della Chiesa perseguitata dal comunismo sotto il dominio sovietico.

Commovente, annota Borghesi, il fatto che la Chiesa incontra il moderno e le sue esigenze di libertà ritornando alle radici, ai primi secoli, ai Padri, alla Chiesa dei martiri, «una Chiesa missionaria che esigeva la libertà di fede, perché la fede è un dono di grazia e perciò non può essere mai imposta». Di qui lo sguardo limpido e valorizzatore verso l’uomo contemporaneo, sguardo che peraltro non ha nulla a che fare con una conciliazione ideologica alla Hans Küng tra Chiesa e contemporaneità.

«C’è stato un Concilio», ribadisce da parte sua quasi lapalissianamente il cardinale Mejía. C’è stata cioè un’espressione al massimo livello dell’autorità magisteriale della Chiesa. Per questo il Papa nell’Anno della Fede invita a riprendere i testi conciliari e altri due documenti che di quell’assise sono frutto: il catechismo della Chiesa cattolica e il compendio della Dottrina sociale. E mentre racconta dei suoi incontri con l’ex compagno di studi Karol Wojtyla, con il primate di Polonia Stefan Wyszynski («i suoi interventi scuotevano i padri, erano seguiti nel silenzio commosso di tutti») e con nomi quali Congar, Laurentin, lo stesso Lefebvre («che aveva sottoscritto tutti i documenti conciliari»), racconta tanti momenti ed intuizioni di cui forse solo oggi si capisce la portata. Come quando il Concilio nella Nostra Aetate, per spiegare come i cristiani si rapportano alle altre religioni, parlava della «vocazione naturale religiosa dell’uomo»: il senso religioso. Semi buttati nel terreno. Oggi, cinquant’anni dopo, nell’Anno della Fede indetto da papa Benedetto, potrebbero fiorire.