«L'artista obbediente»
L'«Annunciazione di Cortona» arriva alla Galleria Borghese. Così comincia la lunga "staffetta" di artisti che sarà esposta a Roma in occasione dell'Anno della Fede. Nella prima opera della serie, impariamo ad approfondire il nostro sguardo...L’Anno della Fede comincia nel segno di Beato Angelico. La preziosa tavola con l’Annunciazione, custodita a Cortona, arriva a Roma, alla Galleria Borghese, come primo passo di un percorso messo a punto da don Franco Peretti, il sacerdote a cui è stato affidato il progetto.
Beato Angelico aveva una grande familiarità con il tema dell’Annunciazione, tanto che ne dipinse, tra opere certe e attribuite, ben 18 versioni. Quella di Cortona, insieme a quella che accoglie visitatori e pellegrini in cima alla scala nel Convento di San Marco (il convento domenicano dove Beato Angelico visse a partire dal 1440), è certamente la più famosa. Beato Angelico è il prototipo dell’artista obbediente. La sua poesia non consiste tanto nell’invenzione quanto nell’applicazione fedele di alcuni canoni e nella capacità di vivificare quei canoni con una densità di pensiero e di sentimento. Nel rappresentare l’Annunciazione, ad esempio, seguì i suggerimenti che gli venivano da un grande pensatore domenicano, che nel 1447 sarebbe diventato vescovo di Firenze e che aveva una sua cella proprio nel Convento di San Marco. Si chiamava Antonino Pierozzi, poi diventato sant’Antonino, e nei suoi testi aveva indagato nel mistero dell’Annunciazione ad esempio, spiegando come quell’aggettivo “turbata” riferito a Maria nel Vangelo di Luca fosse da intendere, e quindi da rappresentare, nella doppia accezione di “umiltà”, ma soprattutto di “ammirazione”.
In uno stupendo libro uscito qualche anno fa, un filosofo francese, Georges Didi-Huberman, ha scavato dentro questo rapporto tra il santo pensatore e il beato pittore, arrivando a comporre un quadro estremamente persuasivo. Narrare, ma razionalizzare: sono questi i criteri che il domenicano Vescovo indica all’Angelico. Che così ambienta le sue Annunciazioni preferibilmente sotto un portico, su cui si apre la porta della casa di Maria a Nazareth. Fuori c’è un giardino, l’hortus conclusus, prefigurazione del Paradiso, al cui confine si scorgono le figure di Adamo ed Eva, coloro da cui si originò la colpa, che con l’Annunciazione vede aprirsi una possibilità di riparazione. Ma nelle composizioni di Beato Angelico c’è un elemento chiave ricorrente, che giustifica anche l’ambientazione nel loggiato: ed è la colonna che si frappone in posizione centrale a dividere l’Angelo da Maria. Quella colonna bianca, verso cui si dirigono gli sguardi dei due protagonisti, è la «raffigurazione dell’infigurabile». Come scrive Didi-Hubermann, «la colonna non serve soltanto a reggere l’edificio della storia. Essa è un luogo emblematico del mistero. A Cortona essa cela nella sua bianchezza luminosa le parole “Fiat mihi secondum”, cioè le parole dell’istante stesso in cui, tra libero acconsentimento e profezia realizzata, il Verbo si incarnerà». La colonna, quindi, è da guardare come raffigurazione dissimulata della presenza reale di Cristo.
Da questa lettura, qui proposta in modo molto schematico, possiamo capire come il nostro sguardo sull’Annunciazione del Beato Angelico sia uno sguardo che per forza di cose resta sulla superficie, pur straordinariamente commovente dell’opera. Ma non è più in grado di “conoscere” quell’opera in senso pieno, come accadeva agli uomini di quel tempo, se non attraverso la mediazione di studi complessi come quello effettuato dal filosofo francese. È una consapevolezza realistica che dobbiamo avere e che spiega anche le parole che l’Annunciazione di Cortona dettò a Elsa Morante, una grande scrittrice che ammirava questo quadro come uno dei più bei quadri del mondo: «La povera mia (nostra) lingua materna è cresciuta nella fabbrica deformante delle città degradate, fra le lotte evasive dei meccanismi schiavistici, e le ripugnanti, continue tentazioni della bruttezza. (…) E forzata, fino dall’infanzia, a frequentare i gerghi obbligatori dell’irrealtà collettiva, s’è ridotta a riinventare un proprio lessico, scavandolo, magari, da qualche vocabolario esotico, indecifrabile per i suoi contemporanei: e rifornendo il proprio tesoro magari dai loro rifiuti, piuttosto che dalle loro botteghe. Come potrà, dunque, una nel mio-nostro stato, non dico capire, ma perdonare quella lingua beata e angelica?»