Aleksandr Archangel’skij.

«La speranza è nella vita viva»

Un approfondimento al viaggio nel rapporto tra cattolici e ortodossi raccontato sul numero di gennaio. Primo contributo, un'intervista ad Aleksandr Archangel’skij, giornalista e scrittore moscovita
Martino Cervo

Scrittore, conduttore tv, giornalista. Aleksandr Archangel’skij a Mosca è una figura nota, ha un programma di dibattito e approfondimento sul canale culturale. Ortodosso, laico, incontra Tracce nel centro di Mosca dopo una lezione sui media che tiene all’università, presso il dipartimento di studi economici. Il colloquio parte da una rapida analisi della situazione della Chiesa in Russia.

Qualche anno fa un giornalista italiano, Vittorio Messori, scrisse un importante libro-intervista con Joseph Ratzinger, allora cardinale, intitolato Rapporto sulla fede. Da dove partirebbe se dovesse scrivere un “rapporto sulla fede” dell’ortodossia russa?
Anzitutto dal punto di vista. Se guardiamo le città di provincia osserviamo una Chiesa viva, negli edifici e nelle persone. Si è ricominciato da tempo a respirare e vivere liberamente la fede: sono state restituite decine di migliaia di chiesa e altrettante ne sono state costruite, e ci sono migliaia di nuovi sacerdoti. A Mosca, invece, i grandi capi della Chiesa vivono in maniera piuttosto diversa, e si avvertono molto di più i condizionamenti della politica.

I moti di Mosca dello scorso inverno hanno creato difficoltà alla Chiesa da questo punto di vista?
In molti hanno giudicato la Chiesa piuttosto rigida e politicizzata. Di certo si è accentuata una divisione nell’opinione pubblica tra clericali e anti-clericali. Molti degli animatori dei movimenti di protesta ritengono che la Chiesa non possa farne parte, e tendono ad associarla alle istanze filogovernative. Chi appartiene alla Chiesa ma desidera un cambiamento, e per esempio mi riconosco in questa categoria, finisce per essere isolato da queste fazioni. Non aiuta il fatto che una nuova generazione di vescovi giovani, preparati, che spesso reggono piccole diocesi, sono tenuti piuttosto ai margini.

Questa situazione è una difficoltà nella fede?
No. Credo occorra saper leggere la propria situazione. Dal punto di vista della società so che la mia posizione è marginale. Ho i miei punti di vista, la mia responsabilità mi porta a evitare di schierarmi di qua o di là. Vede, io mi sono avvicinato alla Chiesa dopo il comunismo, prima ne ero ai margini. A quel tempo la Chiesa non poteva che farsi gli affari propri, con più prudenza e meno rigidità. I credenti subivano pressioni terribili, il che paradossalmente rendeva la situazione tragica ma più chiara. Oggi tutto è più confuso, ed è molto più difficile capire.

Che speranze ha per il suo Paese?
Se la Russia ha una chance, questa è legata al superamento del culto dello Stato. Purtroppo, tutto ciò che vedo va esattamente nella direzione opposta. La speranza è che la vita viva possa rafforzarsi più dell’ideologia. Spero che le persone agiscano mossi da questa possibilità, ma ho una grande paura della sclerotizzazione e del peggioramento di questo culto.

Non crede che le manifestazioni che si sono tenute a Mosca possano corroborare questa speranza?
Non penso che quelle manifestazioni possano portare a un cambiamento in modo diretto. Le vedo come una sorta di prove generali, per il momento la fase non è ancora matura per un vero mutamento. La società stessa è come immatura. La nostra situazione da questo punto di vista mi ricorda quella della Polonia negli anni ’70: i dissidenti erano grandi individui che poi sono stati capaci di fare rete e cambiare le cose. Vedremo se nel futuro potrà accadere qualcosa di simile.

In che modo vedete da qui l’Europa in crisi? Con che attenzione vi rivolgete all’Occidente rispetto agli anni del comunismo?
Ci sono varie cerchie. Le persone di successo, i veri ricchi, che vivono a Londra o a Berlino, e sono centinaia di migliaia di russi, vedono l’Europa senza illusioni, perché di fatto la abitano. Tantissimi invece non ci sono mai stati, e sono completamente indifferenti rispetto alle sue sorti. Più in generale, non ci sono sentimenti anti-europei, mentre sono ancora diffusi quelli anti-americani. Di certo nessuno, oggi, vede nell’Europa un modello da imitare o da ripetere. Piuttosto, di fronte ad alcuni misfatti di protagonisti della Chiesa russa, tanti vedono nella Chiesa cattolica un esempio positivo. Il fatto è che sotto il regime comunista la nostra Chiesa è stata schiacciata, ma questo ha costituito anche un alibi. Tant’è che dopo la caduta dell’Urss sono emerse le stesse pecche che prima erano come camuffate sotto altri, tragici problemi. Purtroppo è vero che molte chiese tendono a trasformarsi in politburo. E la gente spesso ricorre alla Chiesa per cercare protezione dalle paure sociali. Da questo punto di vista non sempre la costruzione di nuove chiese è necessariamente un passo avanti per la fede.

Lei è un personaggio pubblico e un credente. Queste derive non costituiscono un ostacolo alla sua appartenenza?
La Chiesa non è un partito. È un corpo mistico attorno cui si è costruita un'istituzione sociale. L’istituto ecclesiale è storico, dunque presenta problemi e dolori. Ma noi credenti siamo parte del corpo mistico, non solo dell’istituzione. Se qui Cristo vive, noi rimaniamo qui. Mi piace citare il vescovo Anthony Bloom, che alla domanda sul perché rimanesse nella Chiesa russa sotto il comunismo, rispondeva: «La Chiesa è madre. E proprio quando una madre è screditata, è il momento di stare con lei».

Cosa si aspetta dal rapporto con i cattolici in questa fase?
Un grande sacerdote russo, che nel XIX secolo tradusse i Vangeli dallo slavo al russo moderno, disse che un giorno saremmo stati costretti a dimenticare le nostre divisioni. Messa così, è una speranza volta in negativo. Io penso che, cadute tante barriere, gli scambi positivi diverranno sempre più intensi. Bisogna però stare alla larga da chiacchiere sul dialogo e l’ecumenismo astratti, e guardare le testimonianze delle persone vive e dei loro rapporti. La fede è sopravvissuta al XX secolo, e questo è un enorme ammonimento per l’uomo. Se penso a figure come padre Men, o don Giussani, vedo che la fede costruisce opere inimmaginabili. L’amore di Cristo è un tesoro che deve essere continuamente dato al mondo. È l’unica cosa che permette di restare uomini. Quel che mi aspetto è un’esperienza reciproca di amore.