Padre Piotr Eremeev.

«La testimonianza è il cammino verso l'unità»

Terzo approfondimento al viaggio nel rapporto tra cattolici e ortodossi del numero di gennaio. L'intervista a padre Piotr Eremeev, rettore dell'Università ortodossa di Mosca
Martino Cervo

Nessuno, vedendolo, direbbe che il rettore dell’Università ortodossa russa è lui. Padre Piotr Eremeev è un ragazzo di 38 anni che ne dimostra anche meno, avvolto nei paramenti dell’ortodossia, il volto affilato e la risposta rilassata ma molto pronta. Il Patriarca ha affidato a lui («Sono un esperimento», dice di sé ridendo) il compito di portare un ateneo di ispirazione religiosa (che si affianca così alla San Tychon) nel cuore di Mosca. Il nuovo edificio, tuttora in ristrutturazione, è esattamente di fronte al massiccio e lugubre palazzone della Lubjanka. Il colloquio con Tracce avviene a margine della terza e conclusiva giornata di convegno di Russia Cristiana a Mosca, che il sacerdote ha accettato di ospitare nell’università che dirige.

Padre, cosa l’ha portata, così giovane, a dirigere questa Università? Che responsabilità avverte?
Mi sono laureato in Teologia all’Accademia teologica di Mosca, dove ho insegnato. Poi ho diretto un seminario al confine con la Cina, quindi il Patriarca ha voluto impiegarmi in un campo per me nuovo: la formazione di laici, assegnandomi il compito di dirigere questa università.

Cos’è più complesso?
Si tratta di un paragone difficile: in un certo senso educare i sacerdoti è più semplice, perché si cura una “specializzazione” unica. Ci si accosta a persone meno differenti tra loro per scelta di vita e ci sono meno impegni amministrativi. Qui ho molti più compiti di diversa natura, e soprattutto ogni giovane è forgiato dal cammino verso la professione che desidera per sé. Un istituto come il nostro, dal momento che è aperto a tutti e rispecchia la forma della società russa, accoglie non solo ortodossi ma atei, musulmani, buddisti. Si è come buttati nella missione a un livello diverso, che richiede di coniugare una visione del mondo cristiana secondo le specificità che la preparazione accademica richiede.

Quali sono le priorità del suo progetto educativo?
Realizzare un progetto di integrazione, con un lavoro di unità tra credenti e non. La priorità per me è parlare del Vangelo in una lingua contemporanea e dentro le discipline che vengono insegnate. Uno dei retaggi dell’era comunista è la mancanza di un linguaggio adeguato, non soltanto al discorso religioso ma più in generale all’esercizio della libertà umana.

Da cosa si riparte per edificare questo tipo di educazione e questo tipo di linguaggio?
Dalla famiglia, che non a caso è stata la realtà più scientemente colpita nell’Unione sovietica. Per la coscienza ecclesiale la famiglia è una piccola Chiesa, dove si educa e si è educati, e ognuno ha un compito e un ruolo. Dio e la Chiesa sono padre e madre, i fedeli sono i figli. Con l’ideologia sovietica si è sferrato un colpo a questo equilibrio, per esempio distruggendo la dimensione del servizio all’interno della famiglia. La prima conseguenza di ciò è una violenza nella società, che della famiglia è conseguenza. Dunque la missione prioritaria è tentare di aiutare il rifiorire delle famiglie secondo questa coscienza senza la quale non può svilupparsi una vita sociale buona. Spesso la Chiesa ortodossa viene accusata di costruire troppe chiese che poi restano vuote. Di recente un nuovo Vescovo è andato in una chiesa appena edificata in una zona sostanzialmente atea. Dopo poco è diventata un punto vitale per tantissime persone. Quando gli hanno chiesto il “segreto” di questo successo il vescovo ha risposto così: «Non ho battezzato nessuno senza un lungo catechismo». Ecco, la radice è un problema di educazione, e di come le famiglie la intendono. E il cerchio si chiude.

Però questo periodo non è semplice per la vita della Chiesa in Russia, malgrado non sia paragonabile agli anni del comunismo. Di recente il Patriarca e le gerarchie sono stati duramente contestati.
La situazione per certi versi è come quella di Costantino il Grande: il cristianesimo non è religione ufficiale. Quindi appartenere alla nostra fede è una scelta di libertà. Un tempo la risposta più chiara di chi intendeva vivere la fede in società non cristiane era il monachesimo. Oggi nessuno va più nel deserto: la Chiesa può solo indicare cosa significhi il Vangelo, eppure per questo viene spesso accusata di ingerenza. Comunque è vero: è una fase di conflitto con buona parte della società. La prima causa è un malinteso per cui si vorrebbe stare nella Chiesa senza la verità e i riti della Chiesa. La seconda è che l’epoca sovietica ha instillato la convinzione che uno Stato laico sia uno Stato irreligioso. Così oggi in Russia sentiamo invocare la de-clericalizzazione della Chiesa e dello stesso Stato. Ma noi non siamo ministri di un governo! Anzi, evitiamo di parlare di politica proprio per evitare questo tipo di accuse.

Ma non crede che la Chiesa abbia colpe in questo conflitto, come l’ha chiamato?
Il peccato di Giuda non ha impedito l’evangelizzazione del mondo. E da allora il mondo e la Chiesa non sono migliorati moralmente: anche gli uomini della Chiesa peccano, e lo faranno sempre. E giustamente la gente ci guarda aspettandosi una responsabilità maggiore. Credo che questa fase, comunque, passerà.

Lei sostiene che le accuse di clericalizzazione rivolte alla Chiesa siano sbagliate. Ma non è possibile che allo Stato, più in generale al potere politico, convenga insistere su questo aspetto per avere nella Chiesa un alleato prezioso nel mantenimento di un equilibrio a esso favorevole?
Dico solo che questo non converrebbe a nessuno. A noi non converrebbe perché adesso siamo liberi. E al potere politico non converrebbe perché esistono molti gruppi religiosi, e atei: lo Stato deve garantire rappresentatività e rispetto a tutti. Infine, se ci fosse una vera e propria Chiesa di Stato credo che sarebbe pericoloso per la Russia: siamo troppo giovani per reggere un peso simile…

Sembra quasi un rimpianto. Ma ad esempio, il famigerato caso delle Pussy Riot non è stato un momento di convergenza tra le esigenze politiche e una certa chiusura da parte della Chiesa ortodossa? Lei ritiene giusta la condanna comminata alle giovani?
Non sono un giudice ma un prete, non ho elementi per valutare un processo. Mi limito a osservare che l’episodio della chiesa del Cristo Redentore è solo l’ultimo di una serie di sfide al buon senso e al decoro. Credo che la giustizia abbia proceduto senza criteri politici, stabilendo un limite alla violazione della libertà dei credenti in generale, non solo degli ortodossi.

Lei oggi ha ospitato un convegno promosso da un movimento culturale che fa del dialogo tra cattolici e ortodossi la propria missione. Perché?
Perché penso che la cosa più importante di questo cammino sia socializzare, rendere pubblici i momenti di unità della Chiesa universale. Poter incontrare qualcuno che dica parole cristiane. Sono molto interessato alla vita della Chiesa cattolica perché ha una grande esperienza nel creare espressioni non conflittuali rispetto alla società in cui è inserita. Da noi, per esempio, insiste una certa frattura tra Chiesa e scienza, e abbiamo molto da imparare dai cattolici. Per questo mi interessa molto anche cercare ogni forma di collaborazione in campo universitario. L’unica forma di unità è la testimonianza di Cristo. Possiamo renderla migliore se faremo questo cammino assieme.