Chissà perché

MISSIONE - CL NEL MONDO
Luca Fiore

Era il 1993, quando don Giussani lo mandò per la prima volta in giro per il mondo. Don AMBROGIO PISONI, visitor per Cl delle comunità dell’Oriente, racconta vent’anni di viaggi. «Ciò che opera Cristo è più potente di ogni condizione sociale, culturale e affettiva». E vive nell’incontro uno a uno. Per strade impensabili

«Me lo chiese come faceva lui. Con la sua semplicità spontanea. Come si domanda un bicchiere d’acqua. Mi disse: “Comincia a interessarti delle comunità all’estero”». Era il 1993 quando don Giussani mandò per la prima volta don Ambrogio Pisoni in giro per il mondo. Aveva 41 anni, e da allora non ha più smesso di viaggiare. Oggi, ufficialmente, è il visitor delle comunità dell’Asia, anche se il Cairo è in Africa e Sydney in Australia. Solo l’anno scorso è partito per diciassette “missioni”. Romania, Israele, Giordania, Libano, Emirati Arabi Uniti, Indonesia, Filippine, Malesia, Thailandia, Myanmar, Taiwan, Giappone... In vent’anni ha visto crescere molte persone, visto nascere nuove comunità, visitato città di cui non conosceva neppure l’esistenza.
«La richiesta di Giussani fu l’aprirsi di un nuovo orizzonte, imprevisto. A dominare fu la consapevolezza di non essere capace. Una vertigine. Fu un’impressione che mi sorprese all’inizio ed è una coscienza che, grazie a Dio, non mi ha ancora abbandonato». Ma in quel 1993 ci fu poco tempo per riflettere. Nel marzo era in Slovacchia per il ritiro della Fraternità, durante la Settimana Santa in Messico per gli Esercizi degli universitari, in giugno in Romania per un incontro di responsabili, ad agosto in Giappone a visitare il professor Shodo Habukawa al Monte Koya e la piccola comunità ad Hiroshima. L’anno successivo finì perfino in Finlandia e, per la prima volta, percepì tutta l’imponenza della sfida che aveva di fronte.

Alla fermata del bus. «Arrivammo a Helsinki con alcuni amici italiani che stavano a Göteborg, in Svezia. Era novembre, cielo grigio, nuvole basse, pioggia leggera. Freddo. Silenzio. Aspettavamo ad una fermata dell’autobus in mezzo a un gruppo di finlandesi. Il bus arrivò e io feci per salire. Ma non avevo i marchi per pagare il biglietto, così mi girai e chiesi all’amica che stava dietro di preparare i soldi. Lo feci con tono di voce normale. Ma dalla coda qualcuno fece: “Ssst...”. Come per zittirmi. Mi si gelò il sangue. Era come sentirsi dire: “Lasciaci in pace”». Era l’emergere di un clima culturale rigido, segnato da una parte dal socialismo di Stato e dall’altra dal luteranesimo. «Su quell’autobus capii la scommessa: come il cristianesimo, inteso come esperienza nel presente, può far breccia in un contesto in cui “tutto cospira a tacere di noi”?».
Se si rischia di scoraggiarsi in Finlandia, figuriamoci in Giappone, «il luogo dove impera la cultura, per certi versi, più impermeabile al cristianesimo». E invece, negli anni, a prevalere è lo stupore. «Mi sono accorto che la Chiesa, il movimento, sono davvero l’opera di un Altro. Ciò che opera Cristo è più potente di ogni condizione sociale, culturale, economica e affettiva. Gesù è in grado di “suscitare figli di Abramo perfino dalle pietre”. Già Francesco Saverio, nel XVI secolo, aveva chiaro che il Giappone esige che il metodo cristiano sia vissuto nella fedeltà struggente alla sua origine. L’incontro uno a uno. Persona per persona. Io vado a incontrare degli “io”, il cui cuore è stato fatto per l’incontro con Cristo. La circostanza storica dell’incontro, grazie al carisma, è per me il rinnovarsi dell’incontro, per l’altro una possibilità a cui può aderire. Poi ti commuovi quando vedi che i nostri amici giapponesi, senza che io abbia dato alcuna indicazione, iniziano ad andare a vendere Tracce o proporre le Tende di Natale. In Giappone! Il Paese in cui non esiste il concetto di “persona”».
Uno a uno. Come quella volta che don Giussani arrivò al Consiglio di Presidenza di Cl sventolando una lettera. La fece leggere. «Un amico raccontava che mentre era in vacanza in Myanmar, aveva incontrato un sacerdote locale che si era per caso imbattuto in un brano di un libro di Giussani. Era il racconto di quando si smarrì nel bosco di Tradate, vicino a Venegono. E si mise a gridare per chiedere aiuto. Il sacerdote birmano riconobbe in sé quello stesso grido. Il grido del cuore dell’uomo. La lettura non era ancora finita e Giussani alzò lo sguardo fissandomi. Mi fece l’occhiolino. Capii. Da allora chiamo padre John in Myanmar tutte le domeniche pomeriggio e, quando visito la Thailandia, approfitto per andarlo a trovare». Nessuno si era mai immaginato la possibilità che un prete nella foresta birmana potesse conoscere quel testo di don Giussani. E tanto meno che qualcuno di Cl passasse da quelle parti. Andò in maniera davvero strana. «Il ragazzo partì per una vacanza e la fidanzata gli disse di ricordarsi di andare a messa l’11 febbraio per l’anniversario della Fraternità. Lui poteva dimenticarsi. Ma chissà perché si ricordò. E poi: trovare una chiesa in Myanmar non è facile, anzi. La trovò, ma la messa quel giorno non c’era. Poteva rinunciare, ma chissà perché decise di andarla a cercare in quel santuario in mezzo alla foresta. Padre John si stupì che un turista cercasse una messa e... Quel chissà perché, in fondo, è la chiave d’interpretazione per capire perché la Chiesa è ancora presente nella storia».
Ma come si fa a capire la direzione, quando una comunità è un embrione, un grumo di una o due persone? «Quando andava dai primi amici in Spagna, don Giussani domandava loro solo una cosa: se erano contenti o no. Questa è la domanda giusta. Perché rispettare l’opera dello Spirito significa imparare a guardare le persone e guardare il passo che stanno facendo in quel momento. Per cui i gesti che facciamo, le cose che proponiamo devono essere proposte con la tenerezza di un padre verso i figli. È un’attenzione che non è mai scontata e che va sempre rinnovata. Perché è questo il modo in cui ciascuno può sentire la propria vita toccata dalla misericordia di Dio». Anche dentro i problemi, le infedeltà, gli errori. Non sempre tutto va come vorremmo. Nel bene e nel male. «Ma alla radice di tutto sta la certezza che quello che mi accade è ciò che mi corrisponde. Se io perdessi di vista questa esperienza che faccio, tutto diventerebbe assurdo. Senza senso. Come quando ti trovi a partire il giovedì mattina per l’Australia e devi rientrare il lunedì mattina. Passi più tempo in aereo che con gli amici della comunità. Invece ti accorgi che anche un gesto così è ragionevole se tu permetti che Cristo usi la tua carne per comunicarsi».

La visitazione. La propria carne. L’immagine che don Ambrogio usa per descrivere il ruolo del visitor è di quelle che era difficile immaginarsi: «La prima visitor è stata la Madonna che, incinta di Gesù, va a trovare la cugina Elisabetta. Gli uomini del tempo vedevano una donna che si metteva in viaggio portando dentro sé un bambino. In realtà, più profondamente, era Cristo che portava Maria al proprio incontro con Giovanni Battista. San Paolo dice: caritas Christi urget nos, è l’amore di Cristo che ci spinge. Per farsi conoscere Gesù usa noi, il nostro corpo».
È appena stato a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti. Per lui era la seconda volta. Ma la novità è la Nuova Zelanda. Il movimento è arrivato anche lì. Chissà perché.