C’era qualcuno in quella piazza che ci ha cambiati tutti

PRIMO PIANO
Alessandro Banfi

Il cielo sopra Roma è un cielo di maggio, profuma di rose fresche e di Maria. Ma «gli inizi sono sempre difficili», come è detto nel Midrash ebraico. E nell’iniziale scirocco grigio romano cade anche qualche goccia di pioggia su Piazza San Pietro. Come sarà questa volta incontrare il Papa per i tanti movimenti e le associazioni? Nella calca per entrare, sventolando il biglietto rosa viene da pensare: questa volta è diverso rispetto al 1998 e al 2006. Non solo perché è cambiato lui, il Vescovo di Roma. Ma siamo cambiati tutti. Il rischio del già conosciuto, del già visto e codificato, del non-più-così-nuovo è quasi naturale. Una sensazione, una sfumatura, appena accentuata. Sebbene provochi ancora un tuffo al cuore rivedere e risentire, nel ricordo televisivo proposto dai maxischermi, don Luigi Giussani che parla del mendicante «protagonista della storia» e che poi si inginocchia di fronte a Giovanni Paolo II. Ma sommerge tutto la sensazione di una piazza gremita che va intrattenuta, passiva, un po’ babelica, un po’ distratta. Nonostante gli sforzi di Lorena Bianchetti, che cammina sul Sagrato, avanti e indietro, quasi fosse su un palco. È forse questo il primo maggio dei Papaboys? C’è un pubblico e uno spettacolo cui assistere più o meno gasati? E di che tipo? «Un forte applauso...».
Questa volta è diverso, anche questa volta accadrà qualcosa ma ora nell’inizio sciroccoso quasi non sembra. Sì i canti, il Gen Verde nel centro del Sagrato, le testimonianze che cominciano ad affiorare attraverso i coniugi del Rinnovamento nello Spirito, ma la grande folla dentro l’abbraccio in travertino concepito da Gian Lorenzo Bernini è ancora una folla. Perché sono qui? Perché siamo qui? C’è qualcosa che già sappiamo, che già possediamo e che pure non ci soddisfa o forse non ci soddisfa proprio perché pensiamo di possederla. Ogni tanto un lampo, un’Ave Maria, il canto di Povera voce ci commuovono davvero... uniscono tutti. Infatti non è un problema di sigle, di bandierine. Ce ne sono tante oggi. L’elenco distribuito in sala stampa conta più di 150 nomi. Lo Spirito ha soffiato e generato nella Chiesa tante “realtà presenti”, appunto. Uno spettacolo, un dono, una Grazia. Questo è evidente. Devono andare però d’accordo, sintonizzarsi? Ma come? Stili, canti e lingue diversi, alla ricerca forse di una unità costruita organizzativa, ecclesiastica? Che cosa cercano, magari un compromesso, una leadership, un capo?

La jeep e il silenzio. Poi arriva papa Francesco. Irrompe nella Piazza e già le nuvole nel cielo di maggio si allontanano. Roma non tradisce, la fatica comincia a svanire, lo scirocco lascia il posto all’aria fresca del ponentino che fa correre la jeep bianca sul Sagrato. Un vento che sembra increspare le colonne di travertino, rendere leggero e significativo e davvero religioso il nostro stare qui. Questa volta è diverso. La Piazza di colpo avverte che qualcosa sta davvero succedendo e cala su di essa un nuovo clima. La distrazione e la leggera confusione che sembrava stordirci lascia spazio al silenzio. Un silenzio che è un dono. Francesco sembra voler abbracciare tutti, salutare ognuno, inforca la jeep come se fosse una moto e lui un corridore spericolato, tanto è la foga con cui si butta nella folla. Quindi prende la parola monsignor Rino Fisichella, presidente del Pontificio consiglio per la Nuova Evangelizzazione, che spiega al Papa ma anche a tutti noi, che cosa accomuna tutte queste realtà: «Dire all’uomo di oggi che non si può fare a meno di Cristo e di questo bisogna essere testimoni credibili». Poi Fisichella introduce la processione, composta da giovani, che porta l’immagine della Madonna, Salus populi romani, la salvezza del popolo di Roma. Com’è tenera e bella l’immagine di Santa Maria Maggiore! La Piazza non è già più gremita di folla, ma di tanti uomini e donne, bambini ed anziani, che risentono il fascino semplice della devozione popolare mariana. In questo luogo, in questa città, che è insieme anche tutto il mondo.
Sembra correre adesso la serata, verso il cielo nitido dietro al Cupolone. Parla John Waters, bellissima testimonianza di vita e di fede, e senza troppo soffermarsi sul ruolo storico ed ecclesiastico del movimento o dei movimenti. Questa volta è diverso. Come se fosse stato compiuto un passo, ormai. Parla il fratello del ministro pachistano ucciso brutalmente in un attentato a sfondo fondamentalista: «La sua grande fede ha superato le montagne di divisione tanto alte nel mio Paese».
E poi parla Francesco, dopo che gli sono state rivolte quattro belle domande. Parla nel discorso più lungo, finora, del suo Pontificato, un discorso strepitoso, a braccio. Il cui inizio riscatta tutto. Chiarisce a noi stessi ogni cosa. C’era Qualcuno in quella Piazza, in quella Roma di maggio, che ci stava aspettando. Qualcuno che ci vuole bene.

Una grande fortuna. «Noi diciamo che dobbiamo cercare Dio, andare da Lui a chiedere perdono, ma quando noi andiamo, Lui ci aspetta, Lui è prima! Noi, in spagnolo, abbiamo una parola che spiega bene questo: “Il Signore sempre ci primerea”, è primo, ci sta aspettando! E questa è proprio una grazia grande: trovare uno che ti sta aspettando». La paura, il dubbio è non credere fino in fondo che il Signore ci vuole bene. L’incontro. Ancora il Papa: «Il Signore ci aspetta. E quando noi Lo cerchiamo, troviamo questa realtà: che è Lui ad aspettarci per accoglierci, per darci il suo amore. E questo ti porta nel cuore uno stupore tale che non lo credi, e così va crescendo la fede! Con l’incontro con una persona, con l’incontro con il Signore. Qualcuno dirà: “No, io preferisco studiare la fede nei libri!”. È importante studiarla, ma, guarda, questo solo non basta! L’importante è l’incontro con Gesù, l’incontro con Lui, e questo ti dà la fede, perché è proprio Lui che te la dà!».
E poi quel meraviglioso accenno ai movimenti, per dire di aprire, di spalancare, di uscire. «In questo momento di crisi non possiamo preoccuparci soltanto di noi stessi, chiuderci nella solitudine, nello scoraggiamento, nel senso di impotenza di fronte ai problemi. Non chiudersi, per favore! Questo è un pericolo: ci chiudiamo nella parrocchia, con gli amici, nel movimento, con coloro con i quali pensiamo le stesse cose... ma sapete che cosa succede? Quando la Chiesa diventa chiusa, si ammala, si ammala. Pensate ad una stanza chiusa per un anno; quando tu vai, c’è odore di umidità, ci sono tante cose che non vanno. Una Chiesa chiusa è la stessa cosa: è una Chiesa ammalata. La Chiesa deve uscire da se stessa. Dove? Verso le periferie esistenziali, qualsiasi esse siano, ma uscire. Gesù ci dice: “Andate per tutto il mondo! Andate! Predicate! Date testimonianza del Vangelo!” (cfr. Mc 16,15). Ma che cosa succede se uno esce da se stesso? Può succedere quello che può capitare a tutti quelli che escono di casa e vanno per la strada: un incidente. Ma io vi dico: preferisco mille volte una Chiesa incidentata, incorsa in un incidente, che una Chiesa ammalata per chiusura! Uscite fuori, uscite!».
Uscite ad incontrare, rischiando, non avendo paura. Questa volta è stato, davvero, diverso: il pomeriggio del 18 maggio resterà come una grande metafora di quello che è accaduto e sta accadendo alla Chiesa, e anche al mondo. Un nuovo inizio, un’immensa Grazia, una grande fortuna innescata dal gesto di spoliazione di Benedetto XVI. Non più attardati su se stessi, non più auto-occupati, ma lanciati nel paragone con una nuova evangelizzazione. In un ritorno semplice a Gesù Cristo, Colui che ci aspetta sempre, che ci vuole bene, e che, mai come ora è chiaro, fa esistere e vivere la Sua Chiesa. Alla Maria tanto amata dal popolo romano. Alla gente. Perché tutti hanno bisogno di sapere che c’è Qualcuno che li aspetta.