«Così davanti a Francesco mi sono convertito»

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John Waters

Da quando ho cominciato a dire “sì” a don Giussani e a Comunione e Liberazione, la mia vita è divenuta diversa in molti aspetti che non cessano di rimanere misteriosi. Non si può dire che sia stato un percorso intellettuale, anche se certamente ha indirizzato il mio pensare in direzioni inaspettate. Il cambiamento è andato poco alla volta verso ciò che è chiaramente un coinvolgimento a tutto campo, che abbraccia ogni aspetto del mio vivere nella realtà.
Spesso, questo cambiamento sembra aver poco o niente a che fare con il mio sforzo personale. Il mio “sì” - o almeno la mia decisione di non dire “no” laddove non arrivo a dire “sì” - mi ha condotto verso ogni genere di nuovi orizzonti e avventure. A volte è qualcosa che toglie il respiro. A volte mi colpisce il fatto che, in altri periodi della mia vita, sarei rabbrividito di fronte alle sue conseguenze: trovarmi a dare pubblica testimonianza di una cosa così personale come la fede, con il rischio che ciò implica di non essere capito o di essere giudicato negativamente.
Ora che tutto ciò sta realmente accadendo, mi sembra proprio la cosa giusta. Ne vale la pena. E ancor più di questo, sembra che questa sia la mia vita in un modo al cui confronto ogni altro tipo di vita che avrei potuto immaginare non sarebbe neanche lontanamente paragonabile.
Ma alzarsi in Piazza San Pietro, rivolgermi al Papa e ad altre duecentomila persone è una cosa completamente diversa. Qualcosa al di là dei miei sogni più grandi. Eppure, è accaduta.
Due settimane fa, ero rimasto confuso ricevendo la telefonata di Mauro Biondi, responsabile di Cl in Irlanda, che mi chiedeva se ero disponibile ad andare a Roma il 18 maggio e dare una breve testimonianza “davanti al Papa” all’interno della veglia di Pentecoste dei movimenti. Mi diceva che il Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione era pronto a mandarmi l’invito.
A quanto avevo capito, era prevista la presenza di circa 70mila persone, che comprendeva membri di oltre cento diversi movimenti, grandi e piccoli. Il mio intervento doveva durare sette minuti, non uno di più né uno di meno.
Non avevo idea che esistessero così tanti nuovi movimenti ecclesiali; conoscevo, per esempio, i Focolari e Nuovi Orizzonti, e ovviamente Cl, ma nient’altro che il nome della Comunità dell’Emmanuele o del Cammino Neocatecumenale, per non dire degli altri cento.
Che responsabilità! Ma anche che gioia! Ho detto di sì, come faccio sempre con Mauro, che ho incontrato per la prima volta otto anni fa all’aeroporto di Dublino.
Avrei dovuto intervenire con il politico pakistano Paul Bhatti, già ministro per le minoranze di quel Paese, che avevo incontrato in gennaio al New York Encounter, dove lo avevo intervistato davanti a un pubblico di mille persone riguardo a come era cambiata la sua vita da quando faceva parte del Governo del Pakistan, dopo l’assassinio di suo fratello Shahbaz da parte degli islamisti nel 2011.
Una cosa mi preoccupava: non avevo ancora maturato un giudizio riguardo al mio rapporto con il nuovo Papa. Una volta questo sarebbe stato per me un ostacolo insuperabile, ma adesso ero giunto a vederlo semplicemente come un’altra parte del viaggio, e gli eventi che si stavano sviluppando come un nuovo genere di segni.

I primi timori. Anche se mi ero impegnato a rendergli omaggio e obbedienza, non ero sicuro su come rapportarmi con papa Francesco. Sapevo che era stato scelto dallo Spirito Santo per un compito, ma la mia sensazione di tristezza per la perdita di Benedetto XVI mi rimaneva dentro. Negli ultimi cinque anni, ho vissuto una sensazione crescente: sentivo avvicinarsi il momento in cui l’acutezza e la costanza di papa Ratzinger nel descrivere il mondo moderno avrebbe dato frutto in una maniera imprevedibile.
Voglio essere del tutto sincero: ero rimasto sconcertato dal fatto che il dibattito sul nuovo Papa nei media si riducesse a una discussione su delle “riforme” che per loro natura sembravano non cogliere l’urgenza del momento presente, e addirittura implicare delle mancanze da parte di papa Benedetto. I gesti del nuovo Papa erano riportati in un modo che sembrava portare con sé un’implicita critica del suo predecessore, sebbene le sue parole, prese in se stesse, dicessero il contrario. I primi gesti del nuovo Papa, riportati dai media come indicativi di un nuovo corso del Papato, sembravano implicare che Benedetto era stato meno simile a Cristo, perché, per esempio, portava le scarpe rosse o non prendeva l’autobus.
Mi preoccupava il fatto che i media - che sono perlopiù su posizioni ostili alla Chiesa - sembravano approvare un po’ troppo papa Francesco; mi sembrava che tutto ciò fosse accuratamente calcolato per mettere in difficoltà la Chiesa piuttosto che per guardare con simpatia il suo nuovo cammino.
Nello stesso tempo, avevo letto tutto quello che potevo sul cardinale Bergoglio, cercando di comprendere meglio la sua persona e la sua vita. Il risultato era che avevo cominciato a capire che tutti quei gesti avevano radici profonde nella sua esperienza e nella sua fede. Ma, nondimeno, non sapevo esattamente da dove cominciare per scrivere qualcosa di veritiero o utile su di lui. Questo è il mio primo tentativo in merito.
Sabato 18 maggio ho cominciato a vedere ogni cosa più chiaramente: la sua passione, la vivacità, la chiarezza, il suo modo di parlare a una folla di duecentomila persone come se parlasse a ciascuno singolarmente, il modo con cui fissava contenuti profondi in storie e immagini che ti colpiscono. Una cosa inaspettata mi ha toccato: la sua somiglianza con Benedetto XVI nel modo in cui concepisce Cristo e parla di lui. I due hanno diverse modalità espressive, ma stanno in una coerente continuità che può essere ricondotta a Giovanni Paolo II.
Giovanni Paolo II era capace di visioni complesse e profonde, ma in pubblico tendeva a parlare con semplicità, spesso senza compromessi. Benedetto, invece, parlava come pensava, con costruzioni evolute che erano il risultato di profonde riflessioni e ragionamenti, e affrontava temi complessi e contraddittori come una cosa naturale. In un certo senso, Francesco riesce a integrare l’approccio di entrambi i predecessori in un suo proprio stile, condensando grandi pensieri e concetti in storie e immagini semplici, che evocano vividamente l’esperienza della fatica dell’uomo, sempre ricordando ai suoi ascoltatori che quello che ci unisce tutti è la figura di Gesù.

Si gioca tutto. La prima cosa che ho percepito è stata la presenza fisica del Papa, che è molto più vivace e animata di quanto appaia in televisione. Dimostra dieci anni di meno dei suoi 76; i media lo hanno definito timido, ma non c’è nulla di timido in lui. Gioca tutta intera la sua personalità nelle sue parole e nell’incontro con quelli a cui si rivolge. Dato che il mio italiano non è così buono, ho guardato a lungo i suoi gesti e le sue espressioni, e ho visto che, se quando è rilassato il suo viso è quasi pallido, non appena comincia a interagire e a parlare si riempie di vita.
Mi ha colpito in particolare la sua fisicità, il modo in cui tutto il suo corpo appare implicato nella tensione all’atto del comunicare. Aveva preparato una traccia, ma l’ha seguita solo occasionalmente. Malgrado le lacune del mio italiano, c’era molto da imparare guardandolo e afferrando qua e là qualche frase sufficiente a seguire il filo del suo discorso. Leggendo più tardi la traduzione delle sue parole, sono stato conquistato dalla descrizione del sorgere della sua vocazione al sacerdozio, e della necessità per la Chiesa di uscire dalle sue stanze chiuse e di prendersi il rischio di incontrare tutta l’umanità.
La sua lucidità nel descrivere la situazione attuale della Chiesa mi ha colpito perché va oltre qualsiasi desiderio di una semplice difesa di ciò che ama. C’è anche un desiderio di parlare con verità e chiarezza. «Quando la Chiesa diventa chiusa», ha detto, «si ammala, si ammala!»

A colazione. Ha detto che noi cristiani dobbiamo «toccare la carne di Cristo, prendere su di noi questo dolore per i poveri. La povertà, per noi cristiani, non è una categoria sociologica o filosofica o culturale: è una categoria teologale», perché Cristo si è fatto povero per camminare con noi sulla strada, ha sofferto, è morto ed è risorto da morte per salvare l’umanità. «Noi non possiamo diventare cristiani inamidati, quei cristiani troppo educati, che parlano di cose teologiche mentre prendono il tè, tranquilli. No! Noi dobbiamo diventare cristiani coraggiosi e andare a cercare quelli che sono proprio la carne di Cristo, quelli che sono la carne di Cristo!».
Il Papa dà enfasi a frasi come queste, come per rompere quella che intuisce essere un’abitudine ad ascoltare concetti che sono stati usati per molto tempo in maniera formale. Papa Francesco vuole che comprendiamo che sa bene quello che dice.
In Piazza ci ha raccontato di quando confessava: «Ma, lei dà l’elemosina?». «Sì, padre!». «Ah, bene, bene. E mi dica, quando lei dà l’elemosina, guarda negli occhi quello o quella a cui dà l’elemosina?». «Ah, non so, non me ne sono accorto». «E quando lei dà l’elemosina, tocca la mano di quello al quale dà l’elemosina, o gli getta la moneta?». E ha aggiunto: «Questo è il problema: la carne di Cristo, toccare la carne di Cristo, prendere su di noi questo dolore per i poveri». Quello che penso di papa Francesco adesso, sulla scia del mio incontro con lui, è che è un uomo vero, che vuole rimanere in contatto con la realtà per quanto gli è possibile. Percepisco in lui un sentimento di stupore - per il fatto che è diventato Papa - ma anche una determinazione a lasciare un segno coerente con l’ispirazione che lo ha portato al sacerdozio sessant’anni fa.
L’ho incontrato anche in una forma più privata, brevemente, alla Domus Santa Marta nella quale ha scelto di vivere, almeno per il momento. È strano vederlo lì, per esempio nella sala da pranzo quando si scende per la colazione, questa imponente figura vestita di bianco che siede in mezzo agli altri, e chiacchiera con un cardinale o un sacerdote. Dopo colazione, il mattino della domenica successiva all’incontro, l’ho ringraziato e gli ho offerto il mio libro, Lapsed Agnostic (la versione estesa del mio intervento), anche se purtroppo credo che il suo inglese non sia migliore del mio italiano.
Questo Papa è destinato a diventare un incubo per il suo servizio di sicurezza, perché è determinato a portare la figura del Pontefice in mezzo alla gente, da dove era stata allontanata - per necessità - dopo l’attentato a Giovanni Paolo II nel 1981. È un Papa che si espone, ma sa bene quello che dice. Non vuole essere Papa per amore di prestigio o di potere. Ha replicato bonariamente all’usanza della folla in Piazza San Pietro di acclamare il suo nome: «Niente “Francesco”, ma “Gesù”!».

Cosa accadrà ora? Non mi pare che sia per una sua obiezione all’essere Papa, ma perché sembra credere che sia possibile essere Papa in una forma inattesa, una forma che è propria solo del momento attuale, e questa è la ragione per cui nessuno l’aveva pensata prima.
Noi tendiamo - non so se saggiamente o no - a guardare con scetticismo ai gesti, in particolare a quelli dei nostri leader. Ma i gesti che abbiamo visto fare a papa Francesco, ne sono convinto oggi, sono quelli di un uomo che vuole essere lui stesso annuncio, correndo il rischio che i suoi gesti siano accolti con scetticismo, se non addirittura con cinismo, ma consapevole che questo rischio è inevitabile se vuole dare una forma corretta al suo rapporto con coloro di cui è responsabile in Cristo.
In ogni caso, mi sono convertito! In un certo senso, era inevitabile. La lentezza nel capire dipendeva solo da me - una mancanza dovuta a un eccesso di diffidenza ispirata dall’influenza dei media. Papa Francesco, invece, era semplicemente se stesso. Per me l’incontro è stato un grande onore e una grande sorgente di eccitazione e gioia. Ma quello che mi è accaduto non è una cosa da considerare fine a se stessa, certamente non è per un autoriconoscimento compiaciuto. Mi appare piuttosto come un segno - un altro tassello di una storia non scritta da me, e nemmeno dalla mano di un uomo. Mi soffermo solo un attimo a immaginare che cosa accadrà adesso.