Padre Giuseppe Berton.

I ragazzi di padre Bepi

Si è spento all'età di ottantuno anni padre Giuseppe Berton, saveriano di origini venete, che ha dedicato la vita alla missione in Africa. Ecco come si raccontava in un'intervista a Tracce nel 1998
Alberto Savorana

Padre Giuseppe Berton era nato nel 1932 in provincia di Vicenza. Entrato nell’ordine dei saveriani, nel ’64 partì in missione per la Sierra Leone, dove una ventina d’anni dopo si stabilì definitivamente. Tra le opere nate grazie al suo lavoro, il Family Homes Movement, movimento di case famiglia che ospitano minori in difficoltà, e un centro di accoglienza a Lakka per il recupero di orfani ed ex-bambini soldato.

«Mi sono fatto Saveriano a San Pietro in Vincoli, dopo la terza liceo. E sono partito nel '56 per la Gran Bretagna: là dovevo studiare inglese per andare in Sierra Leone, dove sono stato nel '64-'65. Poi di nuovo in Scozia e di nuovo in Sierra Leone nel '72. Non mi sono più mosso da là».
Padre Giuseppe Berton (altrimenti noto come padre Bepi), classe 1932, primo di dieci figli - tre dei quali preti -, è in Italia per chiedere aiuto. Lo trova, tra gli altri, in Cl e nella Compagnia delle Opere che quest'anno ha inserito l'opera di padre Berton nelle "Tende di Natale" promosse dall'Avsi.
Di questo missionario dalla parlata schietta e diretta Tracce si è già occupato in passato (dicembre '94). A distanza di anni lo ritroviamo più deciso e convinto, con un impeto giovanile che lo lancia con speranza in ogni impresa. Eccolo raccontarci l'ultima avventura nella quale si è buttato.

Ci vuole descrivere come è nata l'opera in favore degli ex ragazzi soldato?
Alcuni anni fa fondammo il "Comitato per la protezione dei giovani". A me fu affidato il compito di mantenere i contatti con le autorità per ottenere i permessi necessari per recuperare ragazzi. Ho salito molte scale per chiedere di registrare i ragazzi. Quando c'è stato il colpo di Stato i militari avevano già rilasciato i cosiddetti "ragazzi-soldato" - giovani dai 17 anni in giù, la media era sui 13-14 anni. Invece i ribelli li avevano ancora tutti con sé e si trattava di poterli registrare - nome e cognome, famiglia di origine, luogo di provenienza, abitazione -, in modo da poterli localizzare, poter riallacciare il passato col presente. I bambini abbandonati venivano raccolti dai ribelli e inseriti in una famiglia nel campo. Diventavano così portatori di quel che razziavano nei villaggi o delle armi, esposti ai pericoli. Intorno ai dieci-undici anni imbracciavano il fucile, ogni adulto ne aveva attorno cinque-sei e li sguinzagliava intorno a sé per proteggersi dai nemici. Ricordo che in una sola volta ne ho portati via con me novantuno; nessuno era combattente, perché il capo dei ribelli era stato molto chiaro con me: «Quelli che sanno usare le armi non li tocchi». Così ho potuto prendere solo i bambini più piccoli. Li ho tenuti con me e poi li ho mandati in campagna presso famiglie che si erano rese disponibili ad accoglierli. In caso di pericolo bisognava spostarli rapidamente. Per questo avevamo acquistato tre camioncini, che erano sempre pronti a partire. Non abbiamo perso un solo piccolo durante i continui spostamenti.

In tutto questo lavoro chi l'aiuta?
Da quindici anni ho incominciato un Family Homes Movement - Movimento delle case-famiglia. Attualmente ci sono centicinquanta ragazzi accolti in famiglie a Freetown, a Bumbuna e nei villaggi della campagna. Ormai i primi bambini che vi erano entrati sono grandi e collaborano attivamente e con responsabilità alla nostra opera. Ecco chi mi aiuta. Certo, da soli non ce la faremmo; per questo abbiamo bisogno di aiuti internazionali, specialmente in questo momento. Dal punto di vista economico, infatti, il Paese non si muove, perché la gente ha paura a investire. Gli investimenti possono venire solo dall'estero. Di conseguenza, le stesse agenzie di aiuti internazionali sono restie a investire, perché non sono sicure degli esiti: può capitare, infatti, che i fondi permettano di costruire casette, che poi vengono distrutte da un passaggio dei ribelli. Ma noi non ci scoraggiamo e siamo pronti a ricostruire. Che cosa dovremmo fare di diverso?

Come mai si è fatto Saveriano?
Nell'ordine c'erano personalità attraenti: i Vanzin e i Bonardi. Mi affascinavano. Per loro l'essere missionari non aveva limiti geografici prestabiliti. E a me non era mai piaciuto chi limitava il suo raggio d'azione. L'orizzonte della missione, infatti, è il mondo. Volli seguire quelle figure umane e così mi sono ritrovato a studiare inglese per andare missionario in Africa.

I nostri lettori già la conoscono. Vuole, comunque, ricordare brevemente il suo arrivo in Sierra Leone e come poté rimanervi?
Appena giunto mi hanno messo a insegnare italiano, latino e storia inglese. Ma dissi subito a me stesso: «Per queste cose non ci sto». Dopo il primo anno il superiore generale, padre Castelli, mi disse che sarei tornato in Gran Bretagna. Feci un proposito: «Adesso mi do a costruire tante scuolette elementari nella parrocchia che chi verrà dopo di me maledirà me, mio padre, mia madre e i miei fratelli!». Venne un fratello Saveriano e la profezia non poté avere seguito! Il sabato e la domenica organizzavo il lavoro con la gente del posto. Tra l'altro, costruimmo una scuola così fuori mano che ci voleva un giorno per raggiungerla in canoa.

Come mai scelse di costruire proprio delle scuole e non dispensari, consultori, centri di accoglienza?
Si può fare di tutto, ma se la popolazione non sa leggere né scrivere, tutto il resto crolla. Attualmente l'analfabetismo in Sierra Leone raggiunge ancora l'85%; figuriamoci trent'anni fa! Ricordo che quando iniziammo un capo locale, musulmano, non ci voleva, ma poi è diventato un grande amico perché ha visto l'utilità per tutti di quello che facevamo e che non eravamo dei fondamentalisti religiosi. Ricordo che una volta un monsignore mi consigliò di non esporre per il momento i crocifissi in scuola, perché l'area era musulmana. Dissi: «Sono missionario e l'educazione non può escludere il resto». La gente capì.

Trovare un giovane missionario che parte per l'Africa e per prima cosa costruisce scuole è singolare.
Per il mio Vescovo la scuola era fondamentale ed egli aveva perfettamente ragione. D'altra parte, la popolazione rispondeva positivamente a questa iniziativa, tanto che adesso abbiamo laici coinvolti con noi. La scuola è un centro educativo e anche un luogo di neocatecumenato. Beninteso, i Saveriani hanno realizzato anche opere sanitarie in Sierra Leone: padre Serra ha iniziato la campagna contro la lebbra, debellandola, ha realizzato un programma nazionale di medicina preventiva e ha introdotto la Caritas, con aiuti alimentari dei Vescovi americani.

Adesso com'è la situazione?
Abbiamo un laicato che ha preso in mano quello che prima dovevamo condurre noi, insegnamento e direzione, un laicato che sempre più entra da protagonista nella società. E sono tutti ex alunni delle nostre scuole.

Chi ve l'ha fatto fare di andare al nord del Paese, non senza una buona dose di temerarietà, dove nessuno voleva recarsi per i pericoli incombenti?
Il Vangelo è temerario! Chi mi fa tornare, chi mi fa restare? Che cosa ho guadagnato? Tanta contentezza. Coinvolgendomi totalmente con la gente non ho avuto nessun dubbio che quello era il mio posto, non ho mai pensato di abbandonare.

Eppure altri se ne sono venuti via in questi ultimi anni
Era temerario restare là per gente che avesse solo funzioni amministrative. Ma quando hai un compito pastorale, non puoi abbandonare il tuo posto. Puoi lasciare un ufficio; una parrocchia no. Qualche missionario se n'è andato, ma alla prima possibilità è tornato. La situazione è ancora precaria in due aree, il Tonco Limba e nel Kono; là i ribelli sono attivi e proprio nel Tonco abbiamo dovuto abbandonare due villaggi perché rimanere avrebbe voluto dire essere, non evangelicamente, ma stupidamente temerari, perché non c'era più gente, tutti erano fuggiti. Ora un padre è potuto tornare in uno dei due posti. D'altra parte, i ribelli cercano gli stranieri per ragioni politiche: quando rapirono le suore lo fecero affinché le ambasciate, e quindi il mondo, si interessassero della loro situazione. E infatti, ottenuto lo scopo, le liberarono tutte, grazie alla mediazione di padre Montesi.

Quali sono i suoi rapporti con le autorità del Paese?
Deve sapere che per alcuni anni sono stato cappellano del carcere di Freetown. In prigione c'erano i militari che avevano tentato il colpo di Stato e che dovevano essere giudicati. Al colpo di Stato successivo sono diventati i quadri della nuova giunta di governo. Così ho avuto la fortuna di conoscere le autorità governative in prigione. Dicevo spesso, scherzando: «Sembra che tutti passino per il "collegio" prima di diventare qualcuno». E quando i militari usciti dal carcere mi incontravano per strada, mi salutavano con un: «Pademba, Pademba!» (che è il nome della prigione di Freetown): e io, prontamente: «Sss, dì "collegio, collegio", così noi ci intendiamo e la gente non capisce».

Qual è il rapporto con la realtà musulmana?
Amichevole. In Sierra Leone non c'è fondamentalismo islamico. Talvolta qualcuno viene dal di fuori, per esempio dall'Egitto, ma non riescono a creare un fronte fondamentalista, non attecchiscono. È il carattere dei sierraleonesi: da una stessa porta di casa possono uscire ed entrare persone che vanno alla chiesa cattolica, a quella protestante o alla moschea e sono fratelli. L'iman si è perfino congratulato con noi, perché - diceva -, meno male che vengono in chiesa, altrimenti questi pagani finirebbero chissà dove. Lui stesso è venuto al funerale di un amico.