La copertina di "Vita" di novembre.

L'abicì di Francesco

"Tutto" ricorre più di trecento volte. Il punto interrogativo oltre seicento. Dallo studio dei discorsi del Papa, si scopre che la venuta di Dio nella realtà «sommuove anche il linguaggio». Che apre all'altro come con un "buongiorno"
Giuseppe Frangi

Era stato chiaro sin dall’inizio: le parole non si dicono solo per dire. Le parole “agiscono”. Così in occasione della prima messa da Papa davanti ai cardinali, con la brevità che è nel suo stile, aveva indicato tre verbi: “camminare”, “edificare”, “confessare”. Le parole di Papa Francesco hanno questa caratteristica: fanno corpo con il personaggio. Dicono tanto, quasi tutto di lui. Ne scolpiscono la figura, agli occhi del mondo, non solo di chi crede. Anche la statistica lo conferma: abbiamo raccolto i discorsi pronunciati dal Papa sino al 10 ottobre, separandoli anche in diversi contenitori per tipologie – le udienze, gli Angelus, le prediche, i discorsi nei viaggi - e abbiamo iniziato ad azionare i contatori. Ogni volta ne emergeva una conferma coerente. Il Papa è quel che dice. Qualche risultato sintetico rende l’idea. “Gesù” a parte, il termine più ricorrente è “tutto - tutti”. Una frequenza che è impossibile non rimarcare: sulle 106mila parole pronunciate dal Papa a quella data, quindi esclusi i testi solo scritti come messaggi o l’Enciclica a quattro mani, sono 963 ricorrenze. Cioè una ogni 110 parole. “Tutto – tutti” più che una visione delle cose, è un presupposto di ogni altra parola, che sono quindi pronunciate davanti “ad” alcuni ma non sono certamente dette solo “per” alcuni. “Tutto – tutti” è l’ariete verbale che il Papa usa per abbattere i recinti, per aprire le porte, non solo figurativamente ma alla fine anche concretamente. Come ha sottolineato nel discorso durante la visita al Centro Astalli, gestito dai Gesuiti a Roma per accogliere i rifugiati: «Carissimi religiosi e religiose, i conventi vuoti non servono alla Chiesa per trasformarli in alberghi e guadagnare i soldi. I conventi vuoti non sono nostri, sono per la carne di Cristo che sono i rifugiati».
Anche nelle omelie di Santa Marta la frequenza di “tutto - tutti” è confermata: 316 ricorrenze. In questo caso c’è da precisare che i testi vengono resi noti solo per stralci e per sintesi: perciò i conteggi relative ai “mattutini” li abbiamo indicati a parte.

Punti di domande
I segni d’interpunzione non sono parole, ma la frequenza a mitraglia dei punti di domanda, li fa diventare dei significanti pregni di significato, né più né meno di una parola. Francesco procede sempre per domande. Incalza con domande, se stesso e chi lo ascolta. È un artificio retorico per scandire meglio il suo discorso, renderlo più facile alla memoria di chi ascolta. I punti interrogativi sono 614, prediche di Santa Marta escluse.
La domanda è sempre un invito a mollare le sicurezze acquisite e ad andare in campo aperto. In sostanza la domanda non prepara una risposta ma un percorso. Papa Francesco è infatti il papa dei verbi di moto a luogo. “Camminare” è stato il primo verbo messo in testa all’omelia di esordio da pontefice, quella del 14 marzo davanti ai cardinali. “Camminare”, “andare” hanno una frequenza di ricorrenze altissima (rispettivamente 217 e 252), in particolare nei discorsi delle udienze, quando il Papa fa catechesi: quindi sono verbi che diventano una chiave di lettura dei testi biblici. Il cristianesimo di Papa Francesco è essenzialmente un camminare, un andare. È, come detto, un moto a luogo. È lui stesso a rivelare di avere particolarmente caro questo pensiero di san Tommaso: «È come andare verso quell’orizzonte, che non finisce mai perché è sempre un orizzonte». A ruota ci sono i verbi che sono conseguenza logica di quei primi due: “uscire”, “seguire”. L’"andare" di Papa Francesco non è un percorso interiore, ma è un “andare” concreto, in particolare verso quelle zone del vivere che sono rimaste ai margini, le “periferie dell’esistenza”, gli “scarti” altre parole che vengono usate con un’incisività che richiama la carne di chi le ha subite.

Le parole nemiche
Indipendentemente dalle frequenze ci sono anche le parole precisamente indicate come parole-no. Ne selezioniamo quattro: “proselitismo”, “conquista”, “chiacchiere”, “lamento”. Le ultime due, per quanto poco usuali nel lessico dei pontefici, hanno anche un’incidenza statistica significativa. Le prime due invece sono messe ai margini del suo parlare, e quando ricorrono sono esplicitamente messe nel mirino. “Conquistare” viene demolita a Santa Marta, il 19 aprile: «Questa parola “conquistare” non va. Il cristiano non deve essere come un soldato… a volte facciamo confusione e pensiamo alla “salus idearum” e non alla “salus animarum”, alla salute delle idee e non alla salute delle anime». “Proselitismo”, già liquidato nell’intervista a Scalfari (“una solenne sciocchezza”) è ribadito nell’Angelus del 21 ottobre: «Il metodo della missione cristiana non è il proselitismo, ma quello della fiamma condivisa che riscalda l’anima». E il 1 ottobre a Santa Marta aveva fatto sponda con il pensiero chiaro di papa Ratzinger: «La Chiesa - ci diceva Benedetto XVI – non cresce per proselitismo, cresce per attrazione, per testimonianza».
Su “chiacchiere” e “lamentela” invece il Papa ritorna molto spesso, nella sua offensiva contro il “cattivo parlare”. Quindi la frequenza delle ricorrenze, in questo caso, è del tutto insolita (rispettivamente 42 e 37). Un’offensiva senza sconti, tra le più emblematiche del suo parlare, che tocca tutti i campi del vivere, dai vertici della Chiesa all’ambito domestico. Sintomo di cattiveria: «La chiacchiera è uno “spellare” l’altro»; addirittura di sadismo: «non so perché c’è una gioia oscura nella chiacchiera»; sintomo anche di tradimento: «facendo di una persona un oggetto di chiacchiericcio, la si tratta come una mercanzia, viene venduto al mercato del pettegolezzo. Era accaduto anche a Gesù» (Santa Marta, 3 aprile). La “chiacchiera” è nemica della virtù più bella della comunità la “mitezza” (altra preziosa notazione linguistica di Francesco), perché agisce sottobanco. Mina le relazioni, parlando non al diretto interessato, ma «a tutto il quartiere». È il vizio di immischiarsi nelle vite degli altri.
E poi c’è la “lamentela”, quel virus che attacca anche i migliori. Gli stessi discepoli ci cadevano continuamente. Ma la “lamentela” è come una palude, che irretisce i cuori. Lasciando libero corso alla lamentela, che è «dea dell’inganno», si vive come «in una veglia funebre» (ai giovani di Cagliari, 22 settembre). C’è una sola situazione in cui lamentarsi non è un azione vana: è quando ci si lamenta davanti a Dio, come avevano fatto Tobia e Sara. Lamentarsi di condizioni troppo drammatiche è un fatto umano, è addirittura una preghiera. Ma quei lamenti cercano anche risposte sul piano concreto, «devono entrare nel mio cuore, devono essere un’inquietudine per me» (Santa Marta, 5 giugno).
Il cattivo parlare poi è un mezzo con cui il potere fa ricorso, «perché la sua arma è la lingua dell’ipocrisia». Per questo Francesco spinge tanto su lealtà e trasparenza: «Il vostro parlare sia sì sì no no, con animo di bambino, il contrario di quello dei corrotti».

Non c’è “no” senza “sì”
I “sì” prevalgono sui “no” nei testi di Francesco. Ma senza nessun semplicismo. Il Papa dice che oggi la Chiesa spesso si divide tra due atteggiamenti che vanno superati: quella del «no, non si può» e «quella del sì, ma…». La prima è la Chiesa dei doveri, del «si deve, si deve, si deve» e che quindi impone un giogo che nessuno nella realtà è in grado di portare. Quella del “sì” invece evita il “giogo”, gira alla larga. «È questa la parola chiave: il giogo», dice il Papa il 2 maggio a Santa Marta. Capire che il Signore è un “giogo” leggero, perché consiste nello stare nell’amore che Lui ha per gli uomini. Qui Francesco chiude la sua parabola linguistica attorno al “sì” e al “no”: «La comunità cristiana del “sì”: come conseguenza di questo amore, compie i comandamenti e dice dei “no”». Ma si tratta di “no” che discendono dal primo “sì”.

La disciplina all’ultima casella
Non ci sono parole di tenore disciplinare nell’abicì di Francesco. “Castigo”, mai pronunciata. “Punizione” idem. “Disciplina”, sostanzialmente inesistente. “Obbedienza” compare qua e là ma con estrema discrezione. E una volta ne rovescia la valenza più diffusa: «Obbedire viene dal latino, e significa ascoltare l’altro. Obbedire a Dio è ascoltare Dio, avere il cuore aperto per andare sulla strada che Dio ci indica» (11 aprile). Compare la parola “giudizio”, ma con connotazione opposta a come ci immagineremmo da chi è capo della Chiesa: la richiama per arginarne la valenza prevaricante sugli altri uomini. «Chi sono io per giudicare?», dice di se stesso, per non tirarsi fuori. E un’altra volta: «Chiediamo la grazia di non giudicare nessuno». E ancora più radicale: «Quando giudichiamo i nostri fratelli siamo dei cristiani omicidi» (Santa Marta, maggio 2013). All’opposto, il linguaggio di Francesco è un linguaggio che “incontra” (168 occorrenze), che cerca sempre il rapporto con gli “altri” (ben 315 occorrenze), che “apre” (116 occorrenze). E rivela di avere un riferimento preciso in questo suo così chiaro orientamento lessicale: «La musica delle parole di Gesù, che parla come un amico» (26 aprile).

Il dentro e il fuori
La schiettezza è un altro segno distintivo del linguaggio di Francesco. Parla sempre in faccia a chi lo ascolta. È un modo efficace per togliere ogni spazio agli esercizi interpretativi. Il tema delle comunità “chiuse” ad esempio è un tema sul quale insiste senza nessuna sfumatura. Nelle comunità chiuse la difesa della verità si trasforma in calunnia, «nel cercare la sicurezza patteggiando con il potere». Con una sottolineatura linguistica precisa Francesco oppone il “dentro” al “fuori”: «Distruggono l’altro e guardano dentro, sempre dentro, coperte col muro». «Chi non esce da sé, invece di essere mediatore, diventa a poco a poco un intermediario, un gestore» (ai sacerdoti romani, 27 marzo). Invece, «il bene non si corica dentro», si diffonde sempre fuori di sé» (27 aprile). Perciò, bisogna chiedere la grazia di rimanere umili: «E così non diventeremo chiusi, che chiudono la strada al Signore» (17 ottobre).
Nonostante le apparenze, non ci sono ingenuità nel linguaggio di Francesco, perché è ben consapevole anche delle insidie connesse con il parlare: ricorda di come i farisei tendessero insidie a Gesù per «sorprenderlo in qualche parola uscita dalla sua bocca». Per questo gioca sempre a carte scoperte, ricorrendo alla concretezza dei sensi più che all’astrazione dei concetti. Nel suo parlare c’è molto “toccare” (da sottolineare ad esempio la ricorrenza della parola “carezza”, richiamata 42 volte). Era rimbalzato su tutti i media l’aneddoto raccontato alla veglia di Pentecoste, relativo ad una raccomandazione fatta durante una confessione: «Quando lei dà l’elemosina, lei guarda gli occhi di quella o di quello cui dà le elemosina? E lei tocca la loro mano o butta la moneta e fa così... Quello è il problema: toccare la carne di Cristo. La povertà non è una categoria culturale». C’è molto “vedere” (107) , “guardare” (280) , “ascoltare” (185) , “sentire” (177). E c’è persino grande spazio per l’olfatto. Straordinaria ad esempio l’omelia al clero di Roma del 27 marzo, in cui Francesco usa proprio la leva del profumo-odore. «L’unzione, cari fratelli, non è per profumare noi stessi e tanto meno perché la conserviamo in un’ampolla... Quando la nostra gente viene unta con olio di gioia lo si nota: per esempio, quando esce dalla Messa con il volto di chi ha ricevuto una buona notizia». E poi l’imprevedibile augurio finale «questo io vi chiedo: siate pastori con l’ “odore delle pecore”, che si senta quello».
E c’è anche spazio per il quinto senso, il gusto. Lo slogan della Giornata mondiale della Gioventù a Rio, “Metti fede”, diventa per Francesco uno spunto per forzare sul senso molto materiale del verbo “mettere”. Spiega: «Mettere, cioé collocare, versare... Quando si prepara un buon piatto e vedi che manca il sale tu “metti” il sale; manca l’olio, e allora metti l’olio». Sono gesti che cambiano il sapore. Non diversamente può essere per la fede: «“Metti fede” e la vita avrà un sapore nuovo». Il gusto, come antidoto alle fughe nello spiritualismo, torna in un esempio fatto alle Clarisse durante il viaggio ad Assisi: «Quando sono troppo spirituali io penso sempre a Santa Teresa: quando a lei veniva una suora con queste cose nella testa… diceva alla cuoca “dalle una bistecca!”». La concretezza delle metafore in Francesco è sempre funzionale a non lasciare nessun dubbio alla concretezza della fede.

Creare le parole
A papa Francesco ogni tanto le parole del vocabolario non bastano. Perché quelle a disposizione non rendono a sufficienza la pregnanza della realtà. Di qui la sua tendenza a creare neologismi. Nell’intervista ad Antonio Spadaro, riferendosi al proprio motto “Miserando atque eligendo” (sintesi di quello che lui pensa di se stesso: “Sono un peccatore al quale il Signore ha guardato”), ha spiegato come andrebbe tradotto: «Il gerundio latino miserando mi sembra intraducibile sia in italiano che in spagnolo. A me piace tradurlo con un altro gerundio che non esiste: misericordiando». Un gerundio che secondo lui è necessario per descrivere quello sguardo del Signore (uno sguardo in azione).
Più avanti nella stessa intervista scova un neologismo ancora più bello. Dice: «E la preghiera è sempre per me una preghiera “memoriosa”, piena di memoria» (anche quando per stanchezza gli capita di addormentarsi). È un neologismo che dice bene di che pasta sia fatta la preghiera: memoria di una storia, di benefici avuti, ma soprattutto del fatto che «io posso dimenticarmi del Signore, ma so che lui non si dimentica mai di me. Ma soprattutto so che il Signore ha memoria di me». Parlando ai ginecologi cattolici, il 20 settembre, non ha coniato un vero neologismo ma ha fatto ricorso ad una straordinaria definizione caduta in disuso: «Un tempo, alle donne che aiutavano nel parto le chiamavamo “comadre”’: è come una madre con l’altra, con la vera madre, no? Anche voi siete “comadri” e “compadri”».
Ma poi il Papa non ha preoccupazione a definire la profezia come una cosa che fa «rumore, chiasso, qualcuno dice “casino”». «Fate casino» aveva raccomandato ai giovani a Rio. Mentre per rendere meglio il fatto che Dio viene prima, anticipa ogni azione umana, fa ricorso sempre al verbo spagnolo, che ha una forza quasi onomatopeica: “primerea”.
Il neologismo è sintomo di due cose. Primo, che per lui la creatività è una componente trascinante nell’azione missionaria. Secondo, che l’affacciarsi di Dio nella realtà segue modalità che a volte non hanno un riscontro in parole adeguate. È un sommovimento che sommuovendo la vita finisce per forza con il sommuovere anche la lingua.
Il che non preclude l’orizzonte della normalità: ogni suo Angelus domenicale si conclude con l’augurio di “buon pranzo”. Augurio non banale, perché dietro la parola si scorge il desiderio di essere anche lui ad ognuna di quelle tavole. «Avrei voluto bussare a ogni porta, dire “buongiorno”, chiedere un bicchiere di acqua fresca, prendere un “cafezinho”», aveva detto nella favela di Varginha il 25 luglio. «Papa Checco sali a prendere 1 caffé da noi», stava scritto su uno striscione durante la visita cagliaritana. Le parole di Francesco sono parole che aprono. E non solo un dire.