L’esperienza secondo Francesco

PRIMO PIANO - PADRE SPADARO
Davide Perillo

L’imparare da quanto gli accade. La testimonianza personale. La preghiera «memoriosa». Padre Antonio Spadaro, l’autore della famosa intervista al Papa, spiega perché per il Pontefice la fede trova una continua conferma (e svela la sua forza) nella realtà. E nella nostra capacità di «discernere»

«La riflessione per noi deve sempre partire dall’esperienza». La frase è lì, a pagina 118. L’avevamo già letta, nella famosa intervista a La Civiltà Cattolica. Ma ora che quel testo torna in circolazione sotto forma di libro (La mia porta è sempre aperta, Rizzoli, 162 pagine, 12 euro), con un apparato che ne approfondisce contesto e background, riprenderla assieme a padre Antonio Spadaro, 47 anni, direttore della rivista della Compagnia di Gesù, esperto di web e di letteratura e «secondo gesuita più famoso al mondo», come lo hanno ribattezzato dopo lo scoop di quel dialogo svolto in tre tappe e pubblicato in contemporanea in tutto il mondo, diventa l’occasione per approfondire questo tema. Fondamentale, per seguire il Papa. E per leggere anche l’Evangelii Gaudium, per rendersi conto del perché «non si può perseverare in un’evangelizzazione piena di fervore se non si resta convinti, in virtù della propria esperienza, che non è la stessa cosa aver conosciuto Gesù o non conoscerlo» (266). «In virtù della propria esperienza». La fede può trovare conferma solo lì, nella realtà. È soltanto giudicando fino in fondo quello che ci succede, paragonandolo ai nostri bisogni, alle nostre esigenze più vere che possiamo accorgerci della diversità radicale che Cristo porta nella vita.

Ma perché è così decisiva l’esperienza nel Papa? E in cosa consiste per lui?
Papa Francesco non è una persona che ama mettere in primo piano il concetto. Non parte da idee chiare e distinte per poi applicarle: parte sempre dal contatto con chi ha davanti, persone o gruppi. Da un lato è una categoria radicata nella sua spiritualità, nella formazione gesuitica: per la pedagogia di sant’Ignazio, il punto di partenza e di lavoro è sempre il contesto e l’esperienza. Lo ha detto chiaramente nella Evangelii Gaudium, ma lo aveva ribadito anche in passato: la realtà «è», mentre l’idea è frutto di una elaborazione che può sempre rischiare di cadere nel sofisma distaccandosi dal reale, fino a rischiare persino il totalitarismo, se l’idea vuole imporsi sulla realtà. Per il Papa la realtà è sempre superiore all’idea. È uno dei suoi quattro principi fondamentali di lettura della realtà. Dunque se una riflessione può essere fatta, è solo alla luce dell’esperienza. E soltanto dopo questa riflessione viene la valutazione per rilanciare l’azione. Dall’altro, per il Papa conta molto la sua esperienza pastorale. Sono i volti concreti delle persone incontrate che lo hanno, in un certo senso, convertito all’esperienza. Durante il suo lavoro a Buenos Aires, per esempio, ha maturato tantissimo l’importanza di questo contatto diretto con la gente. Non è una categoria intellettuale: è la stessa esperienza che lo muove a partire dall’esperienza. Senza contare un altro aspetto.

Quale?
L’appartenenza. L’esperienza, per il Papa, non è solo quella individuale, ma anche quella di un popolo: la Chiesa. Sentire di appartenere a un popolo per lui ha un valore incomparabile. In fondo Dio si rivela a un popolo, non a un individuo. E quindi l’esperienza della fede si contestualizza sempre dentro a un’appartenenza. Il soggettivismo è fuori questione.

Però anche quando il Papa parla della fede come di qualcosa che nasce dallo «stupore di incontrare qualcuno che ti sta aspettando», c’è un richiamo potente a questo aspetto: è un avvenimento, un fatto oggettivo che può essere conosciuto solo attraverso l’esperienza...
Certamente. Ma il concetto di oggettivo non è mai da intendere come assoluto, sciolto. A guidare la riflessione e poi l’azione è la consapevolezza che Cristo si è incarnato. Il Papa dice con chiarezza, nell’intervista che ci ha concesso, che non si fa discernimento sulle idee, ma sulle storie. Non c’è una oggettività inerte, c’è sempre un’oggettività che diventa volto, storia, esperienza. L’oggettività è Cristo. La novità è il Vangelo. Questo è il punto. Tutto il resto viene dopo. Non perché sia poco importante, ma perché c’è una priorità assoluta: l’annuncio. E il Vangelo è chiamato ad essere annunciato a tutti, in qualunque situazione uno si trovi a vivere.

Ma questo non implica anche il fatto che l’uomo, in qualsiasi situazione e al di là delle differenze di culture e tradizioni, ha dentro un criterio che gli permette di giudicare e riconoscere questa oggettività? C’è un avvenimento che si pone nella storia - l’annuncio di Cristo -, ma c’è anche il cuore dell’uomo che è in grado di percepire questa unicità, perché Lo attende. Il Papa punta anche su questo, mi pare.
Sì. C’è qualcosa di interno all’uomo, un’apertura, che il Papa identifica con una ferita. E questa apertura implica il desiderio fondamentale di Dio. Questa cifra della ferita è da intendere come appello profondo, inscritto nel cuore dell’uomo. E la Chiesa si rivolge sostanzialmente a un’umanità che avverte, sente, sperimenta questa ferita.

Il Papa stesso parte da questa ferita. Quando dice «sono anzitutto un peccatore», vuol dire che per definire se stesso pesca dall’esperienza più radicale che un uomo possa fare: il limite. Ed è un dato su cui sappiamo benissimo che non possiamo barare, l’esperienza è spietata su questo...
Assolutamente. In fondo l’esperienza di fede e di adesione a Cristo è data proprio dal riconoscimento di essere peccatore. Una persona che non sente questa ferita, che la nega, diventa pressoché impermeabile al Vangelo.

Colpisce molto come questa dinamica tra il cuore e la realtà per il Papa diventi un fattore di conoscenza continua. In un certo senso, lui parla quasi soltanto di cose che ha scoperto vivendo. Quello che dice è spesso legato ad episodi che ha visto accadere: la fede di sua nonna, il giorno della sua vocazione, le suore che lo hanno curato... Fino al fatto di aprire una catechesi parlando di Noemi, la bambina malata incontrata poco prima. Perché?
Appunto, perché fa sempre riferimento all’esperienza accaduta, che ha dei volti precisi. Sono questi che lo aiutano a riflettere e pensare. Quello che dice è sempre frutto di qualcosa che è scritto sulla sua pelle: nel suo vissuto, nella sua storia. Anche i santi sono per lui «volti» precisi. Non crede a quelle che lui chiama un po’ ironicamente «energie armonizzate»: crede ai volti. Questa è una categoria ermeneutica per comprendere tutto quello che dice. Se si interpreta il suo magistero con la categoria dell’idea, di affermazioni astratte, si finisce fuori strada.

Ma cosa permette questa disponibilità di cuore per cui si impara di continuo? È il Papa, avrebbe tutti i titoli per pensare di «saperne già abbastanza», soprattutto sulla fede...
L’umiltà. Che per lui non è una virtù ascetica, ma è anzitutto una via per avvicinarsi bene agli altri e alla realtà. È una disponibilità all’esperienza, appunto, che in Francesco è molto radicata. Da cosa nasce? Di preciso non lo so. Ma certamente, da quello che capisco, c’entra anche il fatto di aver sperimentato il contrario. È interessante, per esempio, che lui chieda perdono di continuo non per i peccati della Chiesa, ma per i suoi. Quando racconta di essere stato nominato provinciale da giovane, a 36 anni, e si dice pentito di essere stato brusco, quasi aggressivo nei confronti della realtà e degli altri, anche per inesperienza, in sostanza dice di aver sperimentato sulla sua pelle gli effetti di una chiusura all’esperienza. Anche questo, nel tempo, lo ha reso docile. Poi c’è una seconda questione che diventa metodo: il discernimento. Che, non dimentichiamolo, è un cardine della spiritualità gesuitica.

Lui dice esplicitamente che «si può fare discernimento solo nella narrazione, non nell’esplicazione filosofica». Partendo dall’esperienza, appunto, e non dalle idee. Ma che cosa è esattamente discernere?
Lo vediamo nel modo in cui sta conducendo la Chiesa. Molti ritengono che il Papa abbia una sorta di progetto, di idee chiare e distinte da mettere in pratica. Non credo sia una visione corretta. Il Papa è radicato profondamente nel terreno dell’esperienza concreta. Non vive in una bolla, ha la percezione chiara di cosa ci sia intorno a lui. Ma quando si muove, rilegge di continuo quello che fa nella sua preghiera personale e nel dialogo con gli altri. Quindi, avanza. In un processo che, appunto, possiamo definire di discernimento spirituale: cercando e trovando man mano la volontà di Dio. La visione più corretta del suo agire è quella del «camminando s’apre il cammino». Capisce meglio dove andare nel momento in cui si mette in cammino. Non è l’applicazione pratica di presupposti teorici: è una visione dinamica.

Che presuppone un altro aspetto: anche la Chiesa, essendo una realtà viva, in qualche modo prende coscienza di sé vivendo e riflettendo sulla sua storia. Il Papa nel dialogo con lei citava san Vincenzo di Lérins: «Anche il dogma (...) progredisce, consolidandosi negli anni, sviluppandosi col tempo, approfondendosi con l’età». E nell’Esortazione dice che «la Chiesa, che è discepola missionaria, ha bisogno di crescere nella sua interpretazione della Parola rivelata e nella sua comprensione della verità». Possiamo dire che per Francesco l’esperienza è un metodo di conoscenza decisivo per la Chiesa stessa, oltre che per il singolo fedele?
È l’esperienza del popolo cristiano che viene a parola. Pensi anche a questa idea del questionario inviato alle diocesi come introduzione al Sinodo sulla famiglia. Ne hanno parlato come di un “sondaggio di opinione”, ma in realtà risponde a questa logica: è un raccogliere la vita del popolo di Dio, l’esperienza vissuta. Che è più utile rispetto al partire da documenti e presupposti teorici. Il popolo di Dio è invitato a interrogarsi e anche a tematizzare l’esperienza che fa alla luce del Vangelo. Poi questo non è sufficiente, chiaro: è propedeutico a una riflessione ulteriore. Ma anche qui, in fondo è il metodo degli esercizi spirituali di Ignazio. Il discernimento è la base fondamentale del giudizio. È sentire e gustare le cose interiormente. Non è un progetto di tipo esclusivamente razionale, in senso astratto: è dall’interno stesso che si fa esperienza di come andare avanti. Ed emerge una direzione da prendere che non è frutto solo della nostra capacità di decidere, ma dello Spirito.

Il Papa insiste molto sulla tentazione di «addomesticare le frontiere» e ritrovarsi con una «fede da laboratorio»: qualcosa di astratto, statico, che non offre più strumenti per giudicare la realtà e porta ad un «autismo dell’intelletto». Da dove nasce questo rischio per lui?
Papa Francesco è alieno dalle ideologie. Totalmente. Anzi, uno dei rischi peggiori che intravvede è proprio l’ideologizzazione del Vangelo. Che accade soprattutto quando lo si legge attraverso altre categorie. Il Vangelo, per lui, si legge col Vangelo; è un’esperienza assolutamente originale, unica. Non può essere ridotta con l’uso di metodologie estranee. Da qui la sua idiosincrasia per le politicizzazioni, le tentazioni egemoniche e via dicendo. Non dobbiamo stare in frontiera per assimilare a noi le frontiere, ma per vivere lì, per fare esperienza della frontiera stessa. Non è una logica di annessione, ma di confronto, di sfida.

Se no, si finisce per ricondurre tutto a una cosa che già sai.
Certo. Quando lui chiede di «aprire le porte della Chiesa», non intende innanzitutto che bisogna far entrare le persone in chiesa: vuole spalancare le porte perché il Signore possa uscire. A volte noi le chiudiamo così bene che alla fine Cristo rimane ingabbiato dentro... Invece la Chiesa è un tesoro che va messo a disposizione di tutti. L’Evangelii Gaudium è tutta intessuta di questo richiamo.

Altro aspetto potente nei suoi richiami: la fede come testimonianza. «Anche in questa epoca la gente preferisce ascoltare i testimoni: “Ha sete di autenticità, reclama evangelizzatori che gli parlino di un Dio che essi conoscano e che sia a loro familiare”», scrive nell’Esortazione (150). Anche qui, l’esperienza diventa fondamentale: la strada per la verità è un rapporto, qualcosa di sperimentabile.
Lui stesso è un Papa che comunica un messaggio testimoniandolo. Parla del valore della povertà vivendo la semplicità. O della preghiera, pregando. Cerca di unire il gesto alla parola. Sostanzialmente vuole uscire dalla logica della predicazione, della parola in quanto tale, per far vedere. Così un gesto diventa ancora più potente. Ignazio dice che l’amore si dimostra più nelle opere che nelle parole. È una dimensione che spinge all’azione.

Ci sono altri punti in cui l’esperienza sembra un fattore decisivo per il Papa. Anzitutto, il suo metodo educativo. Nell’intervista cita quell’episodio in cui, per interessare i suoi studenti liceali alla letteratura, comincia a farli scrivere e finisce per coinvolgere nel rapporto con la classe anche Borges.
Be’, qui potremmo parlare di rischio educativo. Muoversi così è davvero un rischio, perché implica sempre la possibilità di fraintendimenti. Ma in quel caso, per esempio, lui lo ha corso perché si è accorto che era il modo migliore per creare un ponte di contatto tra l’esperienza della letteratura che voleva comunicare e quella che avevano i suoi alunni. E l’unica via era andargli incontro: partire dal loro punto di vista, dalla loro intelligenza e curiosità, e leggere il bisogno profondo che c’era dentro questa richiesta. Entrando nella letteratura con le loro esigenze e domande, alla fine ne è uscito con ragazzi aperti alla letteratura tout court e addirittura autori loro stessi. Sì, l’esperienza in qualche modo è il cuore anche della sua idea di educazione.

Nel libro, lei sottolinea che pure quando parla di arte, delle sue preferenze - Hölderlin, Manzoni, Caravaggio, Mozart - il Papa parte sempre dalla vita, non da un discorso intellettuale. «La vita è il paragone delle parole», dice citando l’Innominato. È una buona definizione di esperienza...
Per lui l’arte non è chiusa nell’ambito estetico, autonomo rispetto al resto. Il romanzo, la poesia, l’arte in generale è parte integrante della vita. Anche della vita spirituale e pastorale. In questo campo si muove con grande facilità ed elasticità. Per spiegare la speranza, per dire, è partito dalla Turandot. Pensavo di non aver capito bene... Noi avremmo introdotto il discorso dicendo “per esempio”, avremmo in qualche modo aperto una parentesi. Invece per lui il discorso è fluido, non c’è separazione. Questo mi ha colpito. L’estetica del Papa implica un rapporto con l’opera d’arte in cui l’opera plasma radicalmente la percezione. Di fatto, fruirne significa fare un’esperienza di vita tout court. Quando leggi un romanzo, vivi un’esperienza di vita, non fai solo una pura esperienza di gusto intellettuale. È un’osservazione che offre molte possibilità di sviluppo.

Ultimo aspetto: la preghiera. Proprio la sua preghiera personale. Il Papa la definisce «memoriosa», cioè «piena di ricordi, anche memoria della mia storia o di quello che il Signore ha fatto». Anche pregare, per lui, è fare esperienza?
Sì. La sua preghiera non è astratta: è osservazione di fatti e riconoscimento di dove il Signore agisce e ha agito. Lo ha detto anche nella sua Esortazione: solo l’incontro col Signore può dare la «gioia del Vangelo», non una decisione etica o l’adesione a una idea. Per esempio, lui ha questo momento di adorazione serale, verso le sette e mezza, che è di pura contemplazione e silenzio. È curioso che non sia la mattina. Chiaro, la mattina prega, eccome: le Lodi, la messa... Ma questo momento speciale è la sera. Significa che mette la sua giornata davanti al Signore e prega su quello che ha vissuto. Sulla sua esperienza, insomma.