SUI SUOI PASSI

PRIMO PIANO - PAPA FRANCESCO
Davide Perillo

«Cosa ci sta mostrando Dio? Che cosa ci chiede di cambiare?». È questa la domanda che pone a ciascuno il Pontificato di Jorge Mario Bergoglio. Guzmán Carriquiry, segretario della Commissione per l’America Latina, lo conosce da una vita, eppure anche per lui è una sorpresa continua. Ripercorriamo il primo anno con papa Francesco. Per scoprire di più dove sta andando

Santa Marta. Francesco lo si capisce meglio da lì, guardando al «flusso continuo di vita e di stupore» che, attraverso quelle omelie pronunciate a braccio nella cappella dove il Papa dice messa ogni mattina, arriva «a tanta gente che non avrebbe mai immaginato di restare colpita da un Pontefice». Parola di Guzmán Carriquiry, 69 anni, sposato, quattro figli, avvocato uruguayano trapiantato a Roma dal 1971, quando Paolo VI lo chiamò a lavorare in Curia. È stato per vent’anni sottosegretario del Pontificio Consiglio per i Laici, da tre è segretario della Commissione per l’America Latina. Jorge Mario Bergoglio lo conosce da una vita. Ma anche per lui il primo anno di papa Francesco è stato una sorpresa continua.

Quali sono stati i momenti più importanti?
Elencarli è lungo, è stato un anno di densità e intensità singolari. Ho in mente la prima bellissima apparizione dalla Loggia di San Pietro, appena eletto; la scelta immediata e sorprendente di abitare nella Casa Santa Marta; la Giornata mondiale della Gioventù a Copacabana; il suo incontro con i migranti - vivi e morti! - a Lampedusa, la visita ad Assisi. E poi, la creazione del Consiglio di otto cardinali per aiutarlo nella riforma della Curia, l’intervista a padre Spadaro, l’Evangelii Gaudium... Però, nonostante tutto, penso che i momenti più importanti siano stati le omelie mattutine. Credo che questo magistero day by day - un Vangelo sine glossa - sia un tesoro prezioso. Arriva a tutti.

C’è qualcosa che l’ha sorpresa in particolare in questi mesi?
Il concentrato così veloce di passaggio da un momento teso, drammatico, per certi versi oscuro come l’ultimo periodo sofferto da quel Pontefice santo e saggio che è stato Benedetto XVI, al clima di gioia che ha suscitato il nuovo Papa. È sorprendente, perché è quasi immediato. Una Chiesa sotto assedio per mesi, e poi di colpo questa svolta. Mi fa ripensare alle parole dello stesso Benedetto XVI: «Non siamo noi a condurre la Chiesa; neanche il Papa conduce la Chiesa. È Dio a condurla».

Ma lei si aspettava questi cambiamenti così repentini?
Conoscendolo, un po’ me li aspettavo. Ma quello che stiamo vivendo supera ogni aspettativa. È un Papa imprevedibile. Non a caso ci chiede di essere aperti alle sorprese di Dio, al di là delle nostre sicurezze materiali, spirituali e pure ecclesiastiche. La domanda vera che ogni singolo fedele dovrebbe farsi oggi è: che cosa ci sta domandando Dio? Cosa ci sta mostrando? Cosa ci sta chiedendo di cambiare attraverso il Pontificato di Jorge Mario Bergoglio? Se no, l’entusiasmo può restare sentimentale. La contentezza è già un movimento di cuore, chiaro. Ma chiede di essere approfondita.

C’è un punto decisivo per lui, lo ripete spesso: è la necessità di tornare al kerygma, al cuore dell’annuncio. Perché è così urgente?
Lo dice bene nella Evangelii Gaudium, quando invita «ogni cristiano, in qualsiasi situazione si trovi, a rinnovare oggi stesso il suo incontro personale con Cristo, o almeno, a prendere la decisione di lasciarsi incontrare da Lui». O quando ripete quelle parole di papa Benedetto che conducono al centro del Vangelo: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (Deus caritas est, 1). Anzitutto, l’urgenza di ricentrarsi sul kerygma è ciò che lo stesso Gesù ci ha consegnato come mandato apostolico, proprio come si avverte nelle prime predicazioni di Pietro. Poi nasce dal fatto che la Chiesa, nel suo peregrinare, sente il bisogno di ritornare sempre al cuore dell’annuncio, che è la sorgente di ogni riforma. Ancora, in Francesco c’è la convinzione lieta e salda «che la verità cristiana è attraente e persuasiva perché risponde ai bisogni profondi dell’esistenza umana». Infine, perché ci vuole la radicalità del Vangelo, che per un mondo scristianizzato può diventare segno di contraddizione, ma sa arrivare ai cuori come una novità inaudita.

La conseguenza è il richiamo alla testimonianza. Se la fede è un’attrattiva, si trasmette anzitutto attraverso testimoni, non discorsi...
Ricordo che Bergoglio rimase molto colpito quando papa Ratzinger, nell’omelia della messa di inaugurazione della Conferenza dei vescovi latinoamericani di Aparecida nel 2007, disse che la fede non si trasmette per proselitismo, ma per la via dell’attrazione. Questo punto è stato ripreso molte volte da Francesco. A partire dal suo primo grande discorso programmatico, ai Vescovi brasiliani. C’è bisogno di una Chiesa che, «abbandonando ogni mondanità spirituale», faccia più spazio al mistero di Dio, perché «soltanto la bellezza di Dio può attrarre. Egli risveglia nell’uomo il desiderio di custodirlo nella propria vita, nella propria casa, nel proprio cuore. Dio risveglia in noi il desiderio di chiamare i vicini per far conoscere la sua bellezza». Che cosa è la missione se non la comunicazione del dono dell’incontro con Cristo? Quando la gente incontra una vera testimonianza cristiana, «sente il bisogno di cui parla il profeta Zaccaria: “Vogliamo venire con voi”». Certo, ci vuole una Chiesa che nella sua vita renda luminosa la presenza di Cristo, nonostante l’opacità dei propri limiti. Ma questa è la seconda domanda cruciale che lui pone ad ognuno nell’Evangelii Gaudium: quanto e come fate trasparente la Sua presenza nella vostra realtà?

Da dove nasce, invece, l’insistenza sulla povertà, sulla Chiesa «povera e per i poveri»?
Lo diceva già Giovanni XXIII, proprio prima del Concilio Vaticano II: «La Chiesa si presenta qual è e quale vuole essere, come la Chiesa di tutti e particolarmente la Chiesa dei poveri». Ma questa dimensione evangelica non prese abbastanza corpo nell’evento conciliare perché l’Europa del boom economico, all’epoca, pesava ancora molto. Penso che sia stato un grande contributo della Chiesa latinoamericana a tutta la Chiesa riprendere, nel magistero e nella vita, questa connotazione essenziale del Vangelo, sempre presente nella tradizione. Ecco, questa coscienza in Francesco la vediamo concretamente: quando lava i piedi nel carcere minorile di Roma, quando visita Lampedusa, nei gesti di tenerezza per i malati... È il Vangelo vissuto. Il Papa ripete sempre che questo è l’atteggiamento del discepolo, cioè del testimone di un Dio che essendo ricco, diventa povero fino all’inverosimile. È nel mistero di Cristo, nella Sua incarnazione, che si fonda l’amore ai poveri. Senza questo fondamento, degenera in una riduzione moralistica del fatto cristiano. La Chiesa viene «assimilata a una ong» filantropica, ricorda il Papa. O finisce per essere preda di forme di ideologizzazione politica.

Sembra che l’unica condizione richiesta per fare i conti con l’annuncio radicale di Francesco sia proprio la povertà di spirito: una lealtà con il proprio bisogno e la propria “umanità ferita”. Ed è una possibilità per chiunque, al di là delle posizioni culturali, dei pre-concetti o delle ideologie...
Penso che il Papa sarebbe d’accordo. In effetti, siamo in un mondo di feriti. Basta allargare lo sguardo: indifferenza e confusione sul senso della vita, dissoluzione dei vincoli di appartenenza, isolamento, solitudine... Ma è anche un modo per approfondire lo sguardo su se stessi, senza schermi di protezione: siamo vittime della nostra autosufficienza, dell’egoismo e della superbia; schiavi delle idolatrie del denaro, del potere, del piacere effimero, dell’intellettualismo senza sapienza. Siamo tutti creature ferite dalla vita. E perciò bisognose; sempre in ricerca, in attesa, con quella inquietudine di un cuore mai soddisfatto... Siamo bisognosi soprattutto di uno sguardo pieno di misericordia. Come quello sperimentato dal Papa stesso quando si definisce un «peccatore su cui si pose lo sguardo di Dio». Perciò propone la Chiesa come «ospedale da campo», in cui la medicina migliore per le ferite dell’anima è la misericordia. E poi, vede, questo Papa ha un cuore rivolto ai lontani. Guarda le novantanove pecore che se ne sono andate, e non l’unica nel recinto. Chiede di uscire, di andare incontro. Tanti cristiani reagiscono come il fratello maggiore del figliol prodigo e si irrigidiscono. Ma lui ricerca i lontani. E sa che li devi abbracciare con grande amore misericordioso, senza discriminazioni preventive. Neanche dal punto di vista morale.

Altra questione: le polemiche sui “valori non negoziabili”. Il Papa sta spiazzando tanti, anche tra i cristiani, per il richiamo a quell’annuncio “ultimo” che viene prima delle verità “penultime”. Cristo viene prima dei valori. In molti lo accusano di cedere le armi davanti al mondo. È davvero così?
Non è così! Sono state le campagne mediatiche, l’opera delle varie “lobbies” e la discussione di proposte di legge sulla vita e sulla famiglia in ballo un po’ ovunque che hanno fatto sì che gli interventi della Chiesa sui “valori non negoziabili” diventassero forse troppo frequenti e occupassero un primo piano a volte eccessivo. Abbiamo corso il rischio di dare un’immagine di Chiesa più preoccupata di princìpi e leggi che della cura delle anime. Il Papa ha iniziato con questa preoccupazione: se si vuole attirare la gente a Dio, non si può partire dai “no”. E neanche da quei “no” scontati in una Chiesa che sa di non poter negoziare niente di ciò che è sostanziale nella dottrina. D’altro canto, su questo c’è anche una certa strategia. Di questi temi sta parlando mese per mese con sempre più forza. Se uno guarda a quante volte, per dire, ha difeso la vita, trova espressioni molto potenti: davanti agli ambasciatori, per esempio, ha parlato di «orrore dell’aborto». Ma lui lo ripete spesso: il discernimento implica sempre il sapere quando parlare e come parlare, secondo i contesti. Lui ora può parlare con forza su qualsiasi soggetto, anche che provoca resistenze, perché non potrà essere aggredito come restauratore.

Che giudizio dà su questi primi passi nella riforma della struttura della Chiesa? Che piega prenderà, secondo lei?
Francesco ama ricordare spesso quella risposta di Madre Teresa di Calcutta al giornalista che le domandava da dove cominciare la riforma della Chiesa: «Da me e da te!». Lui sta riformando la Chiesa in capite et in membris, nell’istituzione e nella gente. Non c’è riforma vera senza una corrente di santità. E senza conversione. Il Papa ci chiede questo.