Le conseguenze del bell'amore

CHIESA - VERSO IL SINODO
Davide Perillo

Dal 5 ottobre i Vescovi di tutto il mondo si ritrovano a Roma a discutere di famiglia. E l’anno prossimo, altra tornata sullo stesso tema. Perché al Papa sta così a cuore? E che cosa c’è in gioco, oltre alle questioni di morale e dottrina? Lo abbiamo chiesto al cardinale ANGELO SCOLA. Che rilancia partendo da un fatto: «La vita è una risposta»

Il «bell’amore». Lo chiama così, il cardinale Angelo Scola, con una espressione presa a prestito dalla sapienza biblica. Bruciando in due parole intere paginate di anticipazioni e commenti, di presunti scoop e diatribe più o meno velate, anche tra prelati. Tutti con oggetto il prossimo Sinodo dei Vescovi sulla famiglia, che a leggere certe cronache sembrerebbe destinato ad affrontare quasi soltanto questioni etiche e giuridiche, come la comunione ai divorziati o la riforma della Sacra Rota. E invece sarà l’occasione per approfondire «un tema che alla Chiesa sta molto a cuore, perché si tratta di riscoprire il valore antropologico dell’esperienza affettiva». Parola dell’Arcivescovo di Milano, che a questi temi ha dedicato diversi saggi come teologo, ma soprattutto se li ritrova davanti in carne e ossa da pastore.
Il sipario si apre il 5 ottobre, con il Sinodo straordinario in Vaticano. Ne seguirà un altro l’anno prossimo. E nei mesi scorsi, nelle Diocesi di tutto il mondo, sono state raccolte opinioni, riflessioni, testimonianze che hanno portato all’Instrumentum laboris, il testo di preparazione.

Eminenza, perché questo Sinodo è così atteso?
Sulla questione degli affetti è in corso, da almeno vent’anni, una radicale trasformazione dei comportamenti. Basta guardare al modo con cui vivono questa dimensione non solo gli adulti, ma anche i ragazzi, già dalle medie. La Chiesa vuole invitare tutti a riflettere su questa domanda: qual è il vero significato della dimensione degli affetti e dell’amore nella vita dell’uomo e della donna? Quello che viene presentato come un clima di libertà, in cui vige il criterio «fai come ti pare anche in campo sessuale», è davvero adeguato alla crescita della persona, alla prospettiva di felicità delle donne e degli uomini? Questa è la vera ragione dei due Sinodi. Per discutere le questioni etiche o problemi sollevati dalla bioingegneria genetica, che sono di grande importanza perché possono dare a questa trasformazione dei comportamenti una impronta irreversibile, bisogna approfondire un fattore che viene prima. E la Chiesa se ne occupa perché è per sua natura un soggetto educativo.

Dai lavori preparatori emerge quello che lei chiama uno «scarto significativo» tra le affermazioni della Chiesa, anche quando continuano ad essere viste come un ideale, e l’esperienza reale della maggior parte degli uomini. Perché questa distanza?
Diciamo, anzitutto, che la fragilità umana in questo campo c’è sempre stata. La Chiesa lo sa, e ha sempre risposto proponendo la verità e la pienezza dell’esperienza del «bell’amore». Distinguendo il peccato dal peccatore, essendo molto comprensiva nei confronti del peccatore, ma mettendolo di fronte alla sua responsabilità e chiedendogli dei passi precisi per la riconciliazione e la maturazione. Solo che negli ultimi tempi le cose sono molto cambiate.

Che cosa è cambiato?
È cambiato il costume. I comportamenti oggi vengono platealmente esibiti in nome di una concezione della libertà intesa come insofferenza verso ogni vincolo. E quindi cose che prima sembravano inaccettabili - e che magari anche certi cristiani hanno contribuito, con la loro rigidità, a rendere più pruriginose -, vengono sbandierate come una liberazione.

Eppure il “bell’amore”, il fascino e il desiderio del “per sempre”, è connaturato all’umano. Come si è perso per strada?
Ormai ho una certa esperienza come Vescovo, incontro spesso i fidanzati. Parlandoci, ci si rende conto che non sono stati molto aiutati a vedere la dimensione profonda dell’amore. Non solo per responsabilità degli uomini di Chiesa. Hanno molto peso la pressione dell’opinione pubblica, i media... Ma troppo spesso si è insistito sul «tu devi» senza motivarlo, senza darne le ragioni. Senza spiegare che questo dovere sgorga dalla bellezza del rapporto intrinseco tra l’affezione che spalanca al dono di sé, all’unità dell’uomo e della donna e al frutto di questo rapporto che è il figlio. Da anni chiamo l’intreccio di questi tre fattori “il mistero nuziale”. Ritengo necessario e liberante riproporre con forza questa visione complessiva.

Ma perché dottrina e pastorale sembrano così separate che ci si deve porre il problema di «coniugarle»? È una preoccupazione che emerge spesso, nelle relazioni affluite per preparare il Sinodo...
È una questione che viene da lontano. Bisogna anzitutto tener conto di un dato: i precetti e le leggi sono per loro natura universali, ma gli atti sono sempre singolari. Quindi l’azione morale deve essere valutata a partire dalla singola persona che compie il singolo atto, e questo dice la difficoltà di ogni etica e anche della morale cattolica. Tuttavia la separazione tra dottrina e azione pastorale è legata a una visione statica dell’uomo: si pensa ancora, con un certo intellettualismo etico, che l’unico problema sia imparare la dottrina giusta per poi applicarla alla vita: «L’autentica dottrina, una volta proclamata, vincerà». Questa posizione, però, non tiene conto di un dato: per il fatto stesso di essere “gettato” nella vita, l’uomo si trova a fare un’esperienza da cui nascono domande, interrogativi. La dottrina, che evidentemente per il cristiano si basa sull’esperienza originaria della sequela di Cristo proposta autorevolmente dal Magistero, deve essere riscoperta come risposta organica ai “perché?” che nascono dall’esperienza. Altrimenti non basta.

Il Papa, in questo, sta dando una spinta forte.
Mi sembra che il Santo Padre abbia visto con chiarezza la necessità di chinarsi sulle ferite dell’uomo anche sotto questo aspetto. Quando invita tutta la Chiesa, attraverso uno dei suoi organismi più importanti come il Sinodo, a riflettere sul significato della famiglia, penso che intenda affrontare questa situazione, con il realismo che gli è proprio, per ridare speranza e fiducia non solo ai cristiani, ma a tutti.

Lei insiste molto, nei suoi interventi, sulla necessità di recuperare l’«orizzonte sacramentale» del matrimonio. Perché è essenziale ribadirlo? Che cosa vuol dire che il matrimonio è anzitutto un Sacramento?
Per il cristiano - ma se ben inteso questo discorso vale per qualunque esperienza umana - la questione di fondo è se Cristo è il cuore, il “centro affettivo” della mia vita. Se è il motore della mia vita, Cristo mi deve essere contemporaneo. È la grande sfida lanciata da Lessing: «Chi mi aiuterà a superare questo tremendo fossato che mi separa da Cristo vissuto duemila anni fa?». Kierkegaard diceva: «Solo uno che è contemporaneo a me può salvarmi». In che modo Cristo può essermi contemporaneo? La strada ce l’ha indicata Gesù stesso, offrendo alla nostra libertà il Sacramento, cioè il dono permanente della sua Passione, Morte e Resurrezione nell’Eucaristia. Il Sacramento è la possibilità, donatami tutti i giorni, di un’interlocuzione personale con Gesù, che si realizza pienamente nell’Eucaristia, ma che imposta in maniera analogica tutte le circostanze e i rapporti che Dio mi propone lungo una giornata. Rapporti e circostanze sono un «quasi sacramento»: hanno cioè nell’Eucaristia il paradigma pieno, ma sono una modalità con cui Gesù si rende contemporaneo alla mia vita. Allora, da questo punto di vista, cosa diventa l’amore? Cosa diventa il concreto innamorarsi di questa donna? Diventa una pro-vocazione, ovvero una chiamata che un Altro rivolge alla mia libertà, perché io mi coinvolga con Cristo attraverso l’assunzione responsabile di questo innamoramento. Responsabile, perché richiede un lavoro. Dobbiamo approfondire con cura il legame tra l’Eucaristia e il matrimonio, proprio perché l’Eucaristia è l’espressione potente della dimensione nuziale del rapporto tra Cristo e la Chiesa. Come dice la Lettera agli Efesini, l’unione dello sposo e della sposa diventa simbolo dell’unione tra Cristo e la Chiesa. Questi sono temi su cui comunque i Sinodi si concentreranno: proprio per avere un orizzonte abbastanza largo e poter affrontare anche le questioni etiche.

Ecco, a proposito di questioni etiche: in certe prese di posizione sui divorziati risposati non si rischia di fraintendere proprio il legame che lei sta richiamando adesso, tra Eucaristia e matrimonio? Si parte dalle ferite aperte, che certo ci sono, ma a volte sembra che si finisca quasi per reclamare un diritto...
Il problema è complesso. Per affrontarlo in termini realistici, cioè secondo tutta la sua verità, bisogna prima di tutto guardare in faccia la singolarità delle esperienze. Raggruppare nel “genere dei divorziati e risposati” un’esperienza inevitabilmente personale è di fatto qualcosa che va contro la realtà: non guarda in faccia né al processo di maturazione affettiva e sessuale dell’individuo, né al valore dell’Eucaristia come condizione della contemporaneità di Cristo alla mia vita. Inoltre, la dottrina cristiana ha già detto con grande chiarezza che i divorziati e risposati non sono fuori dalla comunione ecclesiale e ha già indicato le molte forme con cui possono partecipare alla vita della Chiesa: sono almeno nove, come dice la Sacramentum Caritatis, anche se non è possibile l’accesso alla Comunione sacramentale. Certo, c’è un po’ da correggere la modalità con cui spesso si è affrontata la questione nella pratica, oscillando tra il lassismo e il rigorismo anziché accompagnare tutti dentro un’esperienza viva di comunione. Penso che si debba e si possa guardare in termini più sostanziali e positivi anche a questo aspetto. L’altra cosa che va valutata bene sono i criteri di verifica di nullità del matrimonio e la modalità con cui questa verifica oggi viene fatta nella Chiesa: forse si possono trovare forme più pastorali. Così come il fenomeno massiccio del distacco da una pratica cristiana consapevole pone anche il problema del peso di un minimo di fede come condizione per contrarre il Sacramento matrimoniale. Bisogna lavorare, capire e trovare le strade rispettose della singolarità nell’esperienza dell’amore e anche del nesso oggettivo tra l’Eucaristia e il matrimonio.

Qual è il compito dei cristiani in tutto questo? Dall’Instrumentum laboris emerge la necessità di «testimoni». Ma cosa vuol dire testimoniare la bellezza del matrimonio?
Vuol dire fare quello che ancora tanti giovani fanno, cioè accettare di consegnare la riuscita della propria vita, che è la santità, alla strada che il Signore - attraverso dei segni precisi - ci indica come la via privilegiata per raggiungere questo compimento. Si tratta di testimoniare che si può amare così, maturando pazientemente, nella fatica e magari nella contraddizione, la dimensione affettiva della propria esistenza. La testimonianza è ben di più del buon esempio: è un modo di conoscere la realtà - in questo caso la realtà del bell’amore - e di conseguenza di comunicarla nella sua verità.

Il che non vuol dire ritirarsi in sacrestia: sottolineare che la chiave di volta è la testimonianza non implica il disinteresse per il dibattito pubblico, la politica, l’impegno a far sì che le leggi siano le migliori possibili...
Pensare che le due cose siano in alternativa nasce da un equivoco con cui si guarda alla testimonianza: come “buon esempio” e basta, appunto. Siccome la testimonianza parte dalla persona, dal soggetto, la si soggettivizza, la si ritiene un fatto privato. Ma la testimonianza assume di per sé anche quelle forme concesse dal diritto che sono diverse secondo la società in cui uno vive. Se siamo in una società plurale, questo tipo di testimonianza può battere le strade previste in democrazia e dare vita anche a proposte legislative, a pubblico dibattito, se è il caso a manifestazioni. Si tratta di decidere di volta in volta ciò che è proporzionato al compito, tanto più decisivo in una società plurale, di offrire la propria visione delle cose al libero confronto in vista di un riconoscimento reciproco, perché questo è costruire una democrazia. In questo contesto è, inoltre, fondamentale approfondire il valore sociale dell’obiezione di coscienza. Mi auguro che questo tema diventi occasione di un proficuo dibattito.

Ma se lei avesse davanti, ora, due giovani che le chiedono perché vale  la pena sposarsi, che cosa direbbe loro?
Che la vita è sempre una risposta. Se l’uomo non si autogenera, e non potrà mai farlo, se vengo da un Altro, allora devo farci i conti, devo rispondere. E dato che la vita - al di là di tutte le scoperte scientifiche - è breve ed è una sola, allora bisogna scoprire come l’esperienza della relazione e dell’amore ne sia il fondamento, perché l’amore vince la morte. Io sono chiamato a svolgere, lungo tutta la mia esistenza, la promessa contenuta nel bene di essere stato messo al mondo - con tutte le contraddizioni, le fatiche e via dicendo - affinché possa succedere quello che io vedo tutte le volte che vado in una parrocchia. Alla fine della messa, c’è sempre qualche coppia di anziani che, sorridendo, mi fa: «Eminenza, cinquant’anni di matrimonio, sessant’anni di matrimonio...». Penso che un’esperienza così sia formidabile, incomparabilmente più appagante di quella di chi ha cambiato dodici partners nella vita. Per questo dico ai giovani che ne vale la pena. Vadano alla ricerca di questi testimoni: non mancano!