Il muro e il beato

Gli hanno sparato mentre diceva messa. Il vescovo martire Óscar Romero è stato beatificato il 24 maggio. Papa Francesco mette il sigillo sulla vicenda controversa del pastore salvadoregno che difese il suo popolo oppresso (da Tracce, giugno 2015)
Andrea Tornielli*

È morto martire, in odio alla fede, ucciso da una fucilata il 24 marzo 1980 mentre stava per consacrare il pane e il vino sull’altare. Ma per tanti, troppi anni è stato guardato con sospetto anche a Roma, perché vittima di strumentalizzazioni ideologiche. In realtà Óscar Arnulfo Romero è stato un vescovo che non è venuto meno al suo compito di pastore, ben sapendo a quali rischi andava incontro: grazie alla sua testimonianza, in un momento in cui anche nelle gerarchie ecclesiastiche c’era chi minimizzava di fronte alla violenta repressione del regime salvadoregno e alle uccisioni dei campesinos, ha preservato la fede di tanti uomini e donne, poveri e perseguitati. Mostrando il volto di una Chiesa che invita alla concordia e non alla violenza, che sa scegliere di stare dalla parte degli oppressi e non degli oppressori. Per questo la beatificazione di Romero, voluta da Francesco e celebrata sabato 24 maggio a San Salvador sotto un sole cocente, rappresenta un grande segno per l’America Latina e per tutta la Chiesa. Un segno atteso a lungo.
Il rito è stato presieduto dal cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle cause dei santi, di fronte a una folla di quasi trecentomila persone. Papa Bergoglio ha inviato all’Arcivescovo di San Salvador una lettera, dove si legge che la beatificazione «è motivo di grande gioia per i salvadoregni e per noi che beneficiamo dell’esempio dei migliori figli della Chiesa». Romero «ha saputo guidare, difendere e proteggere il suo gregge», con «una particolare attenzione ai più poveri e agli emarginati» fino ad «identificarsi pienamente con Colui che diede la vita per le sue pecore», nel momento della sua uccisione. «Rendiamo grazie a Dio perché ha concesso al Vescovo martire la capacità di vedere e udire la sofferenza del suo popolo, e ha plasmato il suo cuore affinché, in Suo nome, lo orientasse e lo illuminasse», scrive Francesco, sottolineando come Romero «ci invita al buon senso e alla riflessione, al rispetto per la vita e alla concordia», a «rinunciare alla violenza della spada, quella dell’odio, e vivere la violenza dell’amore, quella che lasciò Cristo inchiodato a una croce, e che si fa ognuno per vincere i propri egoismi e affinché non ci siano diseguaglianze così crudeli fra di noi».

Le denunce. Nato da una famiglia umile il 15 agosto 1917 a Ciudad Barrios, secondo di otto fratelli, dopo essere entrato in seminario era stato inviato dai superiori a Roma per completare la sua formazione e aveva frequentato la Pontificia Università Gregoriana dal 1937 al 1942. Dopo aver fatto il parroco, nel 1970 era stato nominato Vescovo ausiliare di San Salvador, e visse in prima persona la Conferenza dell’Episcopato latinoamericano di Medellín del 1968. Nel 1974 gli veniva affidata la Diocesi di Santiago de María, una delle zone più povere della nazione. È qui che Romero tocca con mano quanto dura fosse per la popolazione la vita sotto la repressione dei militari che tutelavano i latifondisti.
Divenuto Arcivescovo di San Salvador nel 1977, aveva rifiutato l’offerta per la costruzione di un palazzo arcivescovile scegliendo di vivere in una piccola stanza nella sagrestia della cappella dell’Ospedale della Divina Provvidenza, dove erano ricoverati i malati terminali. Un mese dopo il suo ingresso in Diocesi, veniva assassinato padre Rutilio Grande, gesuita, suo amico e collaboratore. Aveva così inizio la stagione delle sue denunce pubbliche in difesa del popolo oppresso. In quegli anni l’esercito, sotto l’egida del partito al potere, profanava chiese e uccideva i fedeli. Romero supplicava in nome di Dio di far cessare la repressione. E si sentiva ribattere dagli organi di stampa fedeli al regime con le parole del nuovo Papa, Giovanni Paolo II: «Guai ai sacerdoti che fanno politica nella Chiesa, perché la Chiesa è di tutti». Era comodo per gli oligarchi al potere e la loro longa manus degli Squadroni della morte, contrapporre il Papa polacco al Vescovo coraggioso. Rinfacciargli di «fare politica», mentre stava soltanto difendendo coloro che erano senza difesa.
C’è chi ha paragonato la beatificazione di Romero alla caduta di un muro. La Chiesa ha canonizzato molte vittime dei regimi totalitari comunista e nazista. Con la cerimonia in Salvador, che potrebbe aprire la via al riconoscimento del martirio di tanti altri sacerdoti e laici, vengono messe in luce le persecuzioni subite dalla Chiesa latinoamericana negli anni Settanta e Ottanta: in quel caso i persecutori erano persone che si professavano cattoliche e vedevano in alcuni coraggiosi pastori un pericolo per il loro potere. Eppure questi Vescovi, questi preti e questi catechisti, accusati di «fare politica» e di essere «marxisti», non hanno fatto altro che denunciare le ingiustizie, difendere gli oppressi, mettere in pratica l’opzione preferenziale per i poveri.

L’ultima omelia. «Perché fu assassinato Romero?», si chiedeva il vescovo Gregorio Rosa Chávez, uno dei suoi più stretti collaboratori, nel ventesimo anniversario della morte: «È un po’ come chiedere perché ammazzarono Gesù Cristo». A leggere le ultime frasi del nuovo beato, nell’omelia della messa durante la quale è stato ucciso, sembra quasi chiedere al carnefice di permettergli «di morire quando vado all’altare, per offrire il pane e il vino». «Un’immagine alla cui luce si può leggere tutta la sua vita e la sua morte. Visse e morì come sacerdote, come pastore buono innamorato di Cristo e del suo popolo».
«El Salvador», scriveva Romero in una lettera, «è un Paese piccolo, sofferente e lavoratore. Qui viviamo grandi contrasti nell’aspetto sociale, emarginazione economica, politica, culturale, eccetera. In una parola: ingiustizia. La Chiesa non può restare zitta davanti a tanta miseria perché tradirebbe il Vangelo, sarebbe complice di coloro che qui calpestano i diritti umani. È stata questa la causa della persecuzione della Chiesa: la sua fedeltà al Vangelo».
La decisione di papa Francesco, il riconoscimento che quell’omicidio sull’altare avvenne «in odio alla fede», rappresenta la conclusione di un iter per nulla facile, che ha subìto per quasi vent’anni rallentamenti e qualche tentativo di insabbiamento. Per comprendere quanto sia stata controversa nei palazzi vaticani la vicenda di Romero basta ricordare che nel maggio del 2007, mentre volava in Brasile per il suo primo viaggio latinoamericano, a Benedetto XVI era stato rivolta una domanda sul processo di beatificazione del Vescovo ucciso. Papa Ratzinger aveva risposto difendendolo e descrivendolo come «un grande testimone della fede» che aveva avuto una morte «veramente incredibile» davanti all’altare. Aveva detto a chiare lettere nella sua risposta a braccio che la persona di Romero «è degna di beatificazione». Eppure quelle parole pronunciate dal Papa davanti alle telecamere e ai registratori accesi non vennero riportate nelle versioni ufficiali dell’intervista pubblicate sui media vaticani.
«Per molti anni nella Chiesa», scriveva Romero nell’ottobre 1977, poco dopo l’inizio del suo ministero di Arcivescovo a San Salvador, «siamo stati responsabili del fatto che molte persone vedessero nella Chiesa un’alleata dei potenti in campo economico e politico, contribuendo così a formare questa società d’ingiustizie in cui viviamo». Pochi mesi prima di morire, al giornalista che gli domandava della sua conversione da «prete in talare» di idee piuttosto conservatrici a pastore militante, aveva risposto: «La mia unica conversione è a Cristo, e lungo tutta la mia vita». Ora la Chiesa ha messo il sigillo sulla sua vita e sulla sua morte.

*vaticanista de La Stampa