Missione Baghdad

CHIESA - IL NUNZIO ORTEGA
José Luis Restán

“Ti basta la mia grazia”. È il motto episcopale del nuovo nunzio in Giordania e Iraq, ALBERTO ORTEGA MARTÍN. Scelto per «portare l’abbraccio del Papa» ai cristiani del Medioriente, ci chiede: «Non dimenticateli»

Non è il titolo di un film di spionaggio. È l’incarico che il Papa ha conferito al sacerdote madrileno Alberto Ortega Martín, che il 10 ottobre ha ricevuto la consacrazione episcopale dalle mani del cardinale segretario di Stato Pietro Parolin.
A cinquantadue anni, Ortega è ora il nuovo nunzio in Giordania e Iraq. Si è da poco trasferito alla nunziatura apostolica di Amman, città più sicura dell’altra - Baghdad - che esigerà la sua presenza e i suoi servigi. Monsignor Ortega è sicuramente preparato al meglio per svolgere questo compito, con molti anni di attività nella Seconda Sezione della Segreteria di Stato e numerosi viaggi in quelle regioni. Lo posso affermare con certezza, perché conosco personalmente la sua scrupolosità e il suo rigore nello studio della Teologia e del Diritto, ma anche perché sono testimone del suo amore semplice e appassionato alla realtà della Chiesa, così com’è, senza mai indugiare a lamentarsi delle macchie e delle rughe sul suo corpo. E tuttavia, come osservava un prete che è stato suo compagno di studi al seminario di Madrid, la sproporzione è tanto evidente da far stringere il cuore, se non fosse per ciò che il Nunzio stesso ha scelto come motto episcopale: “Ti basta la mia grazia”.
Il cardinale Parolin, che conosce a fondo la carriera di Alberto Ortega nel servizio diplomatico, non ha perso tempo, e gli ha affidato l’incarico di far sentire ai cristiani di questi due Paesi l’abbraccio del Papa in mezzo alle loro prove quotidiane. Prima di partire, Ortega ha trascorso alcuni giorni a Madrid e abbiamo potuto intervistarlo.

Il Segretario di Stato l’ha incaricata di far sapere ai cristiani di Giordania e Iraq che «proprio perché sperimentano la croce in tutto il suo spessore, sono nel cuore della Chiesa e del Papa»... Il Santo Padre in persona le ha chiesto qualcosa in particolare?
Il Papa mi ha sempre incoraggiato molto, e conosco l’interesse con cui vive la situazione del Medioriente, soprattutto da quando la vita dei cristiani si è fatta tanto difficile. Lo si vede dalle innumerevoli volte in cui ne parla pubblicamente. Ritengo che faccia parte della mia missione trasmettere e rendere presente questa vicinanza e questo abbraccio del Papa, che, come ha detto recentemente ai Vescovi degli Stati Uniti, ha «un cuore che si dilata per includere tutti».

In questo periodo, dopo la sua nomina, avrà parlato con i responsabili ecclesiali di questi due Paesi. Come l’hanno accolta? Cosa si aspettano dal nuovo Nunzio?
Mi hanno accolto magnificamente. Alcuni li conoscevo già da tempo avendo visitato il loro Paese per lavoro; molti mi hanno scritto bellissime lettere o mi hanno inviato messaggi. Per mia fortuna di recente erano presenti a Roma tutti i Patriarchi delle Chiese Orientali, che partecipavano al Sinodo sulla famiglia, e ho avuto l’opportunità di salutarli e conversare con loro. La loro risposta è stata preziosa, mostrando un grande desiderio di lavorare assieme e facendomi partecipe della situazione che stanno vivendo i cristiani in quelle terre. Alcuni, come il patriarca di Babilonia dei Caldei, Louis Raphaël I Sako, e il patriarca siro-cattolico, Ignatius Youssef III Younan, hanno voluto accompagnarmi nella mia ordinazione episcopale. È stata una grandissima benedizione poter iniziare o proseguire questa amicizia con loro, che è parte integrante della missione del rappresentante del Papa.

Non so se si può dire che la Giordania sia il versante più “amabile” della sua missione, un Paese dove i cristiani godono di protezione, governato da una monarchia che si fa portavoce del dialogo tra islam e cristianesimo...
Certo, tutte le missioni sono “amabili”, nel senso che si possono amare, soprattutto se si vivono come risposta ad una chiamata. Ma è vero che in Giordania la situazione è più facile, più tranquilla. È l’unico Paese di quella regione che gode di stabilità, anche se ha il problema di ospitare moltissimi rifugiati provenienti dalla Siria e da altri Paesi. È uno Stato in cui la casa reale apprezza il valore della presenza cristiana, e di conseguenza ha favorito un bel rapporto tra cristiani e musulmani. D’altra parte promuove anche un’immagine molto interessante e aperta dell’islam, e questo è un contributo che va molto oltre i confini della Giordania.

Invece la situazione in Iraq è molto dura... Se è d’accordo, parliamo prima dei cristiani che sono stati costretti ad abbandonare le loro case e a rifugiarsi nel Kurdistan. Hanno dimostrato che la fede è il loro tesoro più grande. Cosa può fare la Chiesa, loro Madre, per aiutarli?
Prima di tutto, sostenerli con la preghiera e con la fedeltà al Signore. Loro ci hanno dato una preziosa dimostrazione di fedeltà, sono stati disposti a perdere tutto per affermare la propria fede, il proprio rapporto con Cristo. Abbiamo molto da imparare alla luce di questa testimonianza. Poi, naturalmente, hanno bisogno del nostro aiuto materiale, perché la loro situazione continua a essere molto precaria. A lungo termine vanno sostenuti soprattutto nell’educazione dei bambini e dei giovani, nonché aiutati perché possano far ritorno alle proprie case. Per far questo sarà necessario lavorare a tutti i livelli, anche sul piano politico, affinché possano ritornare a casa in tutta sicurezza, con una prospettiva di lavoro e di inserimento in una società cui desiderano dare il proprio contributo, come hanno sempre fatto.

E qual è la situazione di coloro che vivono a Baghdad o in altre zone del Paese? Recentemente il patriarca Sako ha denunciato soprusi e mancanza di protezione...
Bisogna che stiamo molto vicini a loro. La scelta di restare implica un grande amore per la presenza cristiana e anche un amore per la loro patria, per un Paese cui appartengono fin dalle origini... Molti desiderano restare malgrado le difficoltà. C’era un bel rapporto con i musulmani, che in alcuni casi si è conservato e in altri si è deteriorato. In questo senso ci sarà molto da ricostruire. Talvolta, in un contesto di instabilità, gli estremisti approfittano per inserirsi creando un grave danno. Ciò ha provocato ferite e l’unica risposta sarà il perdono che può venire solo da Dio. I leader religiosi, in questo contesto, hanno la grande responsabilità di promuovere il dialogo e la riconciliazione tra tutti i soggetti.

Alla vigilia di partire per questa autentica periferia, come direbbe Francesco, cosa chiede a noi cattolici occidentali in generale?
La cosa più importante è non dimenticare questi cristiani. A volte, quando accade una grande tragedia, ci ricordiamo di loro, ma poco dopo scompaiono dalla scena. Non dimenticarli, accompagnarli con la nostra preghiera e il nostro aiuto materiale, e anche imparare dalla loro testimonianza. Io credo che possa essere un grande stimolo per far crescere la nostra fede, questo tesoro che dobbiamo porre al servizio degli altri.