Qualcosa è cambiato

I cristiani? «Nostri alleati nella redenzione del mondo». La Chiesa? «Sa mettersi in discussione come pochi». Nell’anniversario della "Nostra Aetate" (e dopo la visita del Papa in Sinagoga), alcune dichiarazioni dal mondo ebraico. Che hanno da insegnarci
Ignacio Carbajosa

Questione di passi, che avvicinano. Sono trascorse poche settimane dalla visita di papa Francesco al Tempio Maggiore di Roma. Ebrei e cristiani «devono sentirsi fratelli», ha detto il Santo Padre, facendo propria l’espressione di Giovanni Paolo II: «Voi siete i nostri fratelli e le nostre sorelle maggiori nella fede». Bergoglio era il terzo Pontefice a fare questo passo. Quella chazaqà ricordata dal rabbino capo, Riccardo Di Segni, ovvero l’atto ripetuto tre volte che nella tradizione giuridica rabbinica diventa consuetudine fissa: «Decisamente il segno concreto di una nuova era», ha commentato.
Ma di storico nel dialogo tra ebrei e cristiani non c’è solo l’incontro in Sinagoga del 17 gennaio. Nel cinquantenario della Dichiarazione Nostra Aetate del Concilio Vaticano II, che segnò un cambiamento nella posizione dei cattolici rispetto al popolo ebraico, da quel mondo arrivano segnali molto significativi. L’anniversario della Dichiarazione conciliare non è rimasto relegato a qualche celebrazione in ambito ecclesiastico, ma è diventato un’occasione privilegiata per un significativo numero di autorità religiose ebraiche per compiere un importante passo di avvicinamento al mondo cristiano in generale, e alla Chiesa cattolica in particolare.
Alla fine di novembre la comunità ebraica di Francia, con il suo rabbino capo, e a pochi giorni di distanza un nutrito gruppo di rabbini ortodossi d’Israele, Stati Uniti ed Europa, hanno reso pubbliche le proprie dichiarazioni in cui affermano che è giunto il momento di accettare la mano offerta loro dai cristiani da cinquant’anni e di fare un passo verso il riconoscimento del cristianesimo come un cammino «complementare e convergente».
Sarebbe sbagliato lasciar passare inosservate le due dichiarazioni, che pur con diverse sfumature concordano sul punto essenziale, e non si limitano ad una generica dichiarazione d’intenti. Esse contengono, infatti, alcune affermazioni riguardo al cristianesimo e alla Chiesa cattolica che sono davvero nuove in bocca ai nostri fratelli ebrei.
I rabbini ortodossi sono quelli che si spingono più oltre, affermando che «il cristianesimo non è un accidente né un errore, ma il risultato della volontà divina e un dono per le nazioni» e riconoscendo «la valenza costruttiva nel tempo presente del cristianesimo come nostro alleato nella redenzione del mondo». La necessità di questo lavoro comune si fonda sulla consapevolezza che «nessuno di noi può portare a compimento da solo la missione divina in questo mondo».
Da parte loro, gli ebrei francesi definiscono questo anniversario della Nostra Aetate come una «santa chiamata», come l’inizio di un Giubileo di fratellanza, con il desiderio di «accogliere il cristianesimo, in sinergia con l’ebraismo, come religione di nostri fratelli e sorelle».

Toccati dal mea culpa. Questo passo importante del mondo ebraico ci offre alcuni insegnamenti in merito al cammino della Chiesa cattolica. In primo luogo mostra la fecondità della posizione del Concilio nella sua difesa della libertà religiosa e nell’apertura alle religioni non cristiane, una posizione che suscitò reazioni in alcuni ambienti cattolici (a cominciare da monsignor Marcel Lefebvre). Benché sia stato necessario attendere cinquant’anni - nei quali il mondo ebraico ha potuto verificare come quella dichiarazione abbia reso fecondi la coscienza e gli atti della Chiesa -, il gesto delle autorità ebraiche ci insegna che la richiesta di perdono e il riconoscimento della propria colpa, senza chiedere nulla in cambio, introducono una novità in grado di cambiare vecchie dinamiche.
In effetti nella Nostra Aetate la Chiesa cattolica riconosce che la colpa della morte di Cristo non può essere imputata «né indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi, né agli ebrei del nostro tempo». Di conseguenza afferma che non si possono indicare gli ebrei come «rigettati da Dio, né come maledetti». Occorre con dolore riconoscere che per secoli la Chiesa ha indirizzato queste accuse agli ebrei, e per di più ha consentito che in conseguenza di esse fossero trattati in maniera vessatoria. Qui, in Spagna, accanto a lodevoli esempi di convivenza, vi sono stati deplorevoli episodi che lo confermano.
È davvero sorprendente come la dichiarazione degli ebrei francesi si lasci toccare da questo mea culpa della Chiesa: «Questo cambiamento non è solo, per noi ebrei, una felice presa di coscienza; esso testimonia anche una capacità non comune di mettersi in discussione». Certamente riconoscere la propria colpa non è una cosa alla quale siamo molto abituati al giorno d’oggi. Quando accade, abbiamo sempre l’impressione di trovarci di fronte ad una posizione vera, umana, e per questo capace di generare umanità intorno a sé.
Un secondo insegnamento riguardo al cammino della Chiesa rimanda alla necessità di confrontarsi continuamente con la Scrittura, fonte che regola la nostra vita. «Da principio non fu così», potremmo dire parafrasando Gesù (cfr. Mt 19,8) riguardo all’atteggiamento dei cristiani verso gli ebrei. Se ci fu uno che sperimentò nella sua carne tutto il dolore per come la maggior parte degli ebrei volgeva le spalle a Cristo, questo fu san Paolo. Fariseo, rigido osservante della legge ebraica, persecutore dei cristiani, la sua conversione lo condusse a predicare Cristo crocifisso, «scandalo per i Giudei» (1Cor 1,23), e a soffrire la prigionia e la morte per l’opposizione dei suoi antichi correligionari. Tuttavia, nei capitoli 9 e 11 della Lettera ai Romani, nei quali si sofferma sul rifiuto di Israele, non si respira odio, ma il desiderio di penetrare il mistero del disegno divino.

Una grande notizia. «Ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua. Vorrei infatti essere io stesso anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne» (Rm 9,2-3). Il dolore di Paolo non gli impedisce di riconoscere che Dio non ha rifiutato il suo popolo: se i giudei «quanto al Vangelo (...) sono nemici», «quanto alla elezione, sono amati, a causa dei padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!» (Rm 11,28-29). E perché i cristiani di tradizione non ebraica non si inorgogliscano, Paolo propone loro un’immagine che andrebbe oggi rivalutata: noi pagani che abbiamo riconosciuto Cristo siamo stati innestati, come rami frondosi, nel verde ulivo di Israele. Da quest’ulivo molti rami naturali sono stati tagliati, con la speranza che anche questi rami finiranno con l’essere innestati quando l’umanità intera sarà riconciliata con Dio (cfr. Rm 11,17-24).
Il nuovo incontro del mondo ebraico con il mondo cristiano apre grandi prospettive. Costituisce, secondo quanto affermano gli ebrei francesi, «un primo passo e un invito a fare del dialogo fra tutte le religioni la pietra angolare di una umanità riconciliata e pacificata». In un mondo squassato dalla violenza è una grande notizia che antichi avversari non solo arrivino a tollerarsi, ma si riconoscano come fratelli.
(Una prima versione di questo articolo è uscita in spagnolo sul quotidiano Abc)