Nel cuore di Dio

È l’autore della celebre intervista a Benedetto XVI (citata da Julián Carrón a Rimini), che ha colpito tutti per i riferimenti alla Chiesa e alla misericordia. Ora padre Jacques Servais spiega perché il Papa emerito parla di «evoluzione del dogma»
Roberto Graziotto


Jacques Servais, 67 anni, gesuita, allievo di Hans Urs von Balthasar e studioso della sua opera, direttore a Roma della “Casa Balthasar”, è il teologo che ha realizzato l’ormai famosa intervista a Benedetto XVI, contenuta nel libro Per mezzo della fede (a cura di Daniele Libanori, San Paolo) e citata spesso, di recente. Anche agli ultimi Esercizi spirituali della Fraternità di CL (vedi il libretto allegato a questo Tracce, ndr.). Tra i vari temi, in quelle pagine il Papa emerito si sofferma sulla «profonda evoluzione del dogma» secondo cui si pensava che i non battezzati fossero tutti dannati. Il Concilio superò questa visione nella consapevolezza che Dio non può lasciare andare in perdizione tutti i non battezzati e che anche una felicità puramente naturale per essi non rappresenta una reale risposta alla questione dell’esistenza umana.
È di questa «evoluzione del dogma» che vogliamo parlare con padre Servais. Il momento che viviamo, infatti, è cruciale per la vita della Chiesa. Essa è parte di una società che fatica ad accettare qualsiasi verità. E per questo comprendere cosa essa è chiamata a trasmettere e soprattutto come, anche rispetto a quei princìpi che nei suoi due millenni di storia ha compresi e fatti propri, è argomento decisivo. Sulla questione degli “infedeli” e della loro “perdizione”, Joseph Ratzinger si è espresso con la franchezza che gli è abituale: «Non c’è dubbio che in questo punto siamo di fronte a una profonda evoluzione del dogma».

Come dobbiamo intendere l’affermazione del Papa emerito? Si tratta di una messa in discussione di quanto la Chiesa ha insegnato fino ad ora a livello dogmatico su questo tema?
In realtà, il Papa emerito non poneva la sua risposta su un piano propriamente dogmatico, bensì pastorale. La sua era un’osservazione di carattere anzitutto storico: «Se è vero», constatava, «che i grandi missionari del XVI secolo erano ancora convinti che chi non è battezzato è per sempre perduto - e ciò spiega il loro impegno missionario -, nella Chiesa cattolica dopo il Concilio Vaticano II tale convinzione è stata definitivamente abbandonata». A differenza del passato in cui ci si rappresentava la massa damnata, pochissimi contemporanei possono immaginarsi un Dio che lascia andare dei non battezzati alla perdizione.

A che cosa fa riferimento Benedetto XVI quando si sofferma, appunto, su questa «profonda evoluzione del dogma»? Ci sono certamente delle nozioni cristiane che vanno valutate in base al sottofondo storico della loro elaborazione. Ma qui non ci troviamo al cospetto di una questione assolutamente importante dal punto di vista della dottrina e del dogma, che non può essere diluita a livello pastorale?
Il teologo Louis Bouyer osserva che dopo il Rinascimento «la scoperta della moltitudine di popolazioni non ancora raggiunte dall’evangelizzazione, e in epoca più recente la massiccia scristianizzazione di popolazioni che in precedenza erano (o sembravano) cristiane, hanno portato molti pensatori cristiani a porsi in termini nuovi il problema della salvezza degli infedeli». Occorre anche tener presente un certo processo di chiarificazione. Se vi è un cambiamento di accento fra l’insegnamento formalizzato nel Catechismo del Concilio di Trento circa «la sentenza dei buoni e quella dei cattivi», e la formula, molto più contenuta, del Catechismo della Chiesa cattolica (si vedano i numeri 633 e 1037), è senz’altro perché ci si è accorti maggiormente delle strettoie di una teologia “agostiniana”, riformata e giansenistica dell’elezione, con l’immagine veterotestamentaria che essa veicola, di un Signore che predestina o rigetta. Ma il Papa emerito pensa anzitutto alle provocazioni della modernità per cui «non è più l’uomo che crede di aver bisogno della giustificazione al cospetto di Dio, bensì è Dio che [dovrebbe] giustificarsi a motivo di tutte le cose orrende presenti nel mondo».

Non ci troviamo di fronte ad un totale capovolgimento del modo tradizionale di pensare? E non c’è una sovraccentuazione del tema della misericordia?
Anche senza seguire questa linea di pensiero, che capovolge totalmente le prospettive, oggi il credente si sente come obbligato a confrontarsi con il problema della miseria umana e della responsabilità di Dio nei confronti dell’uomo. Finché si rifletteva dal di dentro di una “civiltà cattolica”, si poteva avere l’illusione che tutto il genere umano sarebbe diventato cristiano. Ma dal momento in cui si è capito che il Popolo dei credenti in Gesù Cristo costituisce e potrebbe sempre di più costituire una minoranza sulla terra, la domanda sulla salvezza dei non cristiani si è imposta; e, con essa, il tema della misericordia di Dio verso l’umanità sofferente. L’idea della bontà divina diventa, così, il perno attorno al quale ruota la nostra fede o meglio la nostra speranza: «È la misericordia quello che ci muove verso Dio, mentre la giustizia spaventa al suo cospetto», sostiene Ratzinger rifacendosi a Giovanni Paolo II e alle visioni di suor Faustina che lo hanno tanto segnato.

Con Francesco ci siamo abituati a questo tipo di accentuazione del tema della misericordia, ma forse alcuni di noi non si aspettavano qualcosa di analogo da parte del Papa emerito...
Chiediamoci anzitutto cosa sia dogma e perché possiamo parlare - al plurale - di dogmi. Il dogma al quale va l’adesione dei fedeli è il centro verso il quale tutto mira e dal quale tutto si illumina: Gesù Cristo, il Dio fatto uomo, e cioè la Croce e Risurrezione quale punto culminante e compimento della venuta di Dio per il mondo. Questo - ribadisce sempre di nuovo Hans Urs von Balthasar con la Tradizione più genuina della Chiesa, di cui Ratzinger è un’interprete autorevole - è la Parola definitiva di Dio che si offre in modo eccedente alla ricerca secolare dell’uomo. È in essa che Dio manifesta per eccellenza se stesso come un Essere-per-noi. Quest’evento con cui, dopo una lunga preparazione, si è rivolto una volta per sempre all’umanità, è il libero - non dovuto - dono del suo amore, che esaudisce ma anche supera assolutamente, sempre di nuovo, tutto ciò che potevano essere i nostri desideri e le nostre attese.

Se tutto ciò che dice è vero, la tanto sottolineata discontinuità tra Benedetto XVI e Francesco - a parte la differenza di carattere o di stile tra il Papa tedesco e quello argentino - sembra essere un’invenzione dei media...
In verità ci si accorge facilmente di quanto, su questo punto centrale, i due ultimi Papi si incontrino perfettamente. L’intervista mette in luce il forte legame che - al di là dello stile tanto diverso - li unisce. Il Papa gesuita non smette dal proclamare alla Chiesa e al mondo il Cristo crocifisso e risorto, la cui “carne” invita a contemplare nei poveri e negli emarginati. Alla scuola di sant’Ignazio, concepisce l’Incarnazione quale un processo che continua a segnare questa storia come l’inserimento dell’unico Spirito vivo, assoluto, di Dio, nella fragilità e molteplicità delle condizioni contingenti dell’uomo. Vede nella Croce e Risurrezione il centro di una storia che si svolge fra la libertà di Dio e la libertà dell’uomo, e come l’incrocio di due dimensioni e realtà opposte: nell’evento finito la pienezza infinita, nel tempo l’eternità, la misericordia di Dio che splende attraverso la miseria e la colpa umana e l’avvolge. Anche le “aperture” di Francesco sulla famiglia stanno in continuità con il grande Pontificato che lo ha preceduto. La prima giustificazione, ribadiscono entrambi i Pontefici, è il perdono che Dio opera nella Croce di suo Figlio. Egli è pronto a perdonare prima che gli uomini si pentano. Così Cristo - con i suoi veri discepoli dietro a lui - non fa dipendere la misericordia dal pentimento dei colpevoli.