Non tolleranza, ma conoscenza dell'amato
«La pace che nasce dalla fede». Ovvero, da un «incontro» pieno di interesse e amore per l'altro proprio perché "altro". Un percorso nel pensiero di Nicola Cusano che, sei secoli fa, parlava del dialogo (e dell’islam) aprendo una prospettiva diversaÈ l’anno 1453: gli eserciti ottomani mettono a ferro e fuoco Costantinopoli, con una violenza inaudita verso le persone ed i tesori culturali del passato e minacciano di invadere la penisola italiana fino a conquistare Roma.
Tutta Europa è scossa e da più parti si invoca la crociata contro i turchi di Mehmet II. Il futuro papa Enea Silvio Piccolomini scrive al filosofo e Cardinale tedesco Nicola di Cusa (Nicola Krebs, il Cusano, 1401-1464. Per una bibliografia essenziale relativa alla vita di Cusano e alla sua opera, rimando a quella contenuta in: D. Monaco, Cusano e la pace della fede, Città Nuova, Roma 2013, 149-162, a cui sono debitore per queste riflessioni), e lo invoca di esortare Europa alla Crociata contro l’Impero Ottomano con queste parole - in cui mostra la sua finezza di umanista - : «Sarà dunque ora una seconda morte per Omero, per Pindaro, per Menandro e per tutti i più famosi poeti; ora avverrà l’ultima distruzione dei filosofi greci».
Il Cusano era una delle grandi personalità d’Europa, profondamente partecipe di tutte le vicende culturali, religiose e politiche del continente. La sua straordinaria visione filosofica, come quella di altri precursori in quell’inizio del Rinascimento (basti pensare a Marsilio Ficino o Pico della Mirandola) avvertiva l’urgenza di mostrare la verità dell’esperienza cristiana come risposta alle nuove istanze, che mettevano al centro il soggetto umano, in un mondo i cui confini erano sempre meno coincidenti con la «cristianità» dei secoli precedenti. Per questo la sua risposta ha un’altra prospettiva: invece dell’invito alla Crociata scrive De pace fidei, "La pace della fede".
In quest’opera s’immagina un grande Concilio Celeste in cui tutte le espressioni religiose conosciute dal Cusano dialogano con il Cristo, accompagnato e rappresentato da Pietro e Paolo: in questo dialogo si rende evidente che – quantunque la Chiesa sia la presenza di Cristo nella storia – nemmeno ella può sentirsi padrona di una Verità divina che trascende i suoi limiti e che è cercata e conosciuta (in modo incompleto ma reale) anche dalle altre esperienze religiose.
Il dialogo tra chi conosce la Verità (i cristiani) e tutti gli altri cammini, non è scontro, ma confronto nella coscienza che la Verità, rivelata in Cristo definitivamente, non è per questo posseduta totalmente, come una proprietà di cui si può far quel che si vuole, ma attinta sempre in modo limitato. «Ciò che deve essere detto non può essere espresso in modo adeguato. Per questo la moltiplicazione dei discorsi è utilissima» (N. Cusano, De mente, 4. Anche le citazioni seguenti sono dello stesso testo).
La conoscenza delle altre prospettive non è quindi legata a una generica tolleranza, che nella modernità si intende come una messa tra parentesi della questione della verità, per cui «la pretesa veritativa renderebbe impossibile la tolleranza». Acutamente nota Davide Monaco nel testo citato: «Si tollera ciò che non si ritiene vero, nel senso etimologicamente più autentico del tollere come “sopportare con pazienza”». Invece la conoscenza dell’altro è un’apertura necessaria per andare più al fondo dell’abisso di Dio. «Sebbene la verità non sia da confondere con le sue formulazioni, essa è indisgiungibile, inseparabile, dalla molteplicità delle sue espressioni, le quali non sono meri accidenti, ma incarnazioni di essa che rivelano la sua natura sovrabbondante e ne svelano l’inesauribile ricchezza».
La ragione che rende indispensabile il dialogo e il confronto pacifico è quindi il fatto che l’identità si approfondisce nel confronto con l’alterità. «Conoscere è conoscersi - aggiunge Cusano - e ogni conoscenza, ogni approfondimento della verità, è allo stesso tempo un conoscere, un approfondire se stessi, la verità del proprio sé. La verità è come uno specchio guardando nel quale si vede l’immagine di sé, Immagine che non è mera figura ma piuttosto esemplare di se medesimi, ossia la propria verità autentica e più profonda».
Vorrei notare la connessione di queste riflessioni con l’insistenza moderna e contemporanea sul soggetto. Il soggetto, la mens sta al centro del conoscere, ma Cusano salvaguarda l’alterità della verità che si manifesta in tutte le cose, e che si rivela fonte inesauribile della conoscenza della verità del soggetto stesso che conosce.
Per Nicola di Cusa, allora, le divisioni e le guerre non nascono dalla religione vera, che porta la coscienza della trascendenza del divino, ma dalla riduzione della mens a misura e dall’assolutizzazione del punto di vista. È famosa una sua emblematica frase: «Dio stesso ha detto: “Io sono la Verità” e non: Io sono la consuetudine!» (”Ego sum veritas”, et non dixit Ego sum consuetudo!» N. Cusano, Sermo XXIX, XVI/1, 9). L’origine dei conflitti è per lui la tentazione degli uomini di impossessarsi della verità come di un oggetto a sua mercede.
L’immagine che il Cusano usa a proposito di questa quasi inevitabile tentazione è quella di un ritratto che, ovunque l’osservatore si ponga, dà l’impressione che stia guardando solo quell’osservatore. I molti osservatori potrebbero dire che guarda solo ognuno e sarebbe vero, ma falso sarebbe non accettare la prospettiva altrui. «E mentre sta attento al modo in cui quello sguardo non abbandona nessuno, vede che si prende cura con tanta dedizione di ciascuno, come se si curasse solo di colui che fa esperienza di essere guardato e di nessun altro, al punto che non possa nemmeno essere concepito da parte di quello che egli guarda che esso abbia cura di un altro» (N. Cusano, De visione Dei, Praefacio, 4).
Si tratta di un errore di prospettiva: l’uomo si sente al centro di tutto, ma in realtà al centro è Dio. Così credendo di essere depositario della completezza della rivelazione sente le altre prospettive come obiezioni al vero e non come possibilità di arricchimento della propria prospettiva. Con una bellissima e densa frase Cusano afferma il contrario: «Ogni spirito intellettuale vede in te, Dio mio, qualcosa che, se non fosse rivelato agli altri, essi non coglierebbero te, loro Dio, nel modo migliore possibile. Gli spiriti pieni d’amore si rivelano reciprocamente propri segreti; la conoscenza dell’amato si accresce grazie a ciò e si accende il desiderio di lui e la dolcezza della gioia» (N. Cusano, De visione Dei, 25).
Non si tratta solamente quindi di un dialogo «politico» tendente alla mera eliminazione dei conflitti: come vediamo, per Cusano la conoscenza del cammino dell’altro permette a ogni religione e cultura essere più se stessa. Come ancora acutamente osserva Monaco: «Il dialogo interreligioso e interpersonale non è un elemento estrinseco e secondario rispetto al possesso della verità di fede, finalizzato a evitare semplicemente il conflitto e a favorire la pacifica convivenza sulla terra, ma un momento essenziale della fede stessa, della ricerca della verità divina, un passaggio imprescindibile nell’approfondimento della propria fede e prospettiva personale e religiosa» (D. Monaco, Cusano, 125).
Il cardinale tedesco non nega l’unicità della rivelazione in Cristo - addirittura, per i lettori moderni, fa difficoltà la sua affermazione evidente e chiara dell’unicità salvifica di Gesù -, ma mostra che Cristo non è «qualcosa» che si possa possedere ma solo accogliere. In Cristo stesso si realizza la vera e unica coincidentia oppositorum, perché in lui segno e significato, massimo assoluto e massimo concreto, coincidono, come nota Henri de Lubac: «Per Nicola, il Cristo è allo stesso tempo il maximum absolutum e il maximum concretum; perciò egli è la “concordanza” di tutte le differenze, sopprime tutte le contrarietà e unisce senza iato il massimo assoluto, che è Dio padre, e il massimo concreto, che è il mondo […] Il Gesù della storia e il “Cristo cosmico” non sono che una sola cosa» (H. de Lubac, Pico della Mirandola. L’alba incompiuta del Rinascimento, Jaca Book, Milano 1994, 269-270). È la centralità storica e cosmica di Cristo che fa scoprire i semina Verbi dei Padri apostolici in ogni intento umano di dire l’ineffabile che si manifesta.
Si comprende la portata singolare di questa visione nella cultura del suo tempo, per di più proposta da un uomo che non stava ai margini della Chiesa cattolica (sará poi il Vicario del Papa per la Diocesi di Roma). L’umanesimo iniziava in modo profondamente religioso. Il titolo La pace della fede si deve quindi intendere non come un auspicio ("che ci sia pace tra le fedi"), ma come un genitivo di possesso: "La pace che nasce dalla fede". È dal dialogo tra le fedi che nasce la pace, perché si tratta di un vero incontro pieno d’interesse e d’amore all’altro proprio perché altro, non riducibile quindi a tolleranza illuministicamente intesa.
Nicola scrive, presentando la sua opera all’amico Juan de Segovia, Arcivescovo di Cesarea, il 28 dicembre di quel 1453: «Se noi procediamo secondo la dottrina di Cristo, noi non ci inganneremo, ma il suo Spirito parlerà attraverso la nostra bocca e nessun avversario di Cristo potrà resistergli; ma se noi scegliamo di attaccare attraverso un’invasione armata, dobbiamo temere, usando la spada, di perire poi a causa della stessa spada. Così dunque, solo la difesa è senza pericolo per il cristiano». Anche davanti alla violenza inaudita della presa di Costantinopoli, la difesa della verità, per di Cusa, non poteva che valersi della bellezza disarmata della verità stessa.