"Giuda portato da Gesù", Basilica di Santa Maria Maddalena a Vézelay

L'anno che non finisce

Si chiude il Giubileo della Misericordia. Ma non «il lavoro per aprirci ad essa». Il Papa, i migranti che «riflettono chi siamo», che cosa ci aspetta ora... Parla padre Mauro Lepori, abate generale dei Cistercensi (da Tracce, novembre 2016)
Alessandra Stoppa

Una pecora adulta può arrivare a pesare cento chili. Come una persona. «Portarla sulle spalle è un sacrificio». Padre Mauro-Giuseppe Lepori, abate generale dei Cistercensi, smonta ogni visione romantica del Buon pastore, per cui ce lo immaginiamo che, lasciato tutto per andare in cerca della sola pecora smarrita, «magari poi se la mette in spalla e saltella per le montagne fischiettando».
Il realismo del Vangelo racconta un’altra storia, dove i corpi hanno un peso e l’amore è concreto, soffre, fatica per l’altro, e le parole hanno valore, i gesti una profondità. «In quella pecora vedo la mia “pesantezza”. O penso a quando sentiamo pesanti gli altri. Eppure, siamo amati». Siamo perdonati, caricati in spalla e portati. Come Gesù porta Giuda, che l’ha tradito, nel capitello medievale della Basilica di Vézelay, davanti a cui papa Francesco ha detto: «Lui prendeva la gente com’era, non come doveva essere».
Il 20 novembre si chiudono in tutto il mondo le Porte Sante e si conclude il Giubileo, iniziato l’8 dicembre scorso. Non c’è bilancio che tenga, ma in questo dialogo padre Lepori ci spiega perché il tempo di grazia «non finisce». Con lo sguardo fisso al Vangelo, legge l’Anno Santo come lo “spazio” che Gesù ha creato mentre la folla lo assaliva, quando ha chiesto ai discepoli di poter parlare su una barca distante dalla riva.

Perché quel gesto di Gesù ci aiuta a comprendere il tempo dedicato alla misericordia?
Noi vorremmo, come la folla, toccare Gesù e ottenere un effetto immediato, magico. Dedicare un anno del cammino ad un tema, ad una realtà, è come prendere quella distanza: per ascoltare, per darci il tempo di prendere coscienza della misericordia, di guardare cosa essa chiede alla mia libertà, sia per accoglierla che per offrirla. Mi colpisce perché Gesù ha chiesto la barca non per fuggire la folla, ma perché quella gente voleva i miracoli e non lo ascoltava. Lui è venuto, innanzitutto, per rivolgersi alla libertà dell’uomo, ed è essenziale che possa parlare ed essere ascoltato. È essenziale che l’uomo, ciascuno di noi, si ponga davanti a lui con un silenzio. Anche rispetto alle aspettative immediate.

Che cosa ha rappresentato il Giubileo per la vita della Chiesa?
È stato l’approfondimento di un mistero. Un approfondimento di cui abbiamo bisogno non perché ci sia un anno consacrato, ma perché è vitale. Il Papa ha rimesso la misericordia al centro della nostra vita. E l’ha fatto con i suoi gesti e con i gesti che ci chiedeva: ci ha fatto esercitare, non solo come attenzione, anche come esperienza. Innanzitutto, diffondendo così capillarmente la possibilità di confessarsi, di ottenere l’indulgenza, di meditare su questo mistero e di viverlo, anche attraverso le opere di misericordia corporali e spirituali, in modo incarnato. Per questo l’Anno della Misericordia non finisce.

Spieghi meglio.
Siamo diventati più coscienti che la misericordia è una realtà che c’è. È il mistero che è al cuore della Chiesa e ne abbiamo un bisogno totale. Il Giubileo è stato più corto di un anno solare e questo ci fa accorgere che il problema non è vivere “un anno santo”, ma vivere la vita cristiana, risvegliarci e ridestarci ad una coscienza che è possibile sempre. Quindi, l’importante è che non si chiuda l’esperienza della misericordia. E il nostro lavoro per aprirci ad essa.

Cosa ha compreso di più in questo approfondimento?
Il Papa ha indetto l’Anno Santo di fronte alle ferite del mondo e della Chiesa: sia quelle del peccato, sia quelle inferte dalla storia, dalle guerre e dalle catastrofi. Uno degli aspetti essenziali, a mio parere, è che ci ha chiesto di renderci conto che l’uomo, prima di analizzare e definire il suo malessere, ha bisogno di sapersi accolto. È bellissimo che san Benedetto nel Prologo della Regola metta in scena Dio che, in mezzo alla moltitudine, grida: «C’è un uomo che vuole la vita e desidera giorni felici?». Questo invito del Signore è la misericordia. È una proposta all’uomo così come è, e così com’è in questo momento della storia. Chiunque risponda «io», può fare questa esperienza.

E dopo che l’uomo ha detto «io», come continua?
San Benedetto scrive: «Dio ti dice: “Se vuoi avere la vita vera ed eterna, trattieni la tua lingua dal male e le tue labbra non proferiscano menzogna; fuggi il male e fa’ il bene, cerca la pace e seguila”».

La risposta alla domanda di felicità è una strada da percorrere?
La risposta è un cammino di conversione: il cammino per non lasciarci andare alla tendenza che abbiamo dentro, che è quella di non essere misericordiosi. In fondo, la Chiesa a volte sembra non rispondere alle esigenze dell’uomo proprio perché offre un cammino. Non è miracolistica: quando lo è, allora dopo è fragile; si tratta di esperienze o proposte che non aiutano le persone a crescere, a diventare libere e adulte. Quando si offre una soluzione che non diventa cammino di conversione, di libertà, la persona rimane fragile. La Chiesa propone una strada per una vera felicità, non per soddisfazioni immediate come quelle che offre la società. Rispondere «io» a Dio che ci vuole felici, vuol dire essere coscienti del nostro vero bisogno. Noi siamo confusi nell’identità che ci diamo, la facciamo coincidere con mille desideri, invece è desiderio di infinito: di una felicità che solo Dio può dare. Allora per dire veramente «io», uno deve fare come un silenzio, deve rinunciare a soddisfazioni che rimpiazzano la felicità.

Il Papa ha sempre detto che questo sarebbe stato un tempo favorevole se avessimo imparato «a scegliere “ciò che a Dio piace di più”, cioè la sua misericordia, il suo amore, la sua tenerezza». Cosa significa questo scegliere, preferire?
Il figliol prodigo - come del resto noi - non è capace da sé di preferire il padre: risponde alla preferenza del padre per lui. E non c’è preferenza al di fuori di una misericordia! Il figlio torna chiedendo solo un lavoro e da mangiare, ma in quel perdono scopre una pienezza di vita: se sceglie il padre, ha tutto. Anche il fratello maggiore, benché rimasto a casa, sceglieva altro: fino a quel momento non aveva preferito il padre, né si era lasciato preferire; la sua affezione era tutta altrove, negli amici, nel capretto, nella metà di eredità. La pienezza coincide invece con quel rapporto, ma è una grazia che nessuno dei due ha prodotto. È una gratuità. La questione dello scegliere e preferire è proprio lasciar convertire la nostra affezione, anche il desiderio di vita che abbiamo, verso il Padre. Questo c’è da sperare di aver imparato nel Giubileo: bisogna sempre partire dalla preferenza di Dio per noi, da quello che siamo per Lui.

Che cosa, in particolare, l’ha accompagnata durante quest’Anno?
Mi colpisce che, mentre approfondiamo il mistero della misericordia, continuano a passarci davanti le immagini dei profughi sui barconi nel Mediterraneo. Questa umanità così misera arriva in balìa delle onde per farci vedere la nostra situazione come in uno specchio: riflettono quello che siamo, in che stato siamo noi, perché noi per primi fluttuiamo nella realtà senza punti di ancoraggio, senza stabilità. I migranti, in fondo, ci rivelano la mancanza di stabilità che non ci permette di offrire loro una dimora. Io non penso che l’Europa non sappia o non voglia accogliere, ma quasi non può: non è in grado. Queste persone arrivano dal mare, ma non finiscono sulla terra: continuiamo a farle fluttuare anche sul continente, perché non possiamo offrirgli una dimora se non l’abbiamo.

E come incide il Giubileo su questo?
Il Papa ci ha fatto vedere che, accogliendo, si diventa quello che si sceglie. Quello che ci darebbe stabilità sarebbe il rischio di accogliere. Accogliendo, diventiamo dimora. Noi mettiamo la nostra certezza nelle sicurezze che teniamo in mano, invece di metterla in un rapporto, nell’appartenenza a qualcuno. Anche noi ci sentiamo minacciati, a vario modo, dagli altri, perché corrodono il nostro spazio di falsa sicurezza. Mentre la consistenza è il rapporto con il Padre. Questa è la misericordia: sperimentare che in questa appartenenza io ho una solidità che non mi sarà mai tolta, che niente e nessuno mi può sottrarre, per la quale quindi posso accogliere tutti e perdonare tutto.

Come sperimenta questa consistenza che niente può toglierle?
Proprio nell’appartenenza alla Chiesa, che mi fa fare esperienza della misericordia del Signore: mi fa credere in essa, me la fa domandare e me la dà, prima di tutto nei Sacramenti e nella comunione fraterna. La Chiesa mi permette di fare veramente esperienza di una realtà che c’è. Ed è una realtà a cui posso tornare, anzi è un’esperienza che si fa proprio “ritornando”, dopo essere venuti meno. Questo rende aperti all’altro che è diverso, disturba, ferisce.

Tanta gente non sa nemmeno cosa sia l’Anno della Misericordia. Come questa esperienza raggiunge tutti?
Qui si tratta di tutta la missione che il Papa vuole, spera, che nasca dal Giubileo: che l’uomo conosca la misericordia. Come c’è stato bisogno di un Anno Santo, così c’è bisogno di luoghi, di comunità che incarnino quell’abbraccio che ama e accoglie. La Chiesa rimane per questo, per la missione, che è trasmettere un’esperienza. Allora è importante farla l’esperienza, che quest’anno si sia fatta esperienza.

Perché è l’unico modo per trasmetterla?
Noi siamo complicati e pensiamo che comunicare questa esperienza sia più difficile del perdono che abbiamo ricevuto. Il punto è abbandonarci a questa semplicità di trasmettere un amore che ci è donato. Subito rinascono le difese delle nostre sicurezze: è come se, dopo, il figliol prodigo, cominciasse a trovare sicurezza nelle cose che ri-possiede. Dimenticando che, adesso, tutta la sua consistenza è quell’abbraccio che ha ricevuto.

Parlando della misericordia, lei fa riferimento a un episodio della vita di san Benedetto. Quando i monaci di Vicovaro tentano di avvelenarlo, lui si alza «con il volto affabile e l’animo tranquillo», e dice: «Dio abbia misericordia di voi, fratelli».
Benedetto può reagire così perché attinge a un’esperienza di misericordia che ha fatto e che in lui è arrivata in profondità: coincide con il suo cuore. Per questo il suo volto è pacifico e il suo animo tranquillo. Lui ha coltivato questa memoria, che Dio ci perdona tutto, per cui alla prima occasione trasmette questa esperienza. E una situazione di morte diventa subito proposta di vita.

Una delle provocazioni più forti è a vivere il rapporto tra verità e misericordia. Cosa ci ha insegnato l’Anno Santo su questo? E come permettiamo che la misericordia prevalga?
Ci siamo troppo abituati a pensare che la disciplina sia la condizione per un cammino. La disciplina, invece, è l’esito. Se nella mia vita ho capito e accettato certi valori, certe esigenze morali, è perché sono stato amato prima che mi venisse data la legge. La legge non mi ha mai salvato, invece la misericordia mi ha fatto capire che anche il principio mi vuole bene. Per esempio, nella vita consacrata, uno si sente prediletto, scelto, chiamato e dice “sì”, ma si accorge che vivere veramente la povertà, la castità e l’obbedienza non è una condizione, è il frutto. Per fare il cammino bisogna essere attirati: il giudizio morale, disciplinare, da solo è una condanna, mentre il giudizio trasmesso da un amore attira, perché si capisce che Dio ci ama anche donandoci delle regole che ci aiutano a camminare, a vivere. E l’amore è vedere un altro che vive con pienezza un valore: l’amore è, anzitutto, l’offerta di una compagnia. Il Buon pastore conduce le pecore stando e camminando con loro e, così facendo, indica la strada giusta. Spesso invece la si vuole mostrare come un’indicazione sulla cartina, e non si fa il cammino con l’altro, non si è disposti ad accoglierlo, a sporcarsi le mani con lui.

La Chiesa oggi offre agli uomini un cammino insieme?
Credo che la situazione attuale della Chiesa metta le cose al punto giusto. Oggi più nessuno ascolta e segue un giudizio, un principio per se stesso. Oggi l’uomo dice: se non mi ami, la tua legge non mi dice proprio nulla. Non c’è più una fiducia a priori dentro la quale “verificare” una proposta. Prima, bene o male, si dava fiducia alla Chiesa. Oggi bisogna ricreare questo spazio di fiducia in cui proporre un giudizio che corrisponde di più alla felicità. Ma questo spazio lo si ricrea con una compagnia fatta all’uomo, senza la quale il giudizio non ha terreno su cui cadere. Mi stupisce molto papa Francesco per lo spazio di fiducia che si crea con lui. Le persone che incontro, le più impensate, anche tra chi non crede o viene da culture e fedi diverse, esprimono una grande fiducia in lui. Per me è incredibile. Questa fiducia che lui suscita la avverto come una grande responsabilità, mi interpella. È un tempo di grazia che Dio offre, e noi dobbiamo aiutare il Papa ad amare l’uomo nella fiducia che lo Spirito Santo crea attorno a lui.

Cosa vuol dire aiutare e seguire il Papa? Di lui magari ci colpiscono tante cose, ma è facile fermarci a quello che ci “corrisponde”, o che pensiamo di avere già capito.
Noi non sappiamo seguire Cristo. Abbiamo bisogno che la Chiesa ce lo insegni. E noi seguiamo il Papa proprio perché, attraverso di lui, Cristo stesso ci dice come vuole essere seguito. E così chiede la nostra conversione. Ogni Pontefice conduce il gregge dentro il tempo, nel pezzo di storia che Dio gli fa attraversare, ma ciascuno ci indica Cristo: questa è la fonte della certezza, che rende inutile fare i confronti tra di loro. Nei Papi della mia vita è evidente l’amore a Cristo, ciascuno ha vissuto il suo ministero preferendo e seguendo da vicino Gesù. Ed è così che loro si orientano. Il Signore chiede alla persona del Papa: «Seguimi per primo», affinché anche noi possiamo seguirLo. Perché Giovanni, il discepolo prediletto, lascia entrare Pietro nel sepolcro prima di lui? Perché intuisce che per vedere e credere ha bisogno di seguire Pietro, di seguire Cristo seguendo Pietro che Lo segue per primo.

Che cosa è più importante per il “dopo” Anno Santo?
Il debitore, a cui è stato rimesso tutto il debito, al primo fratello che incontra non rimette neanche il minimo che gli deve. Ha già dimenticato. È questo il problema: il passaggio tra l’aver tutto ricevuto e la misericordia che l’altro ci chiede. La misericordia ricevuta si diffonde se rispondiamo alla misericordia che ci è chiesta. Peraltro, tra le due c’è una sproporzione immensa... Ma un minuto dopo che ci è stato rimesso tutto senza misura, siamo capaci di metterci a calcolare. E parlo innanzitutto dell’incontro con la nostra famiglia, gli amici, la propria comunità, i più prossimi. Subito, al primo incontro, siamo già aguzzini. Abbiamo già dimenticato. Questo è importante per il “dopo” Anno Santo: che non dimentichiamo. Questa è la grande coscienza che ci è chiesta. E per la quale dovremo chiedere ancora e sempre misericordia.