Dieudonné Nzapalainga

Nel cuore della prova

«Non sono stato chiamato per me stesso». Dieudonné Nzapalainga, il più giovane dei neo Cardinali, racconta la sua vita (senza scorta) in Centrafrica. La vocazione, la guerra, l’imam ca casa sua... E perché lui non ha paura (da Tracce, novembre 20
Maurizio Vitali

Sabato 19 novembre, vigilia della chiusura dell’Anno della Misericordia, il Papa terrà un Concistoro per la nomina di 17 nuovi Cardinali. Provengono da 11 nazioni distribuite in tutti i continenti. Questo - ha detto il Pontefice - «esprime l’universalità della Chiesa che annuncia e testimonia la Buona Novella della Misericordia di Dio in ogni angolo della terra». Dal Nunzio apostolico in Siria al vecchio eroico prete d’Albania, dai prelati statunitensi ai pastori di Paesi poveri e tormentati, se c’è un filo rosso che li unisce è la testimonianza missionaria nelle diverse periferie esistenziali. I più anziani sono quasi novantenni: la porpora è per la testimonianza, non per una strategia futura. Il più giovane è un leone d’Africa di 49 anni, il suo nome è Dieudonné Nzapalainga ed è arcivescovo di Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana. Francesco ha inaugurato l’Anno Santo aprendo la porta della sua cattedrale, un anno fa. Leone, sì, e non per modo di dire. Per dire la statura d’uomo e di fede, è uno che nel mezzo di una feroce guerra civile, che per di più sembra (ma non è) di religione, se ne va in giro nei quartieri più pericolosi, dove solo soldati e ribelli osano entrare: essi armati sino ai denti, lui senza giubbotto antiproiettile né scorta. Per incontrare la povera gente, i bambini, i profughi, le vedove, i malati. A cristiani, musulmani, animisti chiede di smettere di odiarsi. Indica il perdono come unica via della dignità della persona e della riconciliazione del Paese.

Eminenza, qual è stata la sua prima reazione alla notizia che papa Francesco l’ha nominata Cardinale di Santa Romana Chiesa?
Quando mi è giunta la comunicazione, mi sono sentito confuso e quasi perso. Ma subito ho pensato alla povera gente di Bangui e ho avuta chiara la coscienza che non sono stato chiamato per me stesso ma per il mio Paese, per il popolo africano. Ho provato un’immensa gratitudine a Dio e al Santo Padre insieme a un senso profondo di umiltà, considerando che Francesco prima è venuto nella Repubblica Centrafricana, a visitare una Chiesa povera che vive una situazione difficile, piena di sofferenze e di tristezze; e oggi, ancora, egli chiama uno dei figli poveri di questa Chiesa, per essergli vicino e per promuovere il perdono e la riconciliazione.

Lei vive in un Paese poverissimo, il reddito medio è di un euro al giorno. Lei stesso è nato in una famiglia molto povera e numerosa.
Poverissima, eravamo 14 tra fratelli e sorelle. Mio papà era cattolico, mia madre protestante.

Che cos’è per lei la povertà?
La coscienza che il Signore ha avuto pietà di me, del mio essere poca cosa. Facendosi incontrare, dandomi la vocazione sacerdotale, fino a divenire Cardinale. Non posso che essere portavoce dei poveri, sapendo che povertà è quella materiale ma anche quella spirituale.

Come è nata la sua vocazione?
Dall’incontro con un sacerdote europeo spiritano (della Congregazione dello Spirito Santo, di cui anche il Cardinale fa parte, ndr.). Egli veniva nel nostro quartiere, stava con noi ragazzi a giocare, a mangiare, insomma a condividere la nostra vita. Pensavo: un europeo che sta con me, straordinario!

Che possibilità reale c’è di riconciliazione, in un Paese così squassato dalla povertà e dalla violenza?
Papa Francesco è venuto ad aprire la Porta Santa della nostra Cattedrale per inaugurare il Giubileo della Misericordia, dopo un periodo di divisioni e di scontri. Quel giorno la gente gremiva le strade della città, uffici e negozi erano chiusi, ed era tutta un’esplosione di gioia e uno schiamazzo festoso di clacson. Io vedevo quei volti di persone felici, contente, che esclamavano: «Grazie a Dio! Grazie a Dio!». È gente straziata dalla povertà e dalla violenza che attende una parola di pace e di felicità.

La visita del Papa e l’Anno della Misericordia hanno inciso, a suo giudizio, sulla vostra situazione?
La visita del Papa è un punto di non ritorno della nostra storia. Egli è venuto tra noi senza farsi frenare dal clima di violenza e dalla situazione di disordine e di pericolo. Francesco ha osato. Ha osato in quanto uomo di fede, ed è venuto a stare con noi. Così egli ha toccato il cuore di tutti. La gente si è trovata di fronte a un uomo felice, che con semplicità ci diceva: io vengo con voi e non ho paura. Fra questa gente c’erano anche molti, molti musulmani.

Questo a livello dei cuori e delle coscienze. E sul piano sociale e politico?
Francesco ha testimoniato pubblicamente, di fronte a tutti, che insieme, e solo insieme, è possibile perseguire la pace e costruire il Paese. Ha dato un senso al nostro stesso essere centrafricani. Egli ha mostrato che esiste un terreno comune per cercare di far incontrare e dialogare le diverse posizioni in campo e lavorare per la riconciliazione nazionale.

Il messaggio è stato recepito o è scivolato via dopo la comprensibile emozione?
I giovani, soprattutto, hanno percepito che le barricate potevano cadere, che i muri potevano essere abbattuti.

Eminenza, si dice che lei va molto in giro per la città a incontrare gente di tutti i tipi e in tutte le situazioni. È vero?
Sì, certo.

Con la scorta?
No, no, scherza? Vado a piedi o, se lontano, in auto. A volte guido io.

Perdoni la domanda diretta e un po’ banale, ma... non ha paura?
(Ride divertito) Il martirio l’ho sempre concepito connaturato allo stesso essere cristiano. Guardi, dovesse succedermi qualcosa, mi sentirei per le strade di Bangui come seguendo a Gerusalemme il cammino di morte di Gesù. Paura? Be’... Comunque il perdono e la riconciliazione sono più forti della paura. Perché sono il modo di essere di Cristo.

Quindi lei frequenta abitualmente anche il famigerato “Km 5”, il quartiere musulmano sistematicamente scosso da episodi di violenza?
Vado spesso a incontrare i miei fratelli e le mie sorelle per dire loro che dobbiamo ritrovarci, lavorare per il ritorno della pace, della giustizia e della riconciliazione, e questo richiede di accettare che possiamo sotterrare le nostre asce di guerra e lottare contro gli estremismi di una parte e dell’altra.

All’inizio di ottobre, proprio nel “Km 5”, ci sono stati scontri e uccisioni dopo l’assassinio di un generale dell’esercito, il comandante Marcel Mombeka. Il fatto ha mandato la tensione alle stelle. Lei può ancora tornarci?
Guardi, qualche giorno dopo l’assassinio, il 13 ottobre, ho guidato una marcia per la pace in quel quartiere.

Come è andata?
Con la folla esultante abbiamo marciato per invitare al dialogo e alla fine delle paure. Le racconto due episodi che mi hanno particolarmente colpito. A un certo punto una capra si è piazzata in testa al corteo ed ha marciato silenziosamente con noi. È diventata la nostra mascotte. Anzi, il segno che anche gli animali sono per la pace tra gli uomini in Centrafrica... Poi mi sono fermato presso un gruppo di giovani ed ho parlato loro di pace e di perdono. Sono entrati nella loro casa e ne sono usciti consegnandomi un giovane che tenevano prigioniero, senza dubbio con l’intenzione di giustiziarlo.

E poi? Ha potuto parlare a tutti, pubblicamente?
Sì, senza problemi. Ho sottolineato che noi cristiani insieme ai musulmani abbiamo cantato l’inno nazionale per mostrare al mondo intero che siamo tutti centrafricani. Che si tratti di musulmani, cattolici, protestanti, animisti, siamo tutti centrafricani.

Che reazione c’è stata?
La gente ha approvato con riconoscenza, esclamando più volte: «Allah akbar», Dio è grande. E allora ho proseguito dicendo che nessuno potrà costruire il nostro Paese al nostro posto. Che è giunto per noi il tempo di amare. E per questo ho chiesto che venga spenta la collera che è in noi.

Quella tra Séléka e anti-Balaka non è una micidiale guerra di religione tra musulmani e cristiani?
No, è una guerra politica. Le autorità religiose cristiane e musulmane hanno sempre detto di fare attenzione perché i Séléka non si battono per Maometto e gli anti-Balaka non lottano in nome di Gesù, ma lo fanno per i propri interessi. Gli anti-Balaka si definiscono cristiani, in realtà non lo sono e usano il nome di Dio come scudo. Un cristiano non uccide e il cristianesimo insegna a perdonare.

Cosa significa per lei vivere la fede in un contesto così tormentato?
Avere fiducia in Dio sempre, specialmente nel cuore della prova, ed avere il dono di una forza interiore che ci rende capaci di stare di fronte anche alle situazioni più assurde e disumane e, come dire, sopravanzarle. Significa ricordarsi continuamente che Cristo in croce ha detto: «Padre, perdonali». Così ha acceso una luce nella oscurità brutale del mondo. La logica del perdono è la sola che può spezzare la catena delle violenze. E noi sappiamo con certezza che il Signore è fedele.

È vero che l’imam di Bangui, Oumar Kobine Layama, vive a casa sua?
C’è stato per cinque mesi. Si era trovato nel bisogno di un alloggio sicuro e tranquillo, perché dove abitava era troppo pericoloso. Così gli ho dato le chiavi di casa. Eravamo già molto amici prima, insieme abbiamo fatto molte iniziative per la pacificazione, e lo siamo ancor più adesso. Abitare insieme ha significato sperimentare quello in cui entrambi crediamo, e cioè che la religione unisce gli uomini, non li fa essere soli, li sostiene nel loro fare comunità e li rende amanti e custodi della vita.

Da anni lei è attivo sulla scena pubblica per un’impresa incredibile, affermare il dialogo e la pacificazione per superare la violenza più feroce che domina. Che cos’è per lei la speranza?
È volgere lo sguardo a Cristo. Nulla è impossibile a Dio. Ma Dio non fa nulla senza di noi, senza la nostra libertà. Per vincere la paura, dobbiamo solo rispondere all’appello del Signore e vivere in comunione con lui e con i fratelli.

Ai fratelli cristiani europei, che messaggio vorrebbe mandare? Cosa chiederebbe?
La preghiera. Cioè la coscienza che Dio è tutto e senza di lui l’uomo è nulla. Questa è la radice della nostra unità di fratelli e sorelle.

Ci dica un’ultima cosa. Cosa significa per lei e per la sua gente, un anno dopo, la visita del Papa?
Semplicemente questo (che si legge all’inizio della Prima lettera di san Giovanni, ndr): «Le nostre orecchie hanno udito, i nostri occhi hanno visto, e noi abbiamo contemplato, e le nostre mani hanno toccato...» la presenza del Signore che è venuto a visitarci, ad aprire la Porta e a dirci: entrate!