Il cardinale Renato Corti

Esploratore dello spirito

È scomparso a 84 anni il cardinale Renato Corti. Vescovo emerito di Novara e già Vescovo ausiliare di Milano, aveva ricevuto la porpora da papa Francesco nel 2016. Tracce lo aveva intervistato all'indomani del riconoscimento
Maurizio Vitali

Il neo-cardinale ha appena terminato la lettura di Ultime conversazioni di Benedetto XVI. Sulla scrivania, un mucchietto di fogli minutamente scritti a mano conservano passaggi salienti, annotazioni, riflessioni, spunti di approfondimento, vere e proprie meditazioni. «Ho optato da tempo per una lettura lenta: mi obbliga a selezionare ciò che vale la pena e lasciar perdere l’inutile. Così il libro diviene come un’interlocuzione con l’autore che arricchisce». Sicché, Eminenza, lei sta intrattenendo un dialogo con il Papa emerito. «Sì! Stimo molto Benedetto XVI per la sua mitezza, la gentilezza, la straordinaria precisione del pensiero e la capacità di esprimerlo con semplicità...».
Monsignor Renato Corti, ottantenne Vescovo emerito di Novara, e in precedenza vicario generale del cardinale Martini a Milano, concede questa intervista a Tracce pochi giorni prima di ricevere la porpora cardinalizia dalle mani di papa Francesco nel Concistoro del 19 novembre. Con lui e con altri 15, l’ha ricevuta anche Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo di Bangui, che Tracce ha intervistato per il numero di novembre. Colpisce dei due la vistosa differenza dei temperamenti personali, oltre che dei contesti del loro ministero. Il quarantanovenne africano ha la stazza fisica del lottatore e vive nella baraonda miserabile e violenta della capitale centrafricana dove in nome di Cristo sparge carità e getta coraggiosi ponti di dialogo. L’ottantenne italiano ha una figura esile e ascetica, vive nella linda quiete di due modeste stanzette del Convento degli oblati di Rho, alle porte di Milano, e divide il suo tempo fra lo studio, l’aiuto spirituale alle persone, l’attività pastorale nelle parrocchie. Francesco ha voluto chiamare vicino a sé l’uno e l’altro, accomunati dalla stessa certezza della fede e dalla stessa testimonianza a Cristo senza riserve.
Corti ha già collaborato da vicino e con discrezione con gli ultimi tre Papi. Nel 2005 ha predicato gli esercizi spirituali alla Curia vaticana cui prese parte, per l’ultima volta, papa Giovanni Paolo II. L’anno scorso ha scritto le meditazioni per la Via Crucis di papa Francesco. Quanto a papa Ratzinger, fu lui a proclamare beato Antonio Rosmini «accogliendo - come si legge nella sua Lettera apostolica - il desiderio del nostro fratello Renato Corti, vescovo di Novara».
«In effetti, durante la visita ad limina dei vescovi piemontesi, parlai con il Santo Padre della causa di beatificazione di Rosmini (che morì a Stresa nel 1855). Mi accorsi che il Papa e teologo tedesco conosceva piuttosto bene questo religioso e pensatore italiano. Egli agì con grande sensibilità e in tempi record: dopo una settimana soltanto mi fece chiamare per fissare la data della proclamazione. Era il novembre del 2007».

Mi ha colpito, preparando quest’intervista, un passaggio delle Ultime conversazioni in cui Ratzinger condivide una frase di Romano Guardini: «Invecchiando non diventa più facile ma più difficile», perché da un lato la nostra vita ha assunto la sua forma, dall’altro sentiamo molto di più la gravità delle domande. Che cosa ne dice?
È così. Il grande poeta inglese Thomas Stearns Eliot, in un sonetto, propone agli anziani di rimanere degli esploratori. Si tratta di ritornare sulle cose studiate magari trent’anni prima, non nel senso che si ricominci daccapo, ma nel senso che è possibile una profondità sempre maggiore sulle questioni di fondo: chi è l’uomo? Chi è Dio? Qual è il Mistero che ci circonda? Io, nel mio piccolo, cerco di restare esploratore e mi chiedo ogni giorno: ma oggi non è che ho letto un brano, un versetto, o è accaduto qualcosa che vale la pena mettere nel diario?

Lei tiene un diario?
Sì. È un modo per fare attenzione e reagire a quello che incontro o che succede, dicendo a me stesso che cosa mi viene suggerito di tenere presente. Avere programmaticamente, metodologicamente, attenzione a non passare da una cosa all’altra senza dare tempo al pensare - come ad esempio notava Madeleine Delbrêl (assistente sociale, poetessa e mistica francese, morta nel 1964, di cui è aperta la causa di beatificazione, ndr.) - mi sembra molto importante.

Oggi prevale invece il consumo veloce delle esperienze...
Mi rendo ben conto che questa mia scelta oggi è un po’ eccezionale. Per lo più si corre, si corre, si corre, e tutto viene travolto da ciò che viene dopo e non si sa infine che cosa rimanga.

Il fatto di essere stato nominato Cardinale che cosa cambia nella sua vita, nel suo modo di essere pastore d’anime e, anche, esploratore?
Più i giorni passano e più mi rendo conto che non è un’onorificenza. È, invece, una responsabilità grande che mi è messa sulle spalle, che consiste soprattutto nell’elaborare e scrivere dei consigli (per il Santo Padre, ndr.). Ciò di cui ho molto bisogno è lo spirito del consiglio e l’esercizio del discernimento.

“Discernimento” era parola molto cara, ricordo, al cardinale Martini. È corretto dire che è sinonimo di giudizio cristiano?
Sì, direi proprio di sì. È l’elaborazione di un giudizio cristiano. Da tempo sono stato condotto a riflettere su quali siano le regole fondamentali di questa elaborazione e dunque della possibilità di dare dei consigli. Recentemente sono stato interrogato proprio su questo in una conferenza che ho tenuto ai preti della Diocesi di Chiavari.

E che cosa ha risposto?

Ho detto che la prima regola è essere veri con se stessi. La vita mi ha fatto toccare con mano, attraverso casi concreti, che si possono passare degli anni, se non addirittura una vita intera, dentro a una falsità, a una doppiezza. Penso innanzitutto, come causa, al peccato originale e alla debolezza che abbiamo in noi. Può essere la superficialità nel trattare le cose, o il desiderio di apparire, di far carriera... Tutto può entrare falsificando la vita, per cui a parole, o in certi contesti, si è una cosa, però poi si è un’altra cosa.

Dunque la prima questione riguarda proprio il soggetto. E in che modo questo soggetto concretamente giudica le cose da cristiano, cioè esercita un autentico discernimento?
Primo, chiarendo bene lo status quaestionis. Occorre andare oltre la superficialità e il pressapochismo e compiere un lavoro lento, umile e faticoso di conoscenza della realtà che ci si presenta. Secondo, ricordandosi che il discernimento cristiano è un atto spirituale il quale richiede che entrino in gioco e costituiscano il contesto di questo lavoro la preghiera, l’ascolto della Parola di Dio, il confronto con i fratelli nella fede, il confronto con chi ha responsabilità nella vita della Chiesa. Il discernimento è un cammino di obbedienza che chiama in causa me, ma chiama in causa la Chiesa; è l’obbedienza della Chiesa nel momento stesso in cui siamo chiamati all’obbedienza alla Chiesa. E io, ora, vorrei tenerlo presente ancor più di prima.

In che senso?
Leggo la mia nomina a Cardinale come un invito a seguire attentamente la vita della Chiesa, a fare discernimento e anche ad esprimerlo. I Cardinali sono una piccola équipe chiamata attorno al Papa ad aiutarlo: io non penso alle cerimonie o a cose del genere, ma a questo lavoro più di sostanza sui tanti problemi delicati e complessi che ci stanno di fronte.

Quali sono le questioni che lei sente più gravi e urgenti da affrontare?
La lettura delle Conversazioni di papa Benedetto mi ha aiutato a identificare due punti: il disorientamento dell’uomo moderno e il calo della fede. Dice Benedetto che il vero problema, in questo momento della storia, è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini e che perciò l’umanità viene colta da una mancanza di orientamento i cui effetti disastrosi si manifestano sempre di più.

In effetti in Europa, ma direi nell’Occidente in genere, i valori fondamentali hanno perso evidenza nella coscienza morale delle persone e negli ordinamenti legislativi. Che risposta occorre dare da cristiani?
La Chiesa deve essere molto dedicata ad aiutare l’uomo a scoprire Dio come il primo e l’ultimo, perché senza questo l’uomo è come un satellite che ha perso l’orbita e vaga senza più sapere chi è, dove va e perché. Ratzinger da Cardinale sviluppò questo tema predicando gli esercizi ai sacerdoti di Comunione e Liberazione nel 1986, e lo riprese anche nel discorso di apertura del suo Pontificato. Papa Wojtyla nella Centesimus annus (1991) aveva ammonito a non illudersi che, caduto il comunismo, le cose per il cristianesimo sarebbero state comode.

Non le sembra che spesso negli stessi ambienti cattolici si badi a organizzare le proprie attività e non si abbia questa coscienza missionaria?
Penso che di questo ci si debba molto preoccupare, perché si possono fare tante cose senza andare da nessuna parte. Qui tocchiamo il secondo punto cui accennavo e che papa Benedetto (che peraltro riecheggia parole del tutto simili espresse dal suo predecessore) sintetizza dicendo che il vero problema non è il calo dei fedeli o delle vocazioni, ma il calo della fede. Per tornare al tema delle radici cristiane: nella Costituzione europea si è voluto evitare di farvi riferimento, e ciò è un male, ma la cosa seria da considerare e che molte persone sono di nome cristiane senza che ciò gli interessi poi molto nella vita reale. Perciò la risposta non può essere di tipo organizzativo, ma deve consistere nella qualità del vivere da cristiani come persone e come comunità. Occorre quella vera, autentica riforma che è il risveglio interiore. Nell’inverno della fede occorre accendere e ravvivare fuochi ardenti.

Vale a dire?
Persone. Persone e realtà anche piccole di persone che danno il primato a Dio amandolo con tutto il cuore; che seguono Gesù via verità e vita; che sono docili allo Spirito Santo Creatore, il quale «vi darà la forza e sarete miei testimoni nel mondo», devoti alla Madonna, immagine perfetta della Chiesa. E aggiungo: che frequentano la compagnia dei santi, del passato e del presente. Sono tutti fuochi ardenti che ci fanno attraversare la vita irta di problemi e di prove conoscendo quella cosa per cui siamo fatti, anche se non si osa molto esprimerla, che è la felicità. Le racconto un episodio di cui sono stato testimone. Ho seguito per decenni le monache benedettine dell’Isola di San Giulio, sul lago d’Orta. Una volta fu ospite per una settimana una signora buddhista che doveva preparare una relazione ad un convegno internazionale su come si vive la contemplazione nel mondo cattolico. Essa partecipò alle liturgie, alle preghiere e ai canti delle suore e conobbe la letizia sui loro volti. Al momento di congedarsi, ha detto alla Madre superiora: «Mi sembra di aver capito che noi abbiamo un programma, voi avete una presenza». La questione fondamentale oggi è di coltivare nelle persone e nelle comunità un percorso di santità. Alimentare il fuoco nei laici cristiani perché siano cristiani là dove sono, cioè vivano una fede che diventi cultura negli ambiti professionali e sociali, e anche politici. Perché la vita spirituale non è una parte accessoria: è il cuore dell’uomo.

Una sua riflessione a conclusione dell’Anno Santo che coincide con la sua nomina a Cardinale: che cosa ci ha portato e che cosa, soprattutto, dobbiamo trattenere.
Che cosa vuol dire che Dio è misericordioso? Trovo due risposte. La prima: Dio si è fatto uomo ed ha condiviso pienamente la vita dell’uomo. Se questa non è la Misericordia... Gesù è veramente la Misericordia di Dio. La seconda: Cristo asceso al Padre nella gloria ha aperto la strada ed è il precursore di una destinazione che è per noi: «Vado a prepararvi un posto perché là dove sono io siate anche voi». Così la vita dell’uomo è abitata dalla speranza. La glorificazione di Gesù diventa la nostra. Questa garanzia della glorificazione è la seconda forma della Misericordia. Per cui anche la morte e il terremoto, i disastri, i dolori, non cancellano la destinazione ultima che è la gloria. Di questo si è parlato, mi sembra, poco: invece lo trovo complementare con l’Incarnazione.

Come questo può cambiare la nostra vita quotidiana?
Al mattino dovremmo dire a noi stessi: lo sguardo, gli occhi che avrò oggi, devono essere misericordiosi, non rabbiosi. Le parole che dirò, non dure, ma misericordiose. Il modo di trattare le persone, non impaziente o infastidito, ma misericordioso. Ogni mattino decidere, con san Paolo, di cercare di «avere in noi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù». In questo senso l’anno della Misericordia è un’esperienza che può essere permanente.