Il cardinale Pietro Parolin e monsignor Paul Hinder inaugurano la chiesa di Saint Paul

Paul Hinder, il Vescovo migrante

Un milione di cristiani nella terra degli emiri. È il “gregge invisibile” affidato a monsignor Paul Hinder: «Sono i miei maestri di fede». Come quelle quattro suore diventate martiri in Yemen (da Tracce aprile 2017)
Luca Fiore

«Sono un Vescovo migrante di una Chiesa migrante», dice con gentile accento germanico. Paul Hinder è un cappuccino svizzero tedesco, nato a Lanterswil, un villaggio del Canton Turgovia. Il 22 aprile compie 75 anni, che per un Vescovo è un traguardo importante: dovrà presentare le dimissioni al Papa. Gli ultimi tredici li ha passati ad Abu Dhabi, sede del Vicariato apostolico dell’Arabia del Sud, che comprende Emirati Arabi, Oman e Yemen. Tutti Paesi musulmani (governati dalla sharia), ma dove ai cristiani è concessa libertà di culto in luoghi autorizzati. Dubai è il simbolo dello sviluppo di questi Paesi: un villaggio di pescatori che in quarant’anni è diventato uno dei centri del business mondiale. I capitali vengono dal petrolio arabo, ma le braccia che hanno impastato il cemento arrivano da Oltreoceano. Soprattutto da India, Filippine, Pakistan, Corea del Sud. Centinaia di migliaia di migranti con pochi diritti e salari da fame. Tra questi, moltissimi cristiani. Almeno un milione. Sono il gregge di cui si occupa tutti i giorni monsignor Hinder. E se negli Emirati Arabi e in Oman la vita dei cristiani è difficile, ma sostanzialmente tranquilla, la situazione in Yemen è drammatica. In atto c’è la più classica delle guerre dimenticate. I cristiani rimasti sono poche decine. Tra loro, ad Aden, fino a un anno fa, c’erano cinque suore della Carità e un sacerdote salesiano che si occupavano di un gruppo di disabili. La mattina del 4 marzo 2016 sconosciuti si sono introdotti nella struttura di accoglienza, hanno ucciso quattro delle suore e rapito padre Thomas Uzhunnalil. «Quello», confida Hinder, «è stato il momento più difficile».

Che cosa ha imparato in questi anni ad Abu Dhabi?
Ho dovuto imparare a essere Vescovo ed esserlo in Paesi così particolari. I miei fedeli sono stati il mio gregge, ma anche i maestri che mi hanno aiutato a crescere nella fede. Vivere in un Paese così diverso con persone culturalmente così lontane mi ha molto arricchito.

In che termini?
Qui tutti vengono da lontano, compreso il Vescovo. Siamo una Chiesa migrante. Non c’è sicurezza di cittadinanza, nessuno sa quanto potrà rimanere in questi Paesi. Questa dimensione continua a ricordarmi l’esperienza dell’Esodo, che è la storia di un popolo migrante. Così come Abramo, a cui Dio dice: «Vattene dal tuo paese e vai verso il paese che io ti indicherò». In questo senso siamo una Chiesa pellegrina.

Che caratteristiche ha questo tipo di Chiesa?
Abbiamo poche parrocchie rispetto al numero di fedeli. Ad Abu Dhabi, nella parrocchia di Saint Joseph, abbiamo 18 messe festive. La lingua comune è l’inglese. Però celebriamo anche in altre lingue, perché le nazionalità sono una novantina. Ogni chiesa ha attorno un compound, che diventa non soltanto un punto di incontro per la preghiera, ma un luogo dove la gente si trova e si sente a casa propria. È un posto dove si pratica la fede, ma si vivono anche relazioni sociali con persone del proprio Paese d’origine o appartenenti ad altre culture. Anche se non sempre è facile partecipare alla vita della comunità.

Perché?
Chi vive nei residence vicino ai luoghi di lavoro - qui in pochi si possono permettere l’auto - il venerdì deve fare 100, 150, a volte 300 chilometri per venire a messa.

La chiesa di Saint Paul, seconda parrocchia nell'Emirato di Abu Dhabi

Quali sono le altre sfide?
Innanzitutto mantenere la fede in un contesto che, se non si può definire ostile, non si può neanche considerare favorevole. Vivere come minoranza in una società così fortemente segnata dall’islam non è semplice: a volte si ha timore di dirsi per le conseguenze sul piano professionale. Ma su questo, generalmente, sono ammirato dalla fedeltà della nostra gente, nonostante tutto. È chiaro, dipende dal contesto: c’è chi è benestante e chi deve lottare per sopravvivere. Tutti hanno entrate più o meno regolari, anche se modeste. Ma molto del denaro è destinato alle famiglie in patria. E poi, per molti, c’è la solitudine. Lo sposo o la sposa sono a migliaia di chilometri e per nessuno è facile vivere da celibe in una situazione così.

Come la fede è d’aiuto in queste circostanze?
Qui o si va alla radice, oppure la fede la si perde. L’altro giorno erano ospiti da noi due sacerdoti dall’India e mi dicevano che la stessa gente è più coinvolta nella vita della comunità qui che non a casa propria. La vita del migrante è così: ti costringe a cercare di andare più a fondo. Non dico che sia la condizione ideale, ma tanta gente viene da noi a pregare durante i giorni feriali, tanti partecipano a gruppi carismatici, sono assidui ad accostarsi alla vita sacramentale. Li guardo e mi sento piccolo di fronte a questa intensità di fede che, nelle sue espressioni, è molto lontana dalla sobrietà svizzera nella quale sono cresciuto. All’inizio non è stato facile abituarmi e ancora oggi, a volte, devo mettere un freno perché si corre il rischio di esagerare.

Come sono cambiati i rapporti con il mondo musulmano in questi anni?
L’impressione è che, almeno per gli Emirati Arabi e l’Oman, la situazione sia migliorata rispetto al mio arrivo. Forse col tempo ho ridotto le mie aspettative, ma nel frattempo ho anche imparato la pazienza e la sto continuando a imparare. Oggi i rapporti con le autorità sono diversi e anche io mi sento più libero e più accettato. Per uno svizzero non è mai facile muoversi in un contesto monarchico.

Pazienza per cosa?
Ci sono state mille difficoltà, ma qualche cosa siamo riusciti a fare: negli ultimi dieci anni abbiamo costruito o riaperto sette chiese. Qui negli Emirati abbiamo inaugurato due nuove scuole e l’emiro di Ras al-Khaimah ci ha donato un grande terreno per costruirne un’altra. È un gesto che all’inizio del mio mandato non avrei mai immaginato possibile.

Scuole per chi? Per i figli dei migranti?
Sulla carta sono aperte a tutti, però per la maggior parte servono i figli dei cristiani. Ma non solo: da noi vengono musulmani, buddhisti e induisti. In quelle di Dubai e Fujairah si sono iscritti anche diversi emiratini.

Che impressione fanno, viste da Abu Dhabi, le difficoltà che si vivono in Europa nell’incontro con il mondo musulmano?
Mi colpisce l’atmosfera di paura che si sta creando. Ma il clima, che i partiti di destra ed estrema destra contribuiscono ad alimentare, mi pare ingiustificato. Progressi ne sono stati fatti sul piano dell’integrazione, in Italia soprattutto. I problemi ci sono, sono stati commessi degli errori, è vero, ma si è creata un’atmosfera di sospetto che vede un terrorista dietro ogni musulmano. Io vedo dei progressi, soprattutto in Italia. Ci vorrebbe più coraggio per entrare in rapporto con queste persone e conoscere meglio il loro mondo.

Cos’è stata per lei la tragedia di Aden?
È stato un colpo molto duro. Mi trovavo in Svizzera e ho dovuto occuparmi di portare in salvo la suora sopravvissuta. Ad oggi non sappiamo ancora esattamente chi siano i responsabili. Sappiamo di un gruppo radicalizzato che fa riferimento a un imam della moschea vicino a un luogo dove stavano le suore. Sapevo che era rischioso per loro restare, ma non mi sarei mai aspettato un atto criminale del genere.

Sono martiri?
Sì, la loro è la testimonianza dei martiri della fede. Una fede che spero porterà frutti nel futuro. Ma non dimentichiamoci le altre dodici persone uccise nell’attentato, di cui solo una era cristiana: gli altri erano musulmani colpevoli di collaborare con l’opera di carità. Sento di essere corresponsabile di un dramma che avrebbe potuto essere evitato. Dall’altra parte sono ancora convinto che la loro presenza, la loro testimonianza, era importante in un Paese distrutto da una guerra che è civile, ma causata da interventi dall’esterno.

L’unica sopravvissuta è suor Sally. L’ha incontrata?
Mi ha detto che è pronta a tornare ad Aden e aspetta il giorno in cui potrà farlo. Lei è sostanzialmente l’unica testimone di quanto successo. Qualche settimana fa, ad Amman, in Giordania, ho celebrato una messa in memoria di queste quattro suore insieme alle loro consorelle. Una dozzina di loro le avevo conosciute perché in passato erano state in Yemen. Alcune di loro lavorano altrove, altre attendono di poter tornare ad Aden.

E padre Thomas?
Chiedo al Signore che ci dia la grazia di riportarlo a casa sano e salvo. Prego per lui tutti i giorni e invito a farlo, ma non faccio dichiarazioni su questa vicenda per non dare segnali sbagliati a chi lo tiene prigioniero.